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“Cattolici in politica? Giustamente condannati al silenzio”. Intervista a Sergio Tanzarella

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Cattolicesimo e democrazia

Il filosofo francese Jean-Luc Marion, in una recente pubblicazione, sostiene che i cristiani possono offrire alla società secolare e laica del nostro tempo un rilevante contributo per sostenere il sistema democratico messo in crisi da molteplici fattori. Di tale tema, e nello specifico del contributo che i cattolici possono dare alla vita politica del nostro Paese, discutiamo con Sergio Tanzarella.

 Ordinario di Storia della Chiesa presso la Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale di Napoli, Tanzarella, è professore invitato presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma. Eletto deputato nella XII legislatura come indipendente nei Progressisti aderì, su invito di Ermanno Gorrieri, alla componente dei cristiano-sociali.


– In un volume di qualche anno fa, Beppe Del Colle e Pasquale Pellegrini affermavano che i cattolici, nella storia d’Italia, sono passati dal potere al rischio di restare in silenzio. È così?

Come cattolici in Italia abbiamo avuto una occasione irripetibile e complessivamente l’abbiamo sprecata. Condizionati dalla guerra fredda, dall’anticomunismo e dall’unità politica dei cattolici imposta come e più di un dogma ci si convinse che la moderazione dovesse essere il carattere più importante e in nome di quella moderazione si stringevano alleanze con il potere economico e se ne tolleravano i soprusi. In luogo di cercare di costruire una società ispirata alla giustizia sociale ci si illuse che questa potesse essere sostituita con un regime assistenziale universale beneficando anche quelli che non ne avevano alcun bisogno e soprattutto senza occuparsi di una crescita della coscienza civica dei cittadini.

Il primato dell’unità politica dei cattolici arrivò a giustificare anche ogni forma di corruzione accettando che fini forse buoni fossero realizzati con mezzi certamente cattivi. Questo cedimento morale produsse danni incalcolabili non solo per le casse dello Stato ma per le coscienze facendo perdere l’occasione di una formazione che fosse veramente alternativa a decenni di una monarchia scellerata e di un regime fascista con i suoi miti di cartapesta e la sua occhiuta repressione. Bisognava dar prova di discontinuità e rottura e invece i cattolici (per il vero non solo loro) si illusero che non si dovesse fare i conti con il recente passato di allora (due guerre, una dittatura e le sanguinarie imprese coloniali), da qui le mancate epurazioni, la non attuazione della Costituzione, la sopravvivenza per 10 anni delle leggi fasciste, la sanguinaria repressione di contadini e operai: Montescaglioso, Petilia Policastro, Melissa, Modena… una scia di sangue che attraversa i primi anni della Repubblica e ne condiziona il futuro.

Ma di errore in errore si scelsero i cattolici più scaltri, quelli più pronti al bacia anello e agli inchini, quelli che a parole proclamavano e giuravano fedeltà alla gerarchia e formale ortodossia. Le frequentazioni mafiose di Andreotti, il sistema delle collusioni legate al collateralismo, il caso del ciellino Roberto Formigoni e della sua condanna per corruzione non sono che esempi. Dunque, dopo tanta occupazione del potere i cattolici italiani sono stati giustamente condannati al silenzio. Forse ciò servirà per rendersi credibili e comprendere che il potere come dominio non si ispira al Vangelo e alle sue esigenze e che ogni collateralismo è destinato a produrre disastri morali e occupazioni del potere con la pretesa di agire nel nome di Dio.

– La ricerca del bene comune è un’espressione tanto cara ai cattolici del nostro Paese. Ha ancora senso parlarne oggi? In concreto, cosa significa impegnarsi, da credenti, per il bene comune nella nostra comunità nazionale?

Un invadente materialismo confonde il bene comune con gli indici personali del diffuso possesso di cose o con la crescita del PIL. In realtà il bene comune è innanzitutto la cura del nostro presente sempre compreso come responsabilità verso il futuro. Purtroppo, la logica perversa dei sondaggi e la dittatura del consenso (e anche la corruzione) impongono l’illusione che basti raggiungere il potere – che significa la maggioranza – per sentirsi autorizzati a poter fare di tutto. I credenti, o coloro che cercano di credere, non devono lasciarsi ingannare.

La ricerca del bene comune non si improvvisa ma necessariamente è alternativa all’individualismo e all’egoismo. Il bene comune è la scommessa della condivisione e della comunità contro la dichiarazione del “prima i nostri”, questo impegno pur con grande fatica cerca la strada e i modi perché nessuno resti indietro, perché nessuno sia o si senta escluso, perché non si creino e non si giustifichino i meccanismi sociali che producono fratture e marginalizzazioni. È una ricerca sempre in divenire, non statica, perché anche la condizione del bene sempre si trasforma. Non si tratta di dichiarazioni o di buone intenzioni, ma di un progetto di società, di convivenza fraterna, di condivisione responsabile. Il bene comune è esattamente l’opposto della tentazione che si possa essere felici da soli.    

– Da Sturzo a Moro, da De Gasperi a La Pira, da Dossetti a Lazzati, i cattolici italiani ereditano un patrimonio di esperienza politica ragguardevole. Quale attualità dalla lezione di questi testimoni?

Occorre sapere che i cattolici italiani di questo patrimonio non sanno proprio nulla. Posso assicurare che anche a devoti seminaristi e ligissimi giovani preti questi nomi richiamano al più genericissimi riferimenti fino al punto di ritenere che Moro fu perseguitato dai nazisti e che a Sturzo è intitolata una piazza dove sorge il locale ufficio postale. In realtà tutti i processi formativi dei cattolici italiani prescindono totalmente da queste esperienze, e anche da altre ugualmente lodevoli. Che questo sia fatto per sciatteria o per calcolo non sono in grado di dire. Tuttavia, i sei nomi richiamano opzioni tra loro molto differenti e anche in aperta contrapposizione.

Si pensi Sturzo-La Pira, De Gasperi – Dossetti. Ma ciò che li accomuna tutti come cristiani è la convinzione di dover rendere, attraverso la politica, un servizio totalmente disinteressato senza trarre alcun vantaggio personale né diretto né indiretto. Una scelta che ce li presenta tutti come uomini liberi, inattaccabili e consapevoli della provvisorietà dei compiti loro affidati. Come diceva Dossetti il buon politico è come l’ospite di un albergo sempre pronto a lasciare la propria camera in qualsiasi momento, lasciando anche la valigia con cui era arrivato.  

 – Più che parlare di dottrina sociale della Chiesa, con il suo magistero, papa Francesco ci ricorda la globale valenza sociale dell’annuncio cristiano. Come valuta l’insegnamento sociale di Bergoglio? 

A me sembra che la infelice espressione di “dottrina sociale” sia stata sostituita da Francesco da un primato assoluto dell’impegno sociale per la liberazione dall’ingiustizia sistemica che pretende di governare il mondo e che, di fatto, schiaccia gli esseri umani. L’idea più volte ribadita dal papa è che non può esistere un annuncio che non abbia come conseguenza l’impegno per la trasformazione del mondo. Qui mi sembra emerga la grande lezione del Vaticano II poco citato dal papa perché da lui totalmente assorbito e attuato.

Qualcuno però dimentica l’ispirazione che egli trae dalla Evangelii nuntiandi di Paolo VI e dal documento finale La giustizia nel mondo del III Sinodo dei vescovi del 1971. Il magistero di Francesco appare intimamente alimentato da questi testi: si pensi al riguardo allo stesso testo sinodale che afferma al numero 6: «L’agire per la giustizia ed il partecipare alla trasformazione del mondo ci appaiono chiaramente come dimensione costitutiva della predicazione del Vangelo, cioè della missione della chiesa per la redenzione del genere umano e la liberazione da ogni stato di cose oppressivo».

In nome proprio di questa ricerca della giustizia papa Francesco ha incontrato per ben tre volte i rappresentanti dei movimenti popolari di tutto il mondo, i tre discorsi pronunciati compongono un percorso di straordinaria forza ma che al tempo stesso testimonia il pieno riconoscimento del papa a questi movimenti impegnati nella promozione dei diritti degli esseri umani e della natura a prescindere della loro particolare professione religiosa.

– L’opera educativa è sempre stata una preoccupazione per la Chiesa italiana. Nel Novecento, con la sua infaticabile attività, don Lorenzo Milani – fra le altre cose – ha ribadito l’importanza del nesso fra educazione e politica. Crede sia valido ancora oggi il suo messaggio? Possiamo parlare di un’educazione alla democrazia?

Con un’ espressione molto felice a Modica mi affidarono questo titolo in occasione della presentazione di tutti gli scritti di Milani che con altri tre colleghi (Anna Carfora, Federico Ruozzi e Valentina Oldano) abbiamo curato: “Ci aspetta nel futuro”. Certo l’Italia del lungo dopoguerra nel quale vive Milani si è trasformata e così anche le comunità cristiane, ma le intuizioni di Milani, il suo metodo di analisi della realtà, la sua parresia restano ancora una lezione che pochi, anche tra i suoi sostenitori da salotto, hanno avuto il coraggio di capire e soprattutto di attuare.

Troppa falsa prudenza, troppa diplomazia, troppi calcoli che non hanno nulla a che vedere col Vangelo. Milani, come pochi altri della sua generazione (Bianciardi, Pasolini, Silone) aveva ben inteso dove sarebbe finita la Nazione. Dietro il paravento del boom economico con il raggiungimento infinito di beni e l’appagamento di sempre nuovi falsi bisogni si nascondevano pericoli insidiosissimi, non solo un consumismo sempre più sfrenato ma un ulteriore abbassamento di senso civico e comunitario. Milani però non poteva immaginare che la sua rivendicazione di scuola e di parola per gli esclusi e i subalterni del suo tempo che fu il centro del suo impegno sarebbe stata aggirata con una scolarizzazione di massa compiuta all’interno di scuole fatte diventare aziende.

La scuola del fare, delle competenze e delle prove Invalsi è quella dell’addestramento, non quella della formazione delle coscienze e dei cittadini per cui visse Milani, è la scuola della trasmissione del sapere e non del comunicare. Per questo motivo guardandoci indietro possiamo osservare che il più grande fallimento di questi decenni di Repubblica è costituito dalla totale assenza di una attuazione della formazione del senso civico dei giovani. E tuttavia mi sono convinto, andando per l’Italia a raccontare di Milani e dei suoi scritti, che se la Nazione non è ancora affondata lo si deve a Milani e pochi altri che sono stati e sono il faro di singoli, certo dispersi anche se non pochi. Preti e insegnanti che non nascondono il loro debito nei suoi confronti e che ispirandosi a lui offrono ai giovani quella formazione alla democrazia indispensabile per essere cittadini liberi, critici e consapevoli. Una cittadinanza ancora lungi dall’arrivare, appunto in quel futuro da venire dove Milani ci aspetta.

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