L’informazione dal linguaggio verbale a quello delle immagini
Della tragica esplosione di Beirut a molti resteranno solo le immagini di episodi “curiosi”: la sposa in bianco travolta dall’onda d’urto mentre faceva le foto di rito; il prete che fugge dalla chiesa; l’anziana che suona il piano tra le macerie della sua abitazione…
È il modo più efficace di fare informazione, dirà qualcuno. E in effetti oggi le persone abbandonano i giornali cartacei a favore di quelli online perché sulle prime pagine di questi ultimi trionfano le fotografie e i filmati, riducendo spesso ai margini i commenti scritti. La gente vuole sempre meno leggere opinioni e cerca rappresentazioni immediate, che danno l’impressione di entrare più profondamente nella dinamica dei fatti.
Ma è veramente così? Davvero un rapporto con la realtà che “salta” il linguaggio verbale e il momento dell’elaborazione concettuale, ad esso strettamente connesso, e si fonda sulle impressioni emozionali suscitate direttamente dalle scene viste, dà luogo a una conoscenza più veritiera?
Il grande spettacolo delle guerre del Golfo
Ricordo ancora la “prova generale” di questo nuovo tipo di informazione, le due guerre del Golfo, scatenate prima dal presidente americano George Bush sr e poi da suo figlio George Bush jr, contro l’Iraq di Saddam Hussein. La popolazione di tutto il pianeta assistette in diretta, per giorni, a un succedersi ininterrotto di esplosioni, di crolli, di incendi. Come davanti a un immenso spettacolo pirotecnico, con la differenza che i “missili intelligenti” (così li aveva battezzati la nomenclatura ufficiale di guerra) non erano petardi, ma uccidevano uomini e donne in carne ed ossa. E ci furono immagini che commossero il mondo, come quella del cormorano impregnato di petrolio, che tutti i giornali e le televisioni mostrarono, in occasione della prima guerra, a riprova del disastro ambientale.
Che cos’è un “fatto”?
Solo dopo qualcuno cominciò a far notare che tutte quelle immagini non avevano affatto consentito di “vedere”, in entrambi i conflitti, che cosa stava accadendo in realtà. Si era trattato di una grandiosa rappresentazione che, sulla linea del “giornalismo-spettacolo”, aveva appagato la curiosità più epidermica senza aiutare minimamente a rendersi conto del significato dei fatti.
Perché un puro fenomeno fisico non è un “fatto”, se non se ne coglie il significato. Strizzare materialmente un occhio può essere un invito erotico, un tic nervoso, un’ intesa tra spie, un’ imitazione teatrale, tutti fatti molto diversi. Vedere senza capire non è assistere a un fatto.
Inoltre, poiché in questo modo di informare ciò che conta è colpire il pubblico, gli stessi fenomeni materiali possono essere manipolati senza scrupoli – come in uno spettacolo! – a questo scopo. Come la foto del cormorano imprigionato nel petrolio, che più tardi si è scoperto essere stata scattata durante la guerra Iraq-Iran di dieci anni prima, anche perché in quel periodo dell’anno non vi erano cormorani nel Golfo persico.
Le vetrine dei social
Quello delle guerre contro l’Iraq è solo un caso esemplare. Al di là del problema dell’informazione giornalistica, è nel costume che il primato dello spettacolo sulla riflessione si è sempre più affermato come modalità normale di comunicazione, anche grazie al diffondersi dei social. L’avvento di Facebook già segnava il progressivo spostamento verso la sostituzione dell’immagine alle parole. Ma era solo l’inizio. Instagram e Tik Tok, che, soprattutto fra i giovani, hanno in larga misura soppiantato Facebok, sono delle vetrine. E milioni di persone vivono in funzione della visibilità che potranno avere mostrandosi su queste vetrine, da cui è possibile trarre successo, notorietà e denaro.
«Esistere è essere visti»
Un tempo si parlava di “immortalare” un momento importante della vita facendo una foto. Oggi sembra quasi che il rapporto si sia invertito e che un momento della vita sia davvero importante solo se viene fotografato o filmato. Non si è più colti dall’obiettivo mentre si compiono i gesti quotidiani dell’esistenza: ci si mette in posa, si vuole stupire o almeno far sorridere l’immaginario spettatore. È come se si avesse bisogno di qualcuno che ci guarda, per essere confermati nell’esistenza. Un filosofo del Settecento sosteneva che «esse est percipi», esistere significa essere visti. Solo che lui pensava allo sguardo di Dio, mentre oggi, per assicurarci che esistiamo davvero, bastano gli anonimi “amici” di Facebook o gli altrettanto sconosciuti frequentatori degli altri social.
La ricerca di uno sguardo che non c’è stato
C’è qualcosa di tragico in questa disperata ricerca di attenzione. Non è un caso che i primi a viverla siano i giovani, molti dei quali spesso ne hanno avuto molto poca dai loro indaffarati genitori. Si cresce, da esseri umani, sotto lo sguardo benevolo di un padre e di una madre che ci prendono sul serio. Il bambino gridava «Guarda mamma!», mentre faceva le sue prime, più semplici esperienze. Oggi che quello sguardo purtroppo è diventato più rado e più frettoloso, si recupera, nell’adolescenza o anche più avanti negli anni, ricorrendo al surrogato dei social.
L’incapacità di incontrare se stessi…
Solo che questa sostituzione delle immagini virtuali alla realtà non giova a ristabilire le relazioni, non dico con Dio, ma neppure con se stessi e con gli altri. Ci si abitua a vivere alla superficie di se stessi. Per quanti selfie ci si possa fare, per metterli poi in rete, alla fine la soddisfazione di un’immagine di sé che attira più like non può sopperire all’incapacità intima di ritornare alla propria intimità e di accettarsi. Le immagini a volte ci difendono dalla verità di ciò che siamo.
…e gli altri
Ma anche gli altri diventano immagini. È dei giorni scorsi il penoso fatto di cronaca di una donna, sembra malata di mente, che, a Crema, si è cosparsa di un liquido incendiario e si è data fuoco. Un passante ha cercato di soccorrerla soffocando le fiamme con una coperta, ma invano. La poveretta è morta. Ma, forse ancora più terribile del suo dramma, è stata la reazione di molti astanti che non solo non si sono mossi, ma hanno tirato fuori i cellulari per filmare la scena.
Il soccorritore, sconcertato, ha scritto alla sindaca Bonaldi che, d’accordo con lui, ha pubblicato un post su Facebook con il suo racconto, poi confermato ai poliziotti. «Comprendo», ha scritto la sindaca, «che non tutti possano avere il sangue freddo e la prontezza per intervenire quando una persona si dà fuoco». Ma «se gli spettatori di questa tragedia hanno avuto la freddezza di prendere il telefonino ed immortalare la scena anziché correre in aiuto, allora dobbiamo farci delle domande. Cosa può renderci così insensibili?».
Dietro il problema morale c’è quello culturale
Una risposta a questa domanda sta in quello che si è detto fin qui. Coloro che hanno reagito da spettatori erano stati abituati da lungo tempo a esserlo davanti a una vita trasformata in spettacolo. Certo, il singolo può reagire a questo e, consapevole che ciò che si sta svolgendo sotto i suoi occhi non è solo una immagine da “postare” sui social, può fare del proprio meglio per soccorrere la persona che muore. Ma, dietro il problema morale, ce n’è uno culturale. Lo stesso per cui noi, ai discorsi che ci aiuterebbero a capire la realtà, preferiamo le immagini del giornalismo-spettacolo, che fa di questa realtà un grande gioco di fuoco.
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