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E il Verbo si fece idea

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E il Verbo si fece idea

Superamento del cristianesimo e rifiuto della storia

nella teologia “laica” di Augusto Cavadi

 

Luciano Sesta

 

 Sarebbe una ben misera vita, ha scritto Platone, quella di chi non è disposto a riflettere su ciò che, se fosse vero, sarebbe la cosa più importante, an­zi, l’unica cosa che conta realmen­te[1]. E, in effetti, quando siamo chiamati a compiere scelte esistenziali di grande importanza, in cui è in gioco il significato da dare alla nostra vita, tutti noi sentiamo con particolare urgenza il bisogno di sapere come stanno effettivamente le cose: sentiamo, in breve, il bisogno di conoscere la verità.

 

Il libro In verità ci disse altro. Oltre i fondamentalismi cristiani[2], di Augusto Cavadi, ha il pregevole merito di intercettare questo bisogno e di rilanciare la questione della verità del cristianesimo come una salutare provocazione per tutti coloro che, credenti, agnostici o atei, vivono la loro condizione esistenziale più per stanca abitudine che per consapevole convinzione. La verità a cui pensa Cavadi, infatti, non ha nulla a che vedere con un possesso dogmatico, chiamando, piuttosto, a un continuo e incessante impegno di ricerca che non riposa mai su acquisizioni sicure e definitive, al riparo da ulteriori critiche o smentite. In tal senso la suggestiva espressione del titolo, secondo cui Cristo “in verità ci disse altro”, non va certo intesa come l’incipit di una nuova rivelazione, ma come un invito – che a tratti assume toni fortemente provocatori – a confrontarsi con il proprio percorso critico. Un percorso che, nelle quattro sezioni in cui è suddiviso il testo, intitolate rispettivamente Questioni di metodo (pp. 13-32), Dio (pp. 35-57), Cristo (pp. 61-160) e Mondo (pp. 163-202), attraversa quasi tutte le grandi tematiche coinvolte dall’esperienza storica e dottrinale del cristianesimo. Non potendo presentare, nel breve spazio di una nota, la lettura che l’Autore ci offre di ciascuna di esse, ci concentriamo su quello che ci sembra il Leitmotiv dell’intero volume, e cioè la critica e il superamento di quello che Cavadi, sulla scia di Hans Küng, chiama il “paradigma cattolico-romano” (pp. 89-106). Il modello di cristianesimo da cui In verità ci disse altro prende le distanze e che, al tempo stesso, suggerisce le particolari modalità del suo superamento, è infatti quello proposto dalla Chiesa cattolica. Anche quando discute della religione in generale, le riserve dell’Autore riguardano, quasi sempre, quei modi di vivere la fede che si incarnano, esemplarmente, nel cattolicesimo, e lo stesso Capitolo Primo del testo, intitolato La prospettiva oltre-cristiana, è di fatto una decisa contestazione del cattolicesimo e delle sue pretese (pp. 13-32).

Quali sono queste pretese? Essenzialmente due: 1) quella che Gesù di Nazaret, il rabbi galileo, sia veramente il Figlio di Dio fatto uomo per la salvezza di tutti gli uomini; 2) e quella che Egli, come Risorto e mediante lo Spirito del Padre, sia vivo e presente nella Chiesa, e cioè in coloro che nel corso della storia lo seguono dopo aver creduto ai testimoni della sua Parola. Questi due assunti, secondo Cavadi, hanno trasformato il cristianesimo cattolico in un immenso sistema dottrinale e istituzionale che ha finito per soffocare l’essenziale semplicità del messaggio di Cristo, che consisterebbe, al di là di dogmi e precetti morali, nell’«accoglienza-riproposizione dell’amore come senso della vita» (p. 190). Si tratta, com’è noto, di una tesi ricorrente nella storia del cristianesimo, che Cavadi, confortato da copiose citazioni, fra gli altri, di Hans Küng, Eugen Drewermann e Luigi Lombardi Vallauri, cerca di dimostrare adottando uno schema storiografico di tipo romantico, secondo cui la purezza essenziale di un evento coinciderebbe con la sua nascita, che la storia successiva avrebbe progressivamente equivocato. Significativa, al riguardo, è la domanda posta sul risvolto di copertina del volume: «Possiamo riscoprire il messaggio di Gesù di Nazaret dopo venti secoli di incrostazioni che l’hanno appesantito e deformato?».

È appena il caso di notare, a proposito di quest’ultimo aspetto, che se venti secoli di incrostazioni, oltre ad aver appesantito il messaggio di Cristo, non ce lo avessero anche consegnato, probabilmente non ci sarebbe alcun interesse a riscoprirlo. Il fraintendimento, qui, consiste nel voler ricostruire un’ipsissima vox Jesu isolata idealmente da ogni contaminazione storica, e di misurare, in base a essa, quella stessa Chiesa che, prendendo sul serio tale voce, ce l’ha trasmessa rendendola attuale. Non a caso, i vangeli che si tratterebbe di riscoprire, nella prospettiva di Cavadi, sono proprio quelli canonici, e cioè i vangeli frutto di una decisione interpretativa della Chiesa, che ha incluso nel canone dei libri ispirati alcuni testi escludendone altri. Ora, però, se si ritiene che questa decisione interpretativa sia non solo fallibile ma anche ideologica – e Cavadi lo sostiene con forza –, allora per giudicare il cattolicesimo dovrebbero essere utilizzati non soltanto i vangeli canonici, ma anche, e soprattutto, quelli che la Chiesa ha scartato, e cioè i vangeli apocrifi e gnostici. Ma Cavadi si guarda bene dall’attingere a questi testi. Il Cristo etereo, mago bizzoso e arbitrario, maschilista e nemico della sessualità che essi a volte ci presentano, in effetti, stona con il modello di cristianesimo laico che In verità ci disse altro propone al lettore. Sorprende, peraltro, che gli stessi vangeli canonici, benché Cavadi dichiari di giovarsi delle più recenti acquisizioni esegetiche, non siano citati quasi mai.

Quest’ultima circostanza, in cui il “vero” messaggio di Cristo viene riscoperto prescindendo dai documenti che ce ne danno notizia e dalla testimonianza di coloro che lo hanno accolto facendone una ragione di vita, autorizza a sospettare che il cristianesimo a cui pensa Cavadi quando ne propone il superamento non sia quello di Gesù di Nazaret: non sia, cioè, quello che storicamente è nato e si è poi diffuso tramite la predicazione apostolica. Che sia così è dimostrato, fra l’altro, anche dal modo in cui Cavadi legge il rapporto fra i vangeli e la comunità che li ha redatti, custoditi e trasmessi. Gli scritti del Nuovo Testamento che ci narrano di Gesù non sarebbero dei veri e propri documenti storici, secondo Cavadi, perché «non sono registrazioni in diretta di personaggi e avvenimenti, ma sono maturati progressivamente nel corso di decenni» (p. 65). Qui, però, forse si confondono “storia” e “cronaca”: se fossero storici solo i documenti che riportano avvenimenti “in diretta”, allora nessuno dei documenti che noi oggi definiamo “storici” lo sarebbero. Rifiutando l’idea che il messaggio di Cristo si lasci cogliere, nella sua autenticità, proprio a partire dalla risonanza che esso ha trovato nella vita di coloro che lo hanno accolto, Cavadi rifiuta non soltanto la logica dell’Incarnazione propria del cristianesimo, ma anche la dimensione storica di ogni evento del passato, che ci raggiunge sempre attraverso una mediazione linguistica e culturale. È forse per questo rifiuto che In verità ci disse altro legge ogni evoluzione dottrinale all’interno della tradizione cattolica come un incoerente tentativo di «salvare capre e cavoli» (p. 22). A questo proposito, un maggior riguardo per i testi evangelici avrebbe potuto attirare l’attenzione, anche solo per respingerlo, su Gv 16, 12: “Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera”. Questo versetto giovanneo lascia intendere che, sin dall’inizio, alla comunità cristiana non fosse estranea l’idea di una progressiva scoperta della verità – e dunque di una sua costante ricerca –, i cui molteplici aspetti sono illuminati a partire dalle sollecitazioni che le varie epoche storiche e i vari contesti culturali impongono. Trattando invece la dottrina cattolica come un sistema monolitico di verità eterne la cui credibilità sarebbe smentita da ogni forma, anche minima, di variazione o di sviluppo, Cavadi sembra dimenticare che l’identità del cristianesimo è un’identità storica. Non è, dunque, un’identità statica e immutabile, rispetto alla quale ogni cambiamento risulterebbe fatale, ma un’identità dinamica, che si sviluppa e cresce non a prescindere dal cambiamento ma grazie a esso. Allo stesso modo, come hanno sottolineato con insistenza anche i Padri, l’unità e la coerenza della Chiesa sono quelle proprie di un organismo vivente, che si mantiene attraverso la legge dell’assimilazione di elementi inizialmente estranei e che, di conseguenza, non è mai sempre identico a se stesso pur rimanendo lo stesso. Inquadrati all’interno di una tale prospettiva storica, anche i punti dottrinali oggettivamente più controversi, come quelli in cui la Chiesa corre maggiormente il rischio di predicare se stessa piuttosto che il vangelo, possono essere adeguatamente compresi. Ciò vale sia per il principio extra ecclesiam nulla salus, sia per il discusso dogma dell’infallibilità del Pontefice, dei quali Cavadi offre, peraltro, una versione francamente caricaturale.

Rimane, indiscutibilmente, una certa estraneità fra quanto la fede cattolica professa e ciò che è umanamente accettabile. Una tale estraneità è spesso utilizzata da Cavadi – e non soltanto da lui – come una smentita della credibilità della Chiesa, senza mai sospettare che potrebbe anche essere letta come un indizio della trascendenza di cui essa ha fatto esperienza e da cui essa è nata[3]. In tal senso l’incomprensibilità della predicazione – non soltanto su questioni dogmatiche ma anche morali –, lungi dal costituire il segno di un presunto anacronismo, si lascia leggere come il prolungamento storico della provocazione evangelica, e cioè di una sfida che, superato lo scandalo, dona, insieme alla fede, anche una superiore intelligenza delle cose. L’adagio gratia non destruit, sed supponit et perficit naturam troverebbe qui la sua corretta interpretazione, descrivendo un movimento che mentre conserva l’autonomia dell’umano nulla toglie alla dirompente novità del divino che viene a visitarne la storia. Dispiace, in questo senso, che Cavadi non si sia misurato con i grandi teologi cattolici che hanno sviluppato questa prospettiva. In effetti il paradigma cattolico viene presentato attraverso il filtro di una teologia fortemente risentita nei confronti della Chiesa di Roma, quale è soprattutto quella dei già menzionati Hans Küng ed Eugen Drewermann. Se fosse stato concesso anche un breve diritto di replica ad autori come Hans Urs von Balthasar, Yves Congar, Karl Rahner, Henri De Lubac, John-Henry Newman, Romano Guardini o lo stesso Joseph Ratzinger, il paradigma cattolico avrebbe mostrato un aspetto più confacente al suo effettivo spessore teologico. Un confronto critico con il cattolicesimo in cui questi nomi siano del tutto assenti rischia di contravvenire alle più elementari norme di ogni dialogo, prima fra tutte quella del riconoscimento, almeno a livello iniziale, di quanto l’interlocutore dice di se stesso.

Anche quando il nostro Autore riconosce una certa «grandezza» al paradigma cattolico-romano, vede in tale grandezza un aspetto della sua «pericolosità», che consisterebbe, essenzialmente, «nel voler risparmiare al credente i rischi di una vita vissuta al cospetto esclusivo di Dio, senza mediazioni» (p. 92). Dio, però, non è evidente, come lo stesso Cavadi riconosce (p. 41). Prescindere dalla mediazione, pertanto, non lascia l’uomo «al cospetto esclusivo di Dio», ma solo al cospetto di se stessi e delle proprie personali immagini di Dio, immagini che a loro volta, però, sarebbero anch’esse una mediazione, e una pessima forma di mediazione, visto che essa avanzerebbe pretese di autolegittimazione simili a quelle che Cavadi rimprovera al cattolicesimo. Possiamo certamente rifiutare l’autorità della Chiesa cattolica, ma facendolo non ci troveremmo al cospetto di una maggiore purezza spirituale, finendo piuttosto per moltiplicare forme di autorità individuali, ciascuna con la propria pretesa di autolegittimazione. Andrebbe precisato, al riguardo, che la mediazione, prima ancora che essere una peculiarità del cattolicesimo, è in realtà una peculiarità dello stesso cristianesimo. Gesù Cristo, infatti, si presenta come il mediatore fra Dio e gli uomini, in un’ottica in cui la mediazione, essendo la stessa Incarnazione, lungi dal distogliere da Dio, lo rende storicamente presente.

È questo un altro punto decisivo, su cui la pur interessante disamina di Cavadi sembra però difettare. La rivelazione ebraico-cristiana, in effetti, si distingue da molte altre forme di rivelazione e di religione per il fatto di presentarsi come una storia della salvezza, e, dunque, come un processo in cui l’intervento di Dio e la risposta dell’uomo si intrecciano inseparabilmente fino al rischio di confondersi. Che il Verbo si sia davvero fatto carne significa, insomma, che esso si è fatto storia, accettando il rischio della contaminazione e, dunque, del fraintendimento e del rifiuto. Chi vuole comprendere, prima ancora che accogliere, questa rivelazione, è sfidato a riconoscere un Dio diverso dall’idea che ci siamo anticipatamente fatta di Lui. Solo in questo caso, peraltro, si tratterebbe di una vera e propria rivelazione, e cioè di una novità che non può essere in alcun modo anticipata o prevista. E tale sembra essere proprio l’Incarnazione. Diventando uomo, infatti, Dio, che è l’inconoscibile, l’invisibile e il totalmente altro, ha smentito il tipo di diversità da noi previsto e calcolato, secondo cui Egli sarebbe dovuto rimanere trascendente e inaccessibile o, come ama dire Cavadi, “senza nome”. Manifestandosi nella povertà dell’uomo Gesù, invece, Egli ha mandato in aria ogni nostra previsione della sua trascendenza, presentandosi così come Colui che è realmente trascendente[4].

Nel suo testo Cavadi non considera questa possibilità, e combinando variamente elementi tratti dalla teologia liberale, ritiene che «il nucleo generatore del cristianesimo primitivo» si spieghi «soltanto» in senso etico-mondano. E cioè ipotizzando che Gesù abbia proclamato non «un annunzio proiettato in una vita futura», né la propria divinità, ma un invito a «realizzare il Regno di Dio in questo mondo attraverso le opere dell’amore» (pp. 74-75). Si tratta di una tesi oggi molto diffusa, senz’altro suggestiva e in parte anche vera e condivisibile. Quando però viene utilizzata per negare che Gesù sia il Figlio di Dio, essa pone un problema notorio, a cui purtroppo Cavadi non fa riferimento: un’attribuzione estrinseca di divinità a un semplice uomo non sembra in grado di spiegare effetti storici così imponenti come quelli che il cristianesimo ha provocato. L’esistenza di questi effetti, certamente, non dimostra la divinità di Gesù. Dimostra, però, che quello della sua pura umanità finisce per essere un articolo di fede uguale e contrario a quello della sua divinità. Accettando la tesi di Cavadi, inoltre, rimarrebbe inspiegabile come mai, nonostante questo invito all’amore di Dio e del prossimo non fosse né nuovo né un’esclusiva del vangelo (come si ricorda nel volume), esso abbia avuto il successo che ha avuto solo all’interno del cristianesimo piuttosto che in altre sette e religioni. A dispetto della complessità delle questioni che suscita, la risposta a questa domanda è forse più semplice di quanto non sembri: Cristo non ha portato un messaggio filantropico il cui valore l’uomo comprende già da se stesso, ma una novità sconcertante e insieme segretamente attesa. Solo questa novità può spiegare il cambiamento di rotta impresso dal cristianesimo alla storia. Una novità che consiste nell’annuncio che “il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1, 14). Da quando questo annuncio ha fatto il suo ingresso nella storia, che Gesù di Nazaret sia il Figlio di Dio è rimasta una vecchia diceria che non si è ancora riusciti a mettere a tacere[5]. Una diceria che sembra resistere a tutte le confutazioni, come dimostra anche la recente ondata pubblicistica sulla figura di Gesù, che continua a metterlo sul banco degli imputati, ora per negare, ora per affermare la sua pretesa divinità. Che discutere di questa pretesa rimanga importante a prescindere dalla possibilità di dimostrarla vera o falsa, dovrebbe far riflettere più di quanto il testo di Cavadi abbia fatto. Negando senza troppi complimenti la divinità di Gesù, invece, In verità ci disse altro non colpisce soltanto gli astratti dogmi di una gerarchia dispotica e arrogante, ma anche una speranza talmente radicata nel cuore di ogni uomo, da rimanere indifferentea ogni vecchio e nuovo smascheramento illuministico del cristianesimo. Su questo, crediamo, anche Cavadi converrà: un Cristo modello di amore filantropico può soddisfare le esigenze di qualche intellettuale in buona salute. Ma quelle dei poveri e dei colpiti dalle tragedie e dai lutti no: lì c’è bisogno del Risorto.



[1] Platone, Fedone, 85b.

[2] A. Cavadi, In verità ci disse altro. Oltre i fondamentalismi cristiani, Falzea Editore, Reggio Calabria 2008, pp. 244.

[3] Cfr. H. U. von Balthasar, Der antirömische Affekt. Wie lässt das Papsttum in der Gesamtkirche integrieren, Einsielden, Freiburg i. B. 1974; tr. it. Il complesso antiromano. Come integrare il papato nella Chiesa universale, Queriniana, Brescia 2000.  

[4] Cfr. J. Ratzinger, Einführung in das Christentum. Vorlesungen über das Apostolische Glaubensbekenntnis, Kösel, München 1968; tr. it. Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul simbolo apostolico, a cura di E. Martinelli, Queriniana, Brescia 1996, p. 205.

[5] Prendo a prestito l’espressione da R. Spaemann, Das Unsterbliche Gerücht. Die Frage nach Gott und die Täuschung der Moderne, Klett-Cotta, Stuttgart 2007; tr. it. La diceria immortale. La questione di Dio o l’inganno della modernità, a cura di L. Cappelletti e S. Kritzenberger, Cantagalli, Siena 2008. {jcomments on}

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