Come togliere dalla strada le giovani vittime di tratta nigeriane
Tempo fa ho risposto alla richiesta di soccorso di alcune donne nigeriane, giovani mamme ex vittime di tratta, che avevo conosciuto al “Pellegrino della Terra”, un’associazione gestita da un pastore metodista nigeriano con l’aiuto dei valdesi.
A causa del turnover con cui le vittime di tratta venivano assistite, questo gruppo di donne era rimasto fuori dall’organizzazione, pur avendo maturato tanta esperienza nei confronti delle giovani vittime nigeriane che passavano dallo sportello del “Pellegrino della Terra”.
Tra queste una di loro primeggiava per le eccezionali capacità relazionali e per la forte spinta morale che la portava ad interessarsi delle ragazzine della Nigeria che sempre più numerose affollavano la Favorita e, nella notte, le strade di Palermo che erano state loro assegnate dall’organizzazione che gestiva il mestiere più antico del mondo.
La richiesta che, all’epoca, ricevetti da queste donne (la maggior parte delle quali provenienti dalla città di Benin City, capitale di Edo, uno degli stati confederati della Nigeria), era quella di dar loro una mano a fare qualcosa per togliere dalla strada quelle ragazzine costrette a prostituirsi. Una richiesta a cui sarebbe stato impossibile sottrarsi.
Migrazioni e tratta
Nel 2016, secondo i dati dell’OIM, a Palermo sono arrivati 11.000 profughi –per lo più nigeriane minorenni avviate, poi, alla prostituzione. Ballarò era diventato il quartier generale della mafia nigeriana, la Black Axe, che gestiva sia la prostituzione che il traffico di stupefacenti con il benestare del capo della mafia locale.
La prostituzione avveniva e ancora avviene, non solo per strada, ma anche nelle connection house, nelle case chiuse frequentate, soprattutto all’inizio, soltanto da gente di colore e poi aperte anche ai bianchi e ai locali.
La rete dell’organizzazione ha cominciato ad estendersi non solo a Ballarò ma anche nelle strade limitrofe.
L’associazione “Donne di Benin City”
Le donne non si scoraggiarono ma, animate da buona volontà, hanno costituito l’associazione “Donne di Benin City”che ben presto ha aperto uno sportello presso il Montevergini.
Non hanno bisogno di andare per strada a cercare le ragazze, ma è sufficiente che si inoltrino nelle strade di Ballarò per incontrarne quante ne vogliono.
Ben presto allo sportello, tramite il volantino divulgato in inglese e nella loro lingua, e grazie al servizio di contatto telefonico messo a disposizione, ha iniziato a presentarsi molta affluenza. Le vedi venire allo sportello in gruppo e si sentono a casa loro, accolte dalle “Donne di Benin City” con le quali parlano nella loro lingua e con facilità espongono speranzose il loro dramma. Esse sanno che le donne hanno vissuto il loro stesso dramma e che di loro si possono fidare. Le donne dell’associazione dalle ragazze sono chiamate mamme, secondo il loro uso africano: per loro la mamma è qualsiasi donna meritevole di rispetto per l’importanza del suo ruolo sociale.
Osas, la presidentessa dell’associazione, mamma di due bambini, è del resto materna e rassicurante con loro. Le ragazze si sfogano, vogliono uscire dalla strada o dalle connection house ma hanno paura del voodoo a cui sono state sottoposte e delle rappresaglie della maman contro di loro e contro la loro famiglia in Nigeria. È Osas, con le altre donne, a dar loro sostegno e noi uomini e donne italiani facciamo da supporto, creiamo una rete di sostegno mettendo in campo tutte le strutture a cui siamo collegati.
La questura fa la sua parte mettendosi in opera a seguito delle denunce delle ragazze, accompagnate da Osas, le strutture convenzionate accolgono le ragazze dando loro ospitalità. Il punto di forza sono comunque loro, le donne di Benin City!
I loro racconti
Ho ascoltato diversi racconti delle ragazze arrivate con i barconi a Lampedusa, dopo avere attraversato il Mediterraneo e dopo aver subito violenze e soprusi di ogni genere nei lager della Libia.
Una di loro, nonostante il sostegno psicologico di Osas, ha impiegato più di un mese prima di raccontare la terribile esperienza del suo viaggio dalla Nigeria, attraverso il Niger, il deserto, la Libia, e il terrore di morire nelle profonde acque del Mediterraneo.
Voleva dimenticare, si rifiutava di raccontare ciò che avrebbe voluto rimuovere per sempre.
L’aiuto e la vicinanza di Osas le hanno dato il coraggio di raccontare gli orrori che si portava dentro: gli orribili fantasmi della violenza subita tante volte, la morte vista in faccia quando attraversò a piedi , assieme ad altre compagne il deserto, dove vide morire alcune sue compagne di viaggio, e poi ancora nei lager e nella orribile attraversata di notte dell’immenso mare con un gommone mezzo sgonfio, la morte che spesso ha invocato quando è stata più volte brutalmente violentata, l’umiliazione di prostituirsi per strada in Italia, costretta a vendere il suo corpo ai clienti, e ancora il terrore delle conseguenze del voodoo a cui era stata sottoposta prima di partire, le botte della maman quando ritornava a casa dopo una notte in strada con pochi soldi, la sua dignità di donna calpestata per venti euro, la sua identità smantellata, i suoi sogni da ragazza frantumati…
Più di 60 ragazze vittime di tratta sono state accolte dallo sportello negli ultimi due anni e le terribili storie da loro raccontate sono la fiera dell’orrore a cui sono state sottoposte spesso ancora minorenni.
Osas e le altre donne hanno saputo accoglierle e piangere con loro e al tempo stesso hanno offerto loro la speranza, di cui loro stesse sono la testimonianza vivente.
La nuova casa di accoglienza
Lo sportello, tuttavia, ad oggi si è rivelato non più sufficiente: in tempi recenti hanno aperto una casa di accoglienza, da loro chiamata Yobosa (Dio aiuta), gestita dalle stesse donne nigeriane; una casa all’africana, una di quelle case in cui le mamme accudiscono la casa assieme alle loro ragazze e nelle quali ritrovano lo spirito autentico della familiarità delle loro dimore di origine. Una casa nella quale si parla la loro lingua e nella quale possano ritrovare la loro identità autentica, con i valori e le simbologie della loro cultura, una casa nella quale loro stesse possano cucinare le loro pietanze e gustare gli odori e i sapori a loro familiari.
Questa casa, che si trova a San Giuseppe Jato, è stata offerta in comodato d’uso da una generosa professoressa, affinché possa servire come trampolino di lancio alle ragazze africane per cominciare una nuova vita. In questa casa –aperta da settembre – le ragazze vittime di tratta, accompagnate dalle loro mamme, dovrebbero programmare il loro futuro sostenute dalle “Donne di Benin City” e da una rete sociale di sostegno a livello locale e a livello nazionale.
L’associazione “Donne di Benin City” è, infatti, sostenuta dal vescovo di Monreale Mons. Pennisi e da una rete di ONG a livello nazionale che si occupa di sostenere le donne vittime di violenza, comprese le donne vittime di tratta.
Le sofferenze, le umiliazioni di Osas e delle donne di Benin City sono diventate la Croce che portano, nel loro cuore, come segno di salvezza per tante ragazze che adesso hanno bisogno del loro coraggio e della loro forza!
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