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Cristianesimo e sovranismo

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Le contaminazioni tra politica e religione

Nel più recente dibattito pubblico si parla spesso della strumentalizzazione politica della religione. Quasi mai, invece, della strumentalizzazione religiosa della politica, in cui non è tanto la politica a usare la religione a proprio vantaggio, quanto la religione a servirsi della politica.

E in questo, secondo alcuni, non vi sarebbe nulla di male. Il cristianesimo, si dice, è non solo un’esperienza spirituale privata ma anche un fenomeno storico-sociale che, in quanto tale, ha bisogno di essere politicamente sostenuto per sopravvivere e per prosperare.

In un vivace scambio di idee sui rapporti fra religione cristiana e politica, Rodolfo Casadei (https://www.ilsussidiario.net/news/letture-ne-teologia-politica-ne-destra-religiosa-ma-diritto-di-esistere/1924288/), in polemica con Massimo Borghesi, afferma che se non ricevesse anche un’adeguata protezione politica – come quella che attualmente le garantisce il sovranismo di paesi come l’Ungheria e la Polonia – il cristianesimo si dissolverebbe in una devota astrazione, che, come peraltro secondo Casadei sta già accadendo, finirebbe facile preda dell’ideologia politicamente corretta di chi pensa che tutto si equivalga.

Il “politicamente corretto”, scrive infatti Casadei, «ha molte più pretese del sovranismo nei confronti della Chiesa», perché «non si limita, come il sovranismo, a una strumentalizzazione esteriore di contenuti religiosi, ma esige che la Chiesa si converta al credo egualitarista, individualista, relativista».

Senza politica, niente religione

Di fronte al rischio di questa ben più aggressiva strumentalizzazione, non è sbagliato, secondo Casadei, che gli Stati utilizzino la religione come cemento e amalgama della propria identità nazionale, e che, di conseguenza, ”sacralizzino” i propri confini, difendendoli dalla globalizzazione economica e dalle migrazioni. E questo non solo a tutela della sovranità dei diversi popoli e della loro specifica identità culturale, ma anche di quello stesso cristianesimo che alcuni oggi vorrebbero invece “globalizzare” astrattamente come religione senza patria e senza storia.

Se il cristianesimo esiste ancora, prosegue Casadei, è perché, a partire dall’editto di Milano, il potere politico ha evitato la sua precoce estinzione.

Lì dove, al contrario, non c’è stato alcun potere politico a soccorrerlo, il cristianesimo è quasi scomparso, come dimostra la vicenda dei cristiani copti in Egitto: dal 642 a oggi, infatti, dopo secoli di dominazione musulmana, i cristiani copti sono passati dal 90% della popolazione al 10%.

Un compromesso necessario?

Se ne potrebbe dedurre, provocatoriamente, che se non ci fossero sovranisti che difendono il cristianesimo dalla clandestinità e dall’estinzione dallo spazio pubblico, gli anti-sovranisti cristiani non avrebbero niente da contrapporre ai loro avversari politici.

Magari Matteo Salvini non ci avrà mai pensato in questi termini, ma il politico sovranista è uno che, pagando il prezzo di una religione incarnata, non fugge in un’astorica regione in cui tutte le vacche sono nere, ma accetta di sporcarsi le mani, preservando, nella storia, quelle stesse armi che i suoi avversari, parassitariamente, utilizzeranno contro di lui.

Una tesi, questa, non dissimile da quella sostenuta da Robert Kegan nel suo Paradiso e potere. America ed Europa nel nuovo ordine mondiale (Mondadori, Milano 2003), in cui l’autore afferma che se gli europei possono permettersi il lusso di fare i pacifisti, è perché gli americani intervengono, anche in loro difesa, tutte le volte che c’è una guerra da combattere e una pace da ripristinare.

Il pacifismo europeo, insomma, come ideologia parassitaria della Realpolitik americana. Se non ci fosse un “cattivo” che si sporca le mani al fine di garantire pace e sicurezza dove queste sono minacciate, i “buoni” non potrebbero nemmeno protestare. Di più. Senza quel “cattivo”, non potrebbero nemmeno giocare a fare i “buoni”.

Cristianesimo e cristianità

Ora, è anche per questo che Casadei può dire, nel suo ultimo pezzo, che «La politica religiosa di coloro che detengono il potere e promuovono una religione piuttosto che un’altra ha un forte influsso sulle fortune delle varie confessioni religiose, comprese quelle cristiane».

Ma è davvero così? Il filosofo francese Remi Brague distingue, giustamente, fra “cristianesimo” e “cristianità”. Il sovranismo, che sia polacco, ungherese o italiano, è una forma di “cristianità”, e cioè di trasformazione del cristianesimo, che è una religione, in un costume sociale che, di per sé, può esistere politicamente e prosperare socialmente anche a prescindere dall’adesione interiore al Dio di Gesù Cristo.

Ed è qui che si colloca il principale limite della posizione di Casadei: che in Egitto i cristiani siano passati dal 90% al 10% non dice nulla sulla “fortuna” del cristianesimo, ma, semmai, della cristianità.

Lo stesso Joseph Ratzinger – più volte citato nel confronto fra Casadei e Borghesi come una sorta di arbitro della polemica – faceva notare che, quando si parla di “cristianesimo”, «la statistica mente», perché cataloga come “cristiani” «molti che in realtà sono cristiani solo di nome e di apparenza» (J. Ratzinger, La fraternità cristiana, Queriniana, Brescia 2005, p. 105).

E non si tratta, qui, di giudicare gli altri, ma di affermare con chiarezza un paradosso che i sovranisti non riescono nemmeno a concepire, e cioè quello di una religione che, a differenza di ogni altro fenomeno sociale, prospera in misura inversamente proporzionale al suo successo politico.

Il cristianesimo, come sostiene Casadei, ha davvero il “diritto di esistere”, come in una specie di lotta per la sopravvivenza nella giungla delle religioni, o il “dovere di far esistere”?

E cioè il dovere di fare spazio all’altro da sé, che, poi, è la forma specifica della sua esistenza? Altrimenti, mi chiedo, a cosa vale conservarsi in vita come “cristianità” se si perde il sapore del “cristianesimo”? O forse qui non vale l’assioma evangelico che solo chi perde se stesso si ritrova?

Sovranismo e valori non negoziabili

A questo riguardo Casadei sembra rimanere dentro la solita contrapposizione, ormai cronica nel mondo cattolico, fra difensori dei “valori non negoziabili” legati alla tutela della vita e della famiglia, e cattolici “sociali”, concentrati unilateralmente sull’accoglienza dei migranti.

Proprio il sovranismo, tuttavia, dimostra qui tutta la sua incoerenza. L’argomento sovranista che si appella alla difesa dei confini nazionali e che giustifica i decreti sicurezza si basa infatti, contro le intenzioni di chi lo promuove, sulla stessa logica dell’argomento liberale che si appella al primato della scelta femminile per giustificare l’aborto.

È la logica proprietaria dello spazio inviolabile, da preservare dal pericolo della contaminazione, rappresentato dall’ospite indesiderato, dallo “straniero” che non parla la lingua dei nostri progetti, che minaccia il nostro benessere, che viene respinto “per il suo bene”, perché non può essere “integrato”. Che si parli dell’immigrato o del feto, si tratta dello stesso identico esorcismo.

Costantino o Thomas More?

Diciamolo chiaramente. Il cristianesimo non è l’Islam, e nemmeno l’Ebraismo, i quali hanno potuto, e coerentemente, usare il potere politico, e persino militare, per affermarsi nel corso della storia, anche recente, se si pensa soprattutto al sionismo.

Diversamente da Mosè e da Maometto, Gesù è sempre stato un profeta disarmato, non solo militarmente, ma anche politicamente. La distinzione fra le cose di Cesare e quelle di Dio, nel Vangelo, non ha la funzione di condannare la religione all’irrilevanza politica, ma quella di mantenerla nell’unica posizione in cui, ben distinta dal potere civile, può dare il suo specifico contributo politico.

Ciò che sfugge ai sovranisti cristiani è appunto il mistero di un’identità religiosa tanto più forte e incisiva quanto più è politicamente debole: se Pilato ed Erode, ossia il potere politico costituito, avessero protetto Gesù piuttosto che mandarlo a morte, non solo il cristianesimo non sarebbe sopravvissuto, ma non sarebbe nemmeno nato.

Senza scadere in una compiaciuta rassegnazione, bisogna forse ricordare, in questo dibattito, che “sanguis martyrum, semen christianorum” (Tertulliano, Apologeticum, 50, 13), e che non è forse un caso se per la Chiesa di Roma il patrono della politica non sia Costantino, ossia colui che ha fatto trionfare il cristianesimo nelle leggi dello Stato, ma Thomas More, e cioè chi di politica è morto, lasciando vive, intorno a sé, leggi anti-cattoliche.

Gli effetti politici di ciò che non lo è

L’obiezione dei “cristianisti” è che in questo modo il cristianesimo diventa una setta politicamente ininfluente, che tradisce la sua missione di evangelizzazione.

È vero il contrario: solo l’accettazione di questa marginalizzazione produce gli effetti politici migliori, perché purifica il cristianesimo dalle ambigue complicità con il potere, presentandolo più credibile agli occhi della società e della politica, che potranno così ispirarvisi liberamente.

Storicamente il miglior contributo politico del cristianesimo è sempre stato indiretto. Ogni volta che i credenti hanno invece voluto trasferire direttamente il Vangelo nelle istituzioni, l’effetto è sempre stato tendenzialmente controproducente, e, a posteriori, ce ne si è quasi sempre pentiti.

Ci si pensi: se un governante avesse baciato il rosario nella res publica christiana medievale, non avrebbe avuto lo stesso effetto politico, di condivisione o di rifiuto, che, in un regime di separazione fra religione e politica, ha avuto oggi Salvini.

Si viene così a ribaltare la tesi avanzata sopra: se i sovranisti possono avvalersi politicamente del cristianesimo come collante nazionale, in fondo, è perché attingono a una sfera che non si identifica con nessuna comunità statale, e che però, proprio per questo, può essere legittimamente invocata anche per denunciare come un’indebita appropriazione la loro operazione politica.

In tal senso non è vero, come pensa Casadei, che o il cristianesimo si getta nelle braccia del sovranismo o diventa egualitarismo politicamente corretto.

Dirlo significherebbe non riconoscere alla fede cristiana alcuna specificità storica e culturale che non sia socialmente e politicamente decretata. Se così fosse in Cina non esisterebbe alcun cristianesimo.

O, peggio, quello che esiste sarebbe identificato con la Chiesa riconosciuta ufficialmente dalla Repubblica popolare e non con quello, clandestino, dei cristiani refrattari alla politica religiosa del governo.

Vangelo e politica

L’esempio della Cina dimostra, io credo, che non possiamo misurare la “sopravvivenza” e la “fortuna” del cristianesimo sulla base dalla “quantità” di battezzati o di leggi statali cristianamente ispirate.

È vero, al contrario, che solo se il chicco di grano muore porta frutto.

E Gesù non ha forse parlato, in continuità con l’idea del “resto di Israele”, di “piccolo gregge” (Lc 12, 32)?

E perché, proseguendo su questa linea, l’allentamento dei confini nazionali non dovrebbe rappresentare – penso alle politiche migratorie – oltre che una minaccia per la propria sovranità, anche un’occasione per esercitarla in modo “politicamente” più evangelico e meno autoreferenziale?

Non ci era stato detto che la massa può fermentare solo se il lievito scompare? Perché mai la legge del “muori e risorgi” dovrebbe valere per ogni ambito della vita cristiana, tranne che per quello sociale e politico?

Non sarà che il sovranismo cristiano, paradossalmente e nonostante le apparenze, non ha abbastanza fiducia nelle potenzialità religiose della politica per potersi permettere di ispirarla al Vangelo?

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