Non sono un politologo e non pretendo di fare un’analisi dei risultati di queste elezioni. Mi basta constatare che il giudizio unanime degli esperti, in proposito, è espresso in una parola: ingovernabilità. Mi interessa molto, invece, cercare di comprendere la mentalità di coloro che, con il loro voto o il loro non-voto, hanno determinato una situazione definibile col titolo di un vecchio romanzo: “E adesso, pover’uomo?”. Dal mio punto di vista, che è quello di una lettura di tipo culturale, non conta tanto chi ha vinto o chi ha perso (anche questo naturalmente mi riguarda, ma in quanto cittadino), bensì le motivazioni che hanno portato gli italiani a decretare il successo dei vincitori.
Ci sono cose che, pur non giustificandole, capisco abbastanza facilmente. La crescita dell’astensionismo, per esempio. Circa il 25% dei potenziali elettori, davanti agli ultimi sviluppi della politica italiana, non li ha ritenuti degni neppure della propria protesta. Hanno sentito in televisione (la maggior parte di loro non legge i giornali) che c’erano scandali in tutti i partiti, hanno visto (sempre in Tv) i rappresentanti dei vari schieramenti accusarsi e insultarsi a vicenda, e hanno concluso che i politici “fanno tutti schifo” e che tanto valeva restare a casa.
Credo di capire anche quelli che hanno votato per il movimento di Grillo. Loro non pensano che non ci sia nulla da fare, che, una volta eletti, i “capi” alla fine sono tutti uguali: no, loro hanno voluto pesare sulla politica e la loro protesta, se tale si può chiamare, non è un rifiuto della politica, ma di “questa” politica. Hanno dovuto constatare, come tutti noi, che la “casta” esiste e che di essa fanno parte tutti i partiti, sinistra inclusa. Li hanno visti boicottare e rimandare sistematicamente tutte le iniziative volte a ridimensionare i loro privilegi. Hanno assistito al loro naufragio, di fronte alla crisi finanziaria ed economica e al loro fallimento nell’unico compito che era loro rimasto, quello della riforma di una legge elettorale che tutti chiamano “Porcellum”.
Capisco, perciò, il loro sdegno, che li ha portati a votare per mandare a casa questa classe di parassiti che continuava a prosperare mentre il Paese, quello reale, va in rovina. Anche se mi dispiace che questi cittadini, nella loro esasperazione, abbiano trascurato di chiedersi e di chiedere ai loro candidati in che modo, in caso di successo, si potesse passare dal rifiuto della vecchia politica alla costruzione di quella nuova. Perché formule estreme ed efficaci, della serie “Usciamo dall’euro” – contro un rigore il cui vero nome è “ingiustizia” – , dovrebbero essere tradotte in precise indicazioni strategiche prima e non dopo il voto, altrimenti restano solo slogan che funzionano finché non si ha la maggioranza e non si scopre che con esse si può solo giocare in contropiede, ma non governare. Ma forse l’alternativa era la rivoluzione armata o l’assalto ai supermercati, come in altri Paesi, e riconosco che è meglio la rivoluzione pacifica, anche se velleitaria, dei “grillini”.
Mi riesce più difficile, francamente, capire gli elettori che hanno tributato a Berlusconi un vero plebiscito di consensi. È come se avessero dimenticato che era lui a capo del governo che ha fatto il deprecato (da tutti!) Porcellum. Che è stato lui, dopo aver vinto, nel 2008, con una maggioranza bulgara in entrambe le camere, a mostrarsi incapace di gestire questa maggioranza, portandola a liquefarsi e riducendosi a “comprare”, in varie forme, i voti di personaggi come minimo “problematici”. Che è stato lui al centro di un discredito internazionale che ha danneggiato seriamente il nostro Paese (e che poi ha fatto risaltare la stima tributata, poco dopo, al suo successore). Che è stato lui a negare fino all’ultimo l’esistenza della crisi, accusando coloro che avrebbero voluto discutere di come fronteggiarla, invece che di leggi ad personam, di essere delle “cassandre”. Che è stato lui ad accettare il governo tecnico di Monti ed è stato il suo partito a votare, in Parlamento, tutte le misure impopolari di questo governo, ritenendole indispensabili (anche per i colpevoli ritardi del governo precedente). Misure che poi, in campagna elettorale, ha demonizzato, come se fossero state prese da qualcun altro.
Sì, sarà per miei limiti, ma stento a capire la scelta di tanti cittadini di puntare su una riedizione di tutto questo. Tuttavia, forse una chiave c’è. La indicava un intelligente sostenitore di Berlusconi, Giuliano Ferrara, commentando questi risultati elettorali: è la lettera in cui si prometteva la restituzione dell’Imu. Anche questo, in sé, si potrebbe capire. La prima casa non è un lusso particolare e dover pagare per essa è sembrato un sopruso. Forse mi devo solo abituare all’idea che questi bravi cittadini non si siano sentiti offesi – come giustamente si sono ritenuti gli elettori della sinistra, dirottati su Grillo – da una prassi politica, opposta agli interessi della gente e al bene comune, di cui proprio il governo di centro destra è stato l’emblema, e si siano gettati a pesce sul piccolo vantaggio recato dal rimborso dell’Imu.
Viene in mente il racconto biblico di Giacobbe ed Esaù. Esaù era il primogenito, quello che doveva ereditare tutto. Ma un giorno tornò affamato dalla caccia e, vedendo Giacobbe che mangiava un bel piatto di lenticchie, accettò di barattarlo con la sua primogenitura. Con la differenza che almeno Esaù le sue lenticchie le mangiò, mentre, se Berlusconi fosse tornato al governo, avrebbe dovuto comunicare che i soldi non c’erano (la copertura annunziata, un accordo con la Svizzera, è stato smentito dal Paese interessato proprio un paio di giorni fa). Ma certamente lo avrebbe fatto con una battuta, gettando la colpa su qualcun altro, e gli italiani avrebbero sorriso.
Giuseppe Savagnone
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