I ministri di ieri e di oggi
Che la ministra Azzolina non fosse destinata a rimanere negli annali della scuola italiana come una figura luminosa, lo si era già capito da vari indizi. Era il suo il curriculum più adatto per il ministero della Pubblica Istruzione in un governo che, a detta del premier, era intenzionato a promuovere un “nuovo umanesimo”?
Ma, a dire il vero, poco chiara è anche la motivazione che, nel governo precedente a questo, ha spinto alla nomina – in un ruolo svolto in passato da personalità come Aldo Moro, Oscar Luigi Scalfaro, Giovanni Spadolini, Sergio Mattarella, Tullio De Mauro – di Marco Bussetti (quello che ha censurato la professoressa perché non ha impedito ai suoi alunni di accusare Salvini di razzismo) o, nel governo Gentiloni, di Valeria Fedeli, rispettabilissima sindacalista, ma priva di un titolo propriamente scolastico.
Si potrà dire che un ministro non deve necessariamente essere un competente del settore a lui affidato, perché la sua funzione non è tecnica, ma politica. Giusto. Ma se si deve scegliere, come titolare del ministero dell’Economia, tra Mario Draghi e Franco Battiato, forse sarebbe più logico puntare sul primo… Senza dire che i nostri ultimi ministri dell’Istruzione non erano comunque, nel loro campo, quello che Franco Battiato è nel suo.
Il rituale del capro espiatorio
Ho precisato tutto questo per evitare equivoci sulla mia valutazione di fondo del nostro attuale ministro. Detto ciò, dico francamente che il fiume di indignate proteste che si sono scatenate da tutte le parti contro la Azzolina hanno lo stesso significato che aveva, nell’Antico Testamento, la solenne maledizione pronunciata dal sommo Sacerdote sopra un capro, detto “espiatorio”, che veniva simbolicamente caricato di tutte le colpe del popolo e poi mandato a morire nel deserto. Una liturgia tanto coinvolgente quanto ipocrita, che serviva soprattutto a esorcizzare, proiettandole su un povero animale, le reali responsabilità umane.
La Azzolina è diventata il capro espiatorio che professori, studenti, sindacati, forze politiche, fanno a gara nel massacrare con sadica soddisfazione. È vero, il piano che ha presentato scarica disinvoltamente sui dirigenti scolastici tutte le responsabilità, senza garantire loro i mezzi per far fronte ai problemi. Ma, come la sventurata ha cercato di spiegare, non è certo lei che può decidere quante e quali risorse destinare all’emergenza. I soldi per la scuola, in Italia, non si sono mai trovati, e meno che mai in questo momento. I ministri della Pubblica Istruzione, di fronte ai netti dinieghi dei loro colleghi dell’Economia, si sono sempre trovati a scegliere tra le dimissioni (come ha fatto il predecessore dell’Azzolina, Fioravanti) e il far buon viso a cattivo gioco, adattandosi a “fare le nozze con i fichi secchi”.
Su questa seconda via, si può anche esagerare, come ha fatto Mariastella Gelmini, ministro della Pubblica Istruzione, nel quarto governo Berlusconi, dal maggio 2008 al novembre 2011 che, di fronte alla stretta imposta dal ministro Tremonti, invece di limitarsi a piangere nottetempo e a sorridere alla stampa, ha avuto la faccia di bronzo di gabellare i tagli devastanti imposti al sistema scolastico come una «riforma epocale».
La distruzione della scuola è cominciata prima
Leggo su tutti i giornali – con particolare sarcasmo e accanimento su quelli di destra – che la ministra attuale sta distruggendo la scuola italiana. Non ne è in grado. Comunque l’hanno già fatto altri. Come, appunto, la Gelmini, che ha accorpato alla cieca scuole, classi, uffici, massacrando la continuità didattica e l’efficienza gestionale (ci sono stati dirigenti incaricati di governare istituti che distavano tra loro decine di chilometri…).
La selezione demonizzata
Questo l’ha fatto un governo di destra. Ma la “distruzione” della nostra scuola ha radici ancora più antiche. Senza minimizzare il ruolo notevolissimo di Berlusconi, con l’appoggio della Lega (che faceva parte del governo in cui la Gelmini era ministro), si deve riconoscere che la sinistra non è stata da meno. E le proteste di oggi sono forse un modo per eludere un esame di coscienza che risulterebbe troppo doloroso.
Perché, risalendo indietro nel tempo, dovrebbe cominciare ricordando l’appoggio indiscriminato alla protesta sessantottina, che aveva sicuramente degli aspetti positivi, ma nascondeva anche dei veleni di cui soprattutto la scuola ha poi scontato gli effetti remoti. Basti pensare alla lotta contro ogni forma di selezione proprio nell’ambito scolastico. Giustissima se rivolta contro quella economico-sociale , di cui erano vittima i ragazzi poveri. Assurda se generalizzata e trasformata in una rivendicazione del “6 politico”, grazie a cui il diritto allo studio, che era il senso profondo della prima, veniva trasformato nel diritto a non studiare, ampiamente confermato poi dal sistema dei “debiti” che nessuno era tenuto veramente a saldare.
Anche quella dei docenti
La demonizzazione della selezione non è stata fatta, peraltro, solo nei confronti degli studenti, ma anche dei professori. Ricordo ancora, agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso, i volantini dei sindacati confederali della scuola dove si rivendicava il diritto alla promozione automatica per tutti i partecipanti ai corsi abilitanti, accusando chi (come il sottoscritto) distingueva l’ingiusta selezione economico-sociale dei candidati dalla necessaria selezione culturale, chiedendo una verifica seria della competenza dei futuri docenti, di essere una minaccia per i lavoratori. E, dal loro punto di vista, che era quello meramente occupazionale, avevano pure ragione, perché l’abilitazione era importante per il lavoro. Ma era solo questa l’ottica da cui guardare la scuola?
La svalutazione della dimensione culturale
Di fatto, in tutti questi anni i sindacati, pur con i loro indubbi meriti nella difesa dei diritti e del trattamento economico del personale, hanno guardato all’istituzione scolastica più sotto il profilo delle assunzioni e del livello retributivo che sotto quello della qualità culturale. Assecondati peraltro da una classe politica che cercava soprattutto di tenerli buoni. Ricordo ancora di aver chiesto al ministro De Mauro, in una intervista che gli feci a Roma per «Avvenire», se non era il caso di prevedere un anno sabbatico per consentire ai docenti di studiare. Uomo mitissimo, a quella domanda quasi si arrabbiò. «Ma lei vuole che il governo proponga una cosa che neppure i sindacati ci chiedono?».
Alla base di tutto, c’è stato un cambiamento della società
Ma non sarebbe neppure giusto scaricare sui sindacati, (a cui peraltro deve andare, per altri versi, la nostra gratitudine) e sulla politica (a cui ne dobbiamo molto meno), le responsabilità del declino della scuola. È stato un profondo cambiamento di tutta la nostra società a far sì che, rispetto agli anni Cinquanta e Sessanta – in cui il corpo insegnante doveva accontentarsi, dal punto di vista economico, di vacche magre, ma in compenso godeva di un notevole prestigio sociale –, oggi si parli spesso dei docenti con disprezzo, trattandoli anche fisicamente come inservienti invece che come “maestri” di cultura e di umanità.
Alla base di questo c’è stato l’avvento selvaggio del consumismo, che ha trasformato anche la cultura in una funzione economica e ha spinto a valutarla in questi termini. In questa logica, l’insegnamento era in partenza destinato a diventare un lavoro di serie B, e chi lo svolge a contare poco o nulla. A questo punto, se già prima la qualità culturale era poco considerata dalla politica, ora essa non ha più alcun peso. Non per nulla da tempo sono stati sospesi i concorsi, che in passato garantivano la selezione, favorendo l’inserimento giovani preparati ed entusiasti nel corpo docente.
Per una scuola davvero democratica
È il prezzo di una scuola democratica? Non credo. La vecchia scuola elitaria doveva essere superata, ma per dare a tutti quello che prima si dava a pochi. Così, invece, si rischia di non dare più quasi niente a nessuno. Meno male che ci sono ancora degli insegnanti motivati e coraggiosi – ne conosco personalmente parecchi – che non si lasciano scoraggiare da questa deriva del sistema!
No, non sarà certo migliorando il piano fallimentare della Azzolina che risolveremo i problemi di fondo della nostra scuola. Per quelli, non è un singolo ministro che può cambiare le cose. Neppure la classe politica e la dirigenza sindacale nel loro insieme. Perché esse sono, a loro volta, espressione di una cultura diffusa, che ha creato una scala di valori in cui il sistema d’istruzione ha un posto irrimediabilmente secondario. Forse la sola possibilità di costruire una scuola veramente democratica è in un lavoro di rieducazione dell’opinione pubblica, che richiede tempo e sacrifici da parte di chi ha coscienza dei problemi. In fondo È quello che ho cercato di fare in questo articolo. Una goccia nel mare, lo so. Ma il mare è fatto di gocce.
Lascia un commento