La voglia di normalità
In questi giorni il sentimento più diffuso e naturale è quello di una voglia di ritorno alla normalità.
Io stesso sperimento questo sentimento. Con una certa insofferenza, infatti, vivo l’impossibilità di far più di quello che mi è consentito tra le mura del mio bilocale.
Quello che nei ristretti confini fisici di una casa non mi è mancato è stato il tempo per pensare. E la meditazione ti sorprende, un’altra volta, perché ti presenta una verità che non conoscevi, smontando le tue certezze.
Ciò che si può scoprire nel silenzio di una meditazione è che certi eventi – nella loro drammaticità – sono rivelatori.
Il mio cuore – per esempio – sollecitato dalla meditazione, mi ha svelato una verità; come il sole, che – al disperdersi delle nuvole dal cielo, con il soffiare del vento – illumina più chiaramente la valle che si apre davanti ai nostri occhi.
La riflessione silenziosa mi ha svelato che ciò a cui il mio cuore tende di più non è semplicemente un ritorno alla normalità, no, non è il desiderio di un ritorno al passato così come lo abbiamo conosciuto; ma qualcosa di diverso.
E spero che anche altri si domandino se – quando tutto sarà passato – non occorrerà cambiare qualcosa nelle nostre vite.
Io, sinceramente, credo di si.
La capacità del virus, nato in in un bancone di un mercato cinese, di raggiungere il nostro Paese e di presentarsi dentro le nostre case, è tutto frutto della biologia? No, il virus e la sua capacità di diffondersi deve molto alla lealtà dei suoi alleati, alleati che – paradossalmente – noi stessi abbiamo fornito al nostro nemico.
Uno status imperfetto
La nostra vita nei giorni precedenti al virus non era perfetta, il comandamento del “chi si ferma è perduto” e a cui ognuno di noi, consapevolmente o meno, aderisce è stato il principale alleato del Coronavirus.
Ciò che l’uomo contemporaneo sa fare meno è infatti fermarsi, accontentarsi.
L’ospite del virus è un uomo che non accetta di essere semplicemente uomo e in quanto tale finito.
Ci siamo dimenticati che l’uomo non è solo, come ci ha ricordato Joseph Ratzinger, “libertà che si crea da sè”, ma è ancor prima creazione.
Questa semplice verità è capace di rivoluzionare il nostro punto di vista, rivelandoci la limitatezza umana.
Chi può negare che l’uomo del 2020 sia quello a cui la società chiede ogni giorno di superare se stesso, nelle relazioni lavorative, in quelle di amicizia o in quelle amorose?
Ognuna di queste relazioni – per essere considerata in linea con il sentire comune – deve essere informata al principio utilitaristico, caro alla cultura occidentale e all’unica vera religione universale, il capitalismo.
Il comandamento “del chi si ferma è perduto” ci ha convinti che un’azione ha senso solo e soltanto se è capace di produrre un evento misurabile in termini di utilità. È come se tra azione umana ed evento il nesso di causalità possa spiegarsi solo se retto dalla “legge utilitaristica”. Ciò significa che se un’azione non è mi è utile, poichè non mi apporta nulla in termini materiali, non va fatta.
La dittatura del profitto
Si spiegano così la corruzione nel mondo politico, la totale assenza di solidarietà nei nostri luoghi di lavoro, la superficialità delle relazioni amorose e amicali. A che cosa serve fare il politico se non è possibile trarne un profitto? A che cosa serve lavorare se non per ottenere lo stipendio? A che cosa serve un amore o un amico se quell’amore o quell’amico non è in grado di offrirmi sensazioni immediate e misurabili in termini di maggiore o minore godimento?
Insomma, tornando al tema del virus, quest’ultimo fin ora ha avuto fortuna perché ha trovato nel suo ospite l’uomo che sceglie soltanto ciò che gli è utile o comunque un uomo impreparato o distratto.
Non ci possiamo spiegare, se non in una logica ego-riferita, la resistenza al rispetto delle regole che il Governo italiano ha trovato in quei cittadini che, salvo eccezioni particolari, non hanno pensato due volte se salire o meno su di un treno o un aereo per lasciare le zone del nostro territorio che sarebbero diventate da lì a poco rosse o che in quei luoghi sono andati – notte tempo – a fare una spesa da pre-copifuoco, violando l’imperativo di non creare assembramenti, togliendo beni di prima necessità alla comunità e accumulando risorse alimentari che molto spesso andranno a finire nell’immondizia. L’utilità ha indirizzato altresì la scelta di quanti, in piena crisi epidemica, hanno comunque scelto di non rinunciare alla movida o ad una discesa libera calzando degli scii.
Cambiare stile di vita
Oggi però occorre trasformarsi. Soltanto così l’alleato del virus, che è un certo stile di vita contemporaneo, sarà respinto.
Ma soprattutto, ed è la cosa più importante, domani, quando avremo debellato il virus e alleati, la realtà sarà migliore di quella precedente all’epidemia.
Un uomo nuovo e un mondo nuovo ci attende in fondo a questi giorni che mai avremo immaginato.
Il comandamento che muoverà il tempo nuovo non dovrà essere più quello per cui un’azione ha senso solo e soltanto se è utile, ma perché importante, cioè capace di produrre un evento misurabile in termini di bontà.
Verso ciò che è importante per tutti
Questa volta è come se tra azione umana ed evento il nesso possa spiegarsi con un’altra legge, non quella del profitto, ma con quella del bene comune.
Ognuno di noi, prima di agire, dovrà domandarsi, ancor prima di ciò che gli è utile, ciò che è importante, quindi buono. E ciò che è buono spesso non è ciò che ci restituisce qualcosa in termini monetari o prettamente utilitaristici.
Se ci convinciamo di ciò, quando tutto sarà finito non sarà un semplice ritorno alla normalità.
Si, perchè oltre al virus avremo debellato il suo alleato, uno stile di vita sedimentatosi spesso nell’inconsapevolezza e che ne ha catalizzato la diffusione.
Domani allora – davanti a vicende anche molto meno drammatiche – il Coronavirus di turno troverebbe un ospite, un uomo, che – seppur privo di vaccino – sarà più forte, perchè più uomo e meno Dio.
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