7Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. 28Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. 29Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. 30Io e il Padre siamo una cosa sola».
La quarta domenica di Pasqua, ogni anno, sviluppa il tema del Pastore bello, proponendo la lettura di parte del capitolo 10 di Giovanni. La narrazione è ambientata durante la festa di Hannukkah, la dedicazione del Tempio di Gerusalemme che celebrava la purificazione ad opera di Giuda Maccabeo, dopo la violazione dei re siro-ellenisti nel 164 a.C.
Gesù sta passeggiando nel tempio, sotto il portico di Salomone, dove di solito si riunivano i rabbini per dirimere le questioni giuridiche che potevano sorgere. I capi religiosi sono attorno a Gesù perché cercano di trovare nelle sue parole qualche espressione per cui poterlo accusare di bestemmia, avendo già deciso di ucciderlo. Essi pongono a Gesù una domanda insidiosa, chiedendogli di affermare una volta e per tutte in modo chiaro se è lui il messia atteso.
Gesù non risponde ma tronca bruscamente il discorso dicendo loro che essi non c’entrano nulla con il suo gregge, ma sono lupi, ladri, briganti… I capi religiosi sono espressione del regno vecchio, dominate dalla logica del potere che vuole schiacciare gli altri, non del regno che Cristo è venuto instaurare.
Israele aspettava un liberatore che instaurasse il regno di Dio; ma questi avrebbe avuto le stesse caratteristiche degli altri sovrani, solo avrebbe fatto d’Israele il regno che dominava sugli altri popoli.
Gesù, invece, sta dando inizio a un regno nuovo, dove saranno i poveri i protagonisti.
La breve pericope delinea i tratti caratteristici delle pecore di Cristo, il pastore bello: anzitutto ascoltare e riconoscere la sua voce. Ascoltare è uno dei verbi chiave d’Israele, come sintetizzato dalla preghiera dello Shemà. Nella Bibbia il rapporto tra Dio è l’uomo non è caratterizzato dalla visione, ma dall’ascolto della parola del Signore, che non è un mero atto di audizione, ma l’adesione fiduciosa alla volontà di Dio. Chi appartiene al gregge di Cristo è chiamato ad ascoltare la sua voce, a discernere in base alla testimonianza interiore dello Spirito.
Il secondo verbo sottolinea come il Pastore “conosce le sue pecore”: non è solo una conoscenza intellettiva, ma indica una dimensione relazionale forte, sponsale, il dono di sé all’altro. Gesù mostra la piena comunione di vita tra sé e il gregge che ha accolto la sua proposta di vita. Il terzo verbo è quello della sequela: seguire Gesù significa scegliere di non ripiegarci su noi stessi ma di pensare al bene dei fratelli.
Gesù promette alle sue pecore di “donare la vita eterna”, non la vita biologica; questa vita non è un premio futuro, ma è una realtà dell’oggi, è la vita dell’Eterno che si sviluppa e cresce fino a manifestarsi in pienezza alla fine della nostra vita biologica. Gesù ci dona la sua stessa vita e le sue pecore non periscono: nel dono della vita per amore, Cristo cresce in noi e niente dell’amore che ha costruito in noi verrà meno.
Nessuno può strappare a Gesù, il Pastore, le sue pecore e questa sicurezza è il tratto fondamentale su cui è fondata la speranza del discepolo e della chiesa. Lupi e briganti non potranno rapire le sue pecore, non potranno sconfiggere l’amore di Cristo per noi. Tale fiducia ha il suo fondamento nell’amore del Padre, nella sua potenza che non teme confronti. Nessuno può strappare al Figlio le sue pecore, perché il “Figlio e il Padre sono una cosa sola” (Gv 10,30). Il Figlio porta a compimento l’unico progetto di amore del Padre: siamo avvolti da un grande amore.
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