Le ultime, traumatiche vicende della Chiesa e dello Stato – le prime con ripercussioni mondiali, le seconde solo nazionali – sono in un certo senso emblematiche di un’epoca caratterizzata dalla “morte del padre” e dalla corrispondente crisi di ogni autorità. È un dato di fatto che oggi ci ritroviamo – contro tutte le legittime previsioni – , senza un Papa che guidi la comunità ecclesiale e senza una maggioranza politica in grado di governare il Paese.
C’è qualcosa di paradossale anche nel modo in cui questo vuoto di potere si è verificato: Benedetto è vivo, ma non è più il Pontefice; un partito, il PD, ha avuto più voti, ma ha perso le elezioni e non può formare il governo.
Ancora più problematica del fatto in sé e delle modalità che l’hanno accompagnato è la situazione che sta dietro questo smarrimento. In entrambi i casi, infatti, il venir meno di un “capo” indica qualcosa di più di un semplice iato procedurale. In entrambi i casi siamo davanti a un travaglio più profondo, che investe rispettivamente la compagine ecclesiale e quella statale e che sta alla radice ultima dell’incertezza attuale.
Nel primo caso, le dimissioni di Benedetto XVI giungono al termine di una fase molto complessa e delicata della vita della Chiesa, scossa da scandali e da divisioni mai venuti così apertamente allo scoperto da molti secoli in qua. Il dramma della pedofilia, coinvolgente anche le alte sfere della gerarchia (sono recentissime le ammissioni del cardinale O’Brien), l’equivocità della gestione delle finanze della Santa Sede, l’esplodere delle tensioni interne al Vaticano, di cui le vicende legate al “corvo” sono solo l’ultimo atto, hanno messo sotto accusa – agli occhi dei credenti, innanzi tutto – una struttura istituzionale che ha urgente bisogno di una radicale riforma. Non si può scherzare con la fede di tanti – vescovi, sacerdoti, religiosi e religiose, laici e laiche – che su questa Chiesa hanno scommesso la loro vita e che non sono disposti a subire passivamente gli sfrenamenti e i giochi di potere di pastori indegni.
Si potrà obiettare che in altre epoche la corruzione della Chiesa istituzionale ha assunto forme assai più gravi di quelle odierne. È vero. Ma la loro rilevanza nella coscienza collettiva era in gran parte attenuta dalla segretezza. Oggi questo – e costituisce un progresso! – è reso impossibile dalla diffusione dei mezzi di comunicazione, che rende l’effetto degli scandali ben più devastante che nel passato.
Neppure questo, però, è forse il fondo della questione. Il problema ultimo è il rinnovamento di una Chiesa che stenta ad adeguare non solo le proprie strutture, ma le proprie categorie, il proprio linguaggio e il proprio stile di vita alle trasformazioni del mondo contemporaneo. Come ha sempre fatto nelle epoche passate e come deve fare anche oggi, se vuole essere comprensibile agli uomini e alle donne della nostra.
La rinuncia di Benedetto XVI, pur motivata da ragioni personali di età e di stanchezza, ha costituito, alla luce di tutto ciò, un atto profetico di rottura che costringe a una profonda riflessione e impedisce di continuare come se nulla fosse stato. I cardinali riuniti in Conclave dovranno tener conto di ciò e lasciarsi condurre dallo Spirito nel fare una scelta che guardi al futuro più che al passato, individuando come prossimo Pontefice una figura in grado di affrontare coraggiosamente queste sfide.
Ancora più problematica si presenta la situazione sull’altro fronte, quello politico relativo al nostro Paese. Con l’aggravante che, in questo caso, invece che sullo Spirito Santo le speranze di uscirne costruttivamente sono puntate su Grillo. Anche qui siamo davanti a una crisi che ha radici molto più remote delle ultime elezioni e del loro esito. Sono ormai troppi anni che l’Italia ha visto progressivamente deteriorarsi il rapporto di fiducia della gente con i suoi rappresentanti, senza distinzione di partito. Anche qui gli scandali sono stati la punta dell’iceberg, il segno più visibile di una distorsione profonda dei ruoli istituzionali. Una Seconda Repubblica che era nata per reazione a Tangentopoli, ne ha invece rinnovato e aggravato gli abusi, aggiungendo però, alla corruzione, l’arroganza e la spudoratezza di mettere sul banco dei giudici i mascalzoni e sotto accusa la magistratura che li perseguiva.
Ma anche qui, non sono stati i singoli scandali la cosa più grave. È stato, piuttosto, il consolidarsi di una vera e propria “casta” di politici e di superburocrati, sempre più autoreferenziale – emblematico il “Porcellum”, che affida alle segreterie dei partiti la scelta dei rappresentanti del popolo! – e risolutamente decisa a mantenere i propri privilegi, anche quando la crisi rendeva sempre più difficile la vita al resto degli italiani. E questo senza che un’opposizione degna di questo nome si sia levata per denunziare e combattere una simile degenerazione della democrazia!
L’ira della gente poteva manifestarsi assaltando le sedi istituzionali o saccheggiando i supermercati. Invece si sono limitati a votare per Grillo. Di cui non si può non condividere l’invito, fatto all’attuale classe politica, di andare tutti a casa. Col rischio, però, che accompagna sempre tutte le rivoluzioni, di un populismo alla fine tirannico e liberticida. Speriamo bene.
A noi, in questo momento di vuoto, non resta che pregare lo Spirito di gettare un occhio, oltre che sul Conclave, sul nostro Parlamento.
Giuseppe Savagnone
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