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I Chiaroscuri – I migranti del Sud di cui non si parla

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La vera emergenza

Ipnotizzati dalle continue sceneggiate che vedono come protagonisti i migranti africani, sia i sostenitori del governo che l’opposizione sembrano aver del tutto dimenticato che la vera emergenza, per il nostro Paese, non è rappresentata alle poche centinaia di disgraziati che cercano di approdare alle coste siciliane, ma la fuga in massa dei “migranti economici” italiani da un Meridione sempre più disastrato.

Secondo il Rapporto Svimez 2019 su «L’economia e la società del Mezzogiorno», diffuso il primo agosto, tra il 2002 e il 2017 sono stati oltre 2 milioni, di cui 132.187 nel solo 2017. Di questi ultimi, 66.557 sono giovani (il 50,4%, il 33% dei quali laureati).

Una catastrofe. I tanti bravi italiani che in questo anno e mezzo hanno sottolineato la necessità di fermare i flussi migratori per non depauperare l’Africa dei suoi figli più promettenti, forse dovrebbero piuttosto concentrare le loro preoccupazioni su ciò che sta accadendo a casa nostra. Magari in onore dello slogan «Prima gli italiani»…

Il problema è il lavoro

Il problema fondamentale è il lavoro. Non ci sono investimenti e di conseguenza non ci sono industrie e/o attività commerciali in grado di soddisfare le richieste di assunzione da parte delle nuove generazioni. Peggio: quelle che ci sono chiudono.

Vivo in una città, Palermo, capoluogo della Sicilia, dove questo è stato il destino, negli ultimi anni, dei maggiori centri commerciali, dalla “storica” libreria Flaccovio agli empori “Grande Migliore” e “Livorsi”.

Perfino “Mazara”, il caffè, anch’esso “storico”, ai cui tavolini Tomasi di Lampedusa ha scritto “Il Gattopardo”, ha chiuso i battenti. Ed è solo la punta dell’iceberg. Decine di società, cooperative, enti, sospendono la loro attività e rovesciano sul mercato del lavoro disoccupati disperati, con famiglie da mantenere.

Giovani migranti “economici”

Quanto ai ragazzi, i migliori, quando possono, vanno via, sempre più spesso, già dopo il diploma o, al massimo, dopo la triennale, non perché al Sud i docenti universitari siano meno preparati, ma perché si rendono conto che, anche concludendo brillantemente i loro corsi di studio, dopo la laurea si troveranno a vagare nel deserto.

Le grandi aziende del Nord rispondono e propongono colloqui a chi invia il proprio curriculum solo se proviene dalla Bocconi, o dalla Cattolica di Milano, dal Politecnico di Torino, dall’Università di Bologna o simili…

Né questi giovani possono contare sulla possibilità di restare come ricercatori all’Università – una strada che affascinerebbe molti studenti capaci e volenterosi –, perché il drastico taglio delle risorse agli Atenei meridionali rende questa prospettiva paragonabile a quella di cogliere un fiore sull’Everest.

E allora, prima o dopo la laurea, vanno via. A investire e far fruttare al Nord le competenze (spesso di ottima qualità) fornite loro, con spese e sacrifici, dalla scuola del Sud.

Il “cambiamento” mancato

Meno male, dirà qualcuno, che dal 2018 abbiamo il “governo del cambiamento” che sicuramente avrà invertito questa tendenza disastrosa!

E invece no: le cose sono ulteriormente peggiorate. Perché anche i deboli segnali di ripresa del mercato del lavoro (peraltro inadeguati, come abbiamo appena visto, a fermare l’esodo) registrati nel Mezzogiorno sotto i governi precedenti, con quello attuale si sono spenti del tutto.

Leggiamo nel rapporto Svimez che la dinamica dell’occupazione al Sud presenta dalla metà del 2018 «una marcata inversione di tendenza, con una divaricazione negli andamenti tra Mezzogiorno e Centro-Nord».

Gli occupati al Sud negli ultimi due trimestri del 2018 e nel primo del 2019 «sono calati di 107 mila unità (-1,7 per cento)», nel Centro-Nord, invece, nello stesso periodo, «sono cresciuti di 48mila unità (+0,3 per cento)».

E si capisce: mentre nel 2017 il Pil è cresciuto, al Sud, dell’1%, nel 2018 la crescita si è fermata allo 0,6%.

Prospettive del Nord e del Sud

Intendiamoci: stando a questi ultimi dati della Svimez, non c’è da stare allegri neppure al Nord.

L’Italia risente di una fase di difficoltà che coinvolge tutta l’Eurozona, di cui purtroppo si è ridotta ad essere il fanalino di coda.

Ma se l’Italia rallenta, leggiamo nel report, «il Sud subisce una brusca frenata. Si sta consolidando il doppio divario: dell’Italia rispetto all’Unione Europea e del Sud rispetto al Centro-Nord».

E le previsioni sono tutt’altro che confortanti: l’Italia farà registrare una sostanziale stagnazione. Ma mentre il Pil «al Centro-Nord dovrebbe crescere poco, dello 0,3%», «nel Mezzogiorno l’andamento previsto è un calo dello 0,3%».

L’esodo migratorio dei siciliani, dei calabresi, dei pugliesi, dei lucani, dei campani, è dunque destinato a continuare e anzi ad accentuarsi.

Luci e ombre del reddito di cittadinanza

Per fronteggiare questa emergenza la componente pentastellata del governo, i cui elettori erano più numerosi al Sud, ha varato il “reddito di cittadinanza”.

Una misura sostanzialmente di tipo assistenziale, di cui è difficile dire male, quando, come me, si conoscono tante famiglie povere che la benedicono come un rimedio estremo alla loro situazione disperata; ma di cui è ancora più difficile dire bene, quando si guarda, al di là dell’ottica dell’emergenza, alle reali esigenze del Meridione, che erano quelle di investimenti produttivi in grado creare occupazione.

Non sono un economista, ma quelli, autorevoli, di cui ho letto i pareri in merito, assicurano che puntare sull’aumento dei consumi (come fa appunto il reddito cittadinanza) per far salire la produzione, è la via più lenta e problematica.

I servizi carenti

Emerge d’altronde dall’andamento dei sondaggi di opinione che la misura voluta dai 5stelle non appare risolutiva neppure ai meridionali.

Anche perché corrisponde a una crescente carenza di quei servizi pubblici che dovrebbero ridurre il carico dei privati.

Come scrive il report della Svimez,  «l’indebolimento delle politiche pubbliche nel Sud incide significativamente sulla qualità dei servizi erogati ai cittadini. Il divario nei servizi è dovuto soprattutto ad una minore quantità e qualità delle infrastrutture sociali e riguarda diritti fondamentali di cittadinanza: in termini di sicurezza, di adeguati standard di istruzione, di idoneità di servizi sanitari e di cura».

Verso un’Italia del “prima noi del Nord”?

Se invece si guarda alla componente leghista del governo, al di là dell’ossessiva insistenza sul tema delle migrazioni da parte degli stranieri (per quella degli italiani del Sud non mi risulta ci sia stato il minimo interesse), una soluzione radicale viene perseguita, indirettamente, con la proposta delle autonome regionali vigorosamente sostenuta da Salvini.

Perché il giorno – temo non lontano – in cui saranno i dirigenti scolastici della Lombardia, del Veneto e dell’Emilia-Romagna a chiamare direttamente i professori, in cui nei bandi di concorso degli enti pubblici sarà possibile inserire delle clausole che escludono anche giuridicamente coloro che vengono dalle regioni e dalle università meridionali, quando perfino per il ricovero negli ospedali avranno una lista pregiudiziale i residenti del Nord, l’esodo finirà forzatamente, perché i cittadini – specialmente i giovani – del Sud saranno semplicemente respinti ai confini di queste regioni ricche.

Ma, contrariamente allo slogan “aiutiamoli a casa loro”, sui loro territori avranno ancora meno servizi e meno opportunità, perché il surplus delle regioni più ricche, che oggi lo Stato redistribuisce a quelle che lo sono di meno, verrà reinvestito al Nord.

Si riprodurrà insomma, all’interno del territorio nazionale, il “Prima noi” – lombardi, venti, emiliani (e poi, fra poco, piemontesi, liguri…) – che ora verrà applicato agli italiani.

È ancora possibile svegliarsi?

È questa l’Italia che vogliamo? Per la gente del Sud la risposta negativa dovrebbe essere scontata, anche se in realtà i sondaggi dicono che molti meridionali credono a Salvini quando dice che dalle autonomie anche le regioni meridonali trarranno dei vantaggi (sarebbe forse meglio che spiegasse quali…).

Altrettanto scontata sembrerebbe essere la riposta degli italiani del Nord, che potranno tenere per sé i loro soldi e i loro posti di lavoro, senza più doverli condividere con i loro connazionali più poveri.

Eppure un inguaribile “buonismo” mi spinge a ipotizzare che ci siano ancora nel nostro Paese molti italiani che si ritengono membri di una comunità nazionale più ampia delle rispettive regioni e che credono, perciò, nella necessità di perseguire un bene comune che non coincide con gli interessi particolaristici di questo o quel territorio.

Persone che si rendono conto, più o meno oscuramente, che un’Italia sempre più spaccata tra un Nord prospero e moderno e un Sud ridotto a ricevere sussidi per la sopravvivenza sarebbe un disastro non solo per i meridionali, ma, semplicemente, per gli italiani.

E che perciò forse sono disponibili a fare ciò che è in loro potere perché l’opinione pubblica si risvegli e, invece di restare fissata sul falso problema dei migranti stranieri, si chieda coma affrontare seriamente quello, ben più vasto e allarmante, dei migranti italiani.

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