Pandemia, religiosità, fede
La pandemia da Covid-19 spinge ad un ripensamento globale in merito all’organizzazione delle comunità umane. Sul piano economico, sanitario, politico, educativo e sociale l’emergenza ha mostrato chiaramente quanti limiti si celano dietro il modello di sviluppo occidentale. La crisi in atto evidenzia anche quanto sia necessario tornare a riflettere – all’interno del dibattito pubblico – della rilevanza pubblica e culturale delle religioni e, nello specifico, del cristianesimo.
Di questo tema discutiamo con Giuseppe Lorizio. Professore ordinario di Teologia fondamentale nella Facoltà di Teologia della Pontificia Università Lateranense, Lorizio è editorialista di Avvenire e interviene spesso sui media (Famiglia cristiana, Radiovaticana, Radiouno, TV2000 ecc.) e per un decennio è stato membro del Comitato nazionale per gli studi superiori di Teologia e di Scienze Religiose della Conferenza Episcopale Italiana.
– Per diversi studiosi e osservatori, la principale caratteristica dell’uomo religioso contemporaneo è quella del nomadismo spirituale. La crisi da coronavirus ha accresciuto tale peculiarità? Possiamo riscontrare elementi problematici in questa forma moderna di approccio al divino?
Il nomadismo non è affatto moderno, ma antico e decisivo, come grembo che ha dato vita alle cosiddette religioni monoteiste. Nella sedentarizzazione i profeti hanno sempre intravisto il rischio di pericolose derive idolatriche. La forma di nomadismo che la crisi della pandemia ha prodotto, a fronte di una radicale sedentarizzazione fisica, è quella del nomadismo tecnologico. L’aspetto sedentario dell’isolamento (quarantena) nelle nostre abitazioni, quando non sostenuto da una profonda interiorità e spiritualità, ha prodotto situazioni esistenziali fortemente distoniche, laddove la possibilità di incontri tramite la rete, pur sopperendo ad una mancanza, può anche aver acuito il desiderio dell’incontro interpersonale.
Soprattutto nelle giovani generazioni abbiamo constatato come tale desiderio riguardava soprattutto la movida e lo spritz, esperienze sulle quali ci si è gettati a capofitto, appena si è ritenuto che fosse possibile uscire di casa. L’interiorità non si improvvisa; ad essa piuttosto bisognerebbe educare ed educarci. Mi viene incontro a tal proposito un’espressione del teologo Dietrich Bonhoeffer che recita “chi non sa stare solo tema la comunità, chi non sa stare in comunità tema la solitudine”. E questo vale anche nel nostro rapporto col divino, che dovrebbe sempre viaggiare sui due binari dell’interiorità e della comunità: hanno retto l’impatto con la pandemia le persone che hanno potuto attingere ad una solida formazione umana e religiosa, ma non mi pare siano la maggioranza.
– Oltre alla distinzione fra dimensione spirituale e organizzazione politica, il processo di secolarizzazione ha prodotto forme ibride di pseudo-religiosità caratterizzate da messianismi e superstizioni. La pandemia ci ha rivelato definitivamente che la tecnica può rappresentare la nuova religione universale?
Il teologo austrico Kurt Appel, con una forzatura provocatoria, ha parlato della situazione pandemica come della religione universale con i suoi sacerdoti (virologi ed esperti), i suoi riti (sanificazioni), i suoi abiti (mascherine, guanti) e soprattutto leggendo tale “religiosità” nella prospettiva del messianismo, dove il messia secolarizzato sarebbe il vaccino di cui si attende la venuta, senza sapere il quando. Coloro invece che hanno attinto alla cosiddetta pietà popolare, spesso si sono affidati a pratiche di dubbia autenticità, spesso pervase dalla superstizione e da una ritualità magica. Anche queste sono “tecniche” o artifici tendenti ad esorcizzare il male, a lenire il dolore, a trovare consolazione. Si è riscoperto il carattere consolatorio della religiosità, mentre mi sono sembrate scarse le riflessioni profonde sul senso anche tragico della vicenda. La dimensione emozionale della fede ha di gran lunga prevalso su quella riflessiva, né mi è sembrato particolarmente significativo il contributo dei teologi (parlo degli italiani), che non mi sembra abbia saputo accompagnare i credenti, suscitando in loro il pensiero sul senso e aiutando a riscoprire la sacramentalità della Parola di Dio. È inoltre mancata l’indicazione di un orientamento preciso da parte dei pastori, tale da condurre le chiese che sono in Italia a vivere in maniera adulta e matura la loro fede e la loro speranza. Si comprende tale assenza per il semplice fatto che tutti siamo stati presi alla sprovvista.
Maggior vigore, invece, si è espresso nell’esercizio della carità e nell’attivazione di iniziative di solidarietà verso le persone più fragili. Insomma, per dirla con Antonio Rosmini, se non è certo mancata la “carità temporale”, ossia la presenza nelle situazioni di bisogno corporeo, mi è sembrata quasi del tutto latitante la “carità intellettuale” e direi anche la “carità spirituale”, nel senso di una spiritualità illuminata e non semplicemente consolatoria.
Due esempi concreti confermano la latitanza della “carità intellettuale” (e non solo in questo tempo drammatico): quando qualche giovane prete che ammicca alle giovani generazioni attraverso la rete affronta il tema della preghiera, affermando che pregare non cambia la realtà, ma cambia te stesso, fa cadere le braccia, se non indignare chi seriamente riflette sulla preghiera in senso biblico e cristiano, anche perché ci sono tanti modi per lavorare su se stessi e cambiare in meglio.
Giustamente il teologo valdese Fulvio Ferrario ha stigmatizzato questa mentalità, scrivendo sulla sua pagina Facebook: “Per come la capisco io, però, non è quello che dice la Bibbia, non è quello che dice Gesù, non è quello che pensano Francesco d’Assisi, o Tommaso d’Aquino, o Lutero, o Calvino. Tutti questi pensano che l’ascolto della preghiera da parte di Dio possa determinare un cambiamento della realtà, anche materiale, per essere chiari.
Come questo accada, può essere dibattuto a lungo. Più drammatica è l’altra questione: perché così spesso NON accade? È il problema di tutti i problemi, e capisco benissimo che si possa rinunciare alla fede esattamente su questo punto. Al centro del Nuovo Testamento c’è una preghiera non esaudita, che riguarda la realtà, e quale realtà!”. E le considerazioni del collega richiamano il secondo esempio, quello che parte dalla domanda sul perché e quindi sul senso del male, del dolore innocente, della pandemia…
Leggo qualche collega teologo, stavolta cattolico, che adotta una teodicea apofatica, sostenendo che non lo sapremo mai e che quindi di fronte al mistero meglio tacere. Certo meglio della teodicea che vede i mali come castighi, ma questa visione, che è quella che il filosofo Kant attribuisce a Giobbe, può prestare il fianco a chi ritiene un escamotage fideistico il ricorso al silenzio. Perché non effettuare il passo ulteriore verso una teodicea cristocentrica e staurologica, preclusa alla pura ragione, ma non alla ragione redenta e credente? Troppo faticoso! Ma in questa prospettiva ha detto molto di più il Crocifisso grondante di pioggia di piazza San Pietro, sul quale e col quale dobbiamo pensare e aiutare a pensare.
– Oltre alla chiusura delle attività economiche, il lockdown ha impedito ai fedeli di partecipare ai riti comunitari. Per i cattolici italiani, quello appena trascorso è stato un tempo di digiuno e di grazia caratterizzato da una particolare attenzione alla Parola di Dio e alla pratica delle devozioni. Alcuni sondaggi, come quello condotto dalla rivista Nipoti di Maritain, hanno evidenziato una sorta di sentimento religioso diffuso e accresciuto durante le settimane più dure della pandemia. L’attuale contesto può essere ancora decifrato tramite la classica distinzione fra credenti praticanti, non praticanti e atei?
Ciò che ha prevalso in campo cattolico non è stata la riscoperta della Parola di Dio, che è avvenuta soprattutto negli ambienti più colti e avvertiti, quindi in certo senso già educati, ma appunto il senso religioso, che ovviamente non si può automaticamente identificare con la fede. Temo che abbiamo perso un’occasione preziosa. Ormai da tempo vado riflettendo su coloro che amo denominare i “diversamente credenti”, che spesso frequentano anche i riti cattolici, assumendo dal loro universo simbolico, non il senso profondo del sacramento, ma ciò di cui pensano di aver maggiormente bisogno. Ciò fa sì che quanti offrono servizi religiosi assumano la funzione di imprenditori del sacro, come spesso sottolinea il sociologo Enzo Pace. Accanto a questa tipologia, ben studiata e descritta anche dall’attuale sociologia della religione a livello mondiale, si situa la posizione non degli atei (merce rara), bensì di coloro che mi piace ritenere aderenti ad una sorta di “incredulità giuliva”, messa a dura prova dal virus, ma certamente non sconfitta, come mostrano spritz e movide.
La pandemia ha reso i “diversamente credenti” anche “diversamente praticanti”, sicché si è sviluppata l’abitudine al pantofolismo cultuale, attraverso la fruizione di messe, rosari, novene, devozioni in streaming o trasmesse in televisione e lo zoomworship, che avrebbe potuto costituire una opportunità feconda se orientato come dicevo al culto della Parola di Dio. Purtroppo, bisogna constatare che presbiteri e diaconi, non oso riferirmi ai vescovi, cattolici sono piuttosto programmati per la sacramentalizzazione e il servizio della carità temporale. Di fronte all’evangelizzazione e al culto della Parola spesso vacillano, come mostrano le indagini sulla predicazione spesso disastrosa, cui si assiste nelle nostre chiese, e su cui l’Evangelii Gaudium ha particolarmente insistito.
– Le enormi potenzialità del web hanno permesso di mantenere vivo il rapporto umano, educativo e spirituale delle comunità dei credenti. Superata l’emergenza Covid-19, secondo lei la Chiesa del futuro dovrà utilizzare questi canali per evangelizzare? Quali rischi e opportunità offrono i social per la trasmissione e la crescita della fede?
Durante la pandemia le comunità si sono “arrangiate” e hanno proceduto in modo sparso. Ora che stiamo superando lo shock iniziale, penso che abbiamo bisogno di una programmazione pastorale a livello diocesano e nazionale, onde evitare il rischio dell’improvvisazione, ma anche di momenti di formazione all’uso dei nuovi media, che, se non adeguatamente abitati, possono causare fraintendimenti e veicolare forme inautentiche di religiosità.
– In un suo recente articolo apparso nell’ultimo numero della rivista Orientamenti pastorali, lei afferma che – almeno in campo cattolico – «il sentire religioso sembra aver prevalso sul credere stesso». Può spiegarci il perché?
Il diffondersi di tesi secondo cui il virus sarebbe un castigo divino, il ricorso al culto mariano e dei santi, piuttosto che alla Parola conferma questa mia sensazione. Vorrei far notare intanto che non c’è nulla di negativo in un autentico sentire religioso, purché questi culti vengano illuminati e accompagnati con interventi educativi, che consentano di far percepire il senso profondo del mistero, che sta nella croce e nella resurrezione del Signore Gesù Cristo. Pertanto, ribadisco che la pietà popolare è da maneggiare con molta cura da parte dei pastori e le vicende della “mafia devota” dimostrano come i rischi siano incombenti e da non sottovalutare. Il pressapochismo e l’improvvisazione pastorale spesso producono danni irreparabili alla chiesa, che dovrebbe lavorare perché la domanda di Gesù se il Figlio dell’uomo al suo ritorno troverà la fede sulla terra abbia una risposta positiva.
Lascia un commento