L’esperienza della vocazione nella spiritualità di Divo Barsotti
Nei mesi passati sono stati offerti alcuni spunti di riflessione sul ruolo del cristiano nel mondo con particolare riguardo alla dottrina sociale della Chiesa; vogliamo ora mettere in luce la maniera personalissima in cui nostro padre, don Divo Barsotti abbia percepito e realizzato la sua vocazione cristiana.
Scrive nel suo diario Parola e silenzio (6 novembre 1957):
«Prossimità di Dio e peso del mondo. È questa duplice vocazione che realizza la mia vita cristiana: sento che debbo nello stesso tempo unirmi a Dio nella unione più intima e attuale, non attraverso il sentimento, ma attraverso una fede semplice, assoluta, e nello stesso tempo unirmi, identificarmi a tutto l’universo – non separarmi, non dividere il mio destino e la mia vita dal destino e dalla vita del mondo – non far differenza, caricarmi di tutto il suo peso. La duplice vocazione è una vocazione unica: essere Cristo»
Grazie all’impegno amorevole e faticoso di alcuni fratelli consacrati da decenni in comunità, noi consacrati anche dell’ultima ora abbiamo gioito di poterci appena affacciare nel cuore del vissuto del nostro padre e beneficiare di uno studio che qui si offre, breve in rapporto alle fonti, ma che si rivelerà ricchissimo, ricavato appunto per noi da una enorme mole di spunti e di riferimenti che si trovano nella predicazione del padre e nei suoi diari. Si seguirà un percorso che, per semplicità di esposizione (non per esaustività!), muoverà da alcune parole chiave e da alcuni concetti fondamentali.
Un’adesione necessariamente esclusiva
1 – La prima parola chiave è “vocazione”. Sin dalla prima giovinezza don Divo sente di essere chiamato a un rapporto assoluto con “Dio solo”, e cerca con ansia quale sia la sua strada. Il momento centrale dei suoi primi anni è la “folgorazione” che sente il 28 dicembre 1933, nel duomo di S. Miniato (PI), quando Dio entra violentemente nella sua vita: «Sparve ogni altro pensiero, tutto sparve per me; rimase Lui che mi invitava, mi chiamava a seguirlo. Fu Lui stesso che spazzò via dalla memoria e dalla volontà ogni altra aspirazione».
Come sappiamo don Divo rimase sempre fedele a questa sua iniziale chiamata che esclude, almeno inizialmente, ogni altra realtà. Spesso egli ha spiegato che la risposta a Dio esige inizialmente questo distacco totale da tutto, come Mosè che va «in interiore deserto», come S. Antonio padre del monachesimo, come i suoi amati santi russi, S. Sergio e S. Serafino, che si rifugiano nelle foreste della Russia, e infine come Charles de Foucauld che sceglie il deserto per vivere in intimità col Cristo. La vita dell’eremita però non è un rifiuto del resto dell’umanità e infatti tutti questi grandi asceti, dopo un primo periodo di solitudine, tornano nella società a testimoniare quello che il Signore ha detto loro e divengono guide e formatori di innumerevoli discepoli.
Nei primi anni del suo sacerdozio, durante la guerra, sembra quasi che i tragici eventi del mondo non turbino il suo raccoglimento. Annoterà più tardi in uno dei suoi diari:
«Gli avvenimenti della storia non toccano gli uomini. Ogni uomo ha la sua piccola storia e non esce di sé. (…) È tremendo pensare come io potevo essere ignaro ed estraneo a tutto l’orrore della guerra. Morivano milioni di uomini nei campi di sterminio, sotto i bombardamenti e io vivevo. Come incideva nella mia vita la tragedia del mondo? Ed ero senza difese…».
Non si tratta certo di indifferenza ai problemi del mondo e della società, perché al contrario matura in lui la consapevolezza dei bisogni della società, come manifesta in una serie di articoli per l’Osservatore Romano pubblicati tra il 1942 e il 1943, dedicati a tematiche ecclesiali e sociali. Ma egli sente che la sua vocazione nei confronti del mondo non implica un coinvolgimento diretto, piuttosto è indirizzata a far presente quel Dio di cui il mondo ha bisogno pur senza saperlo. Il 17 ottobre 1941 scrive nel suo primo diario «Il Signore vuole che io sia tutto per Lui, e vuole che rimanga fra gli uomini, viva con loro, fra loro. La mia vita contemplativa io l’ho pensata una volta al centro di una grande città…» E il 25 ottobre 1941: «Io non sono del mondo. Che il mondo lo senta perché abbiano la percezione che Tu sei, che Tu vivi…».
È l’insegnamento di Charles de Foucauld, che volle far presente Cristo in mezzo ai mussulmani pur senza predicare, ma questo insegnamento per don Divo si rafforza con le parole di san Paolo, ripetute centinaia di volte nella sua predicazione: «Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me». San Paolo esprime così la sua unità con Cristo che si è fatto uno con tutti gli uomini, assumendo in Sé tutta la realtà creata.
L’unità con tutto il mondo attraverso la redenzione del Cristo
2 – Troviamo così la seconda parola chiave di questa relazione: unità. Gli ortodossi parlano di “unitotalità”. Per don Divo l’essere uno con Cristo è al centro di tutta la sua spiritualità. Da questo centro deriva l’essere figli nell’unico Figlio, ma poiché il Cristo non è separabile da alcun uomo, nemmeno il cristiano può separarsi da alcuno. Si tratta di un fatto ontologico, che riguarda cioè l’essenza profonda del cristiano e che deriva dal mistero dell’incarnazione e della redenzione: se Cristo assume tutti gli uomini, chi è in Lui non può essere diviso da nessuno, ma deve piuttosto anche lui assumere tutto.
Come ha ben mostrato, nel suo studio dei diari barsottiani, padre Stefano Albertazzi, nel linguaggio di don Divo il verbo “assumere” ha un ruolo importantissimo, che riecheggia ancora una volta l’insegnamento del Cristianesimo russo. Egli scrive:
«La nostra spiritualità occidentale non sembra conoscere a volte la divinizzazione del mondo e della carne, ma soltanto la salvezza dell’anima. L’uomo si unisce a Dio solo nel più alto vertice della sua vita spirituale. E in questo più alto vertice della sua vita l’uomo, unendosi a Dio entra e rimane in una estrema solitudine, si spoglia di ogni ricordo, sembra spezzare ogni legame con gli altri suoi fratelli e con il mondo, ma Dio si unisce veramente all’anima sola o al mondo redento? L’unione di Dio con l’uomo avviene nel Corpo mistico di Cristo: l’unione con Dio non vuole dunque l’estrema solitudine dell’anima con Dio solo, ma esige la più alta e piena solidarietà con tutti gli uomini e le cose, esige l’Unità dell’uomo con tutta la creazione che Cristo ha redento».
La divisione è opera del maligno, ma il Cristo ha vinto il male e ha ricostituito l’unità. Si tratta per il monaco di entrare in questo mistero di unità. Già Evagrio aveva detto: «Monaco è colui che da tutto è separato e con tutti è armonicamente unito». Per Barsotti questo bisogno di unità nell’assimilazione al Figlio di Dio diviene presto il fulcro della sua ricerca umana, ma non solo, anche di quella poetica e culturale. Come il Cristo entra in rapporto con tutti in un modo misterioso, così nessuno può essere escluso, nemmeno i peccatori. E don Divo raccoglie l’esempio di Giovanni di Kronstadt che si accusa di tutti i delitti, di Silvano del Monte Athos a cui il Cristo dice: «Sta’ all’inferno e non disperare». Nel ‘57 scrive nel diario: «Non sarai salvo che nella salvezza di tutti».
E questo bisogno di unità si traduce innanzitutto nell’accogliere tutta l’umanità nella preghiera. D’altra parte la preghiera liturgica non è che questo: nel Cristo che prega essa dà voce a tutti i bisogni dell’uomo. Certamente la sensibilità poetica di don Divo lo aiuta a viver tutto questo con una intensità inusuale. Ma il momento in cui egli sente meglio questa unità è nella liturgia della Messa, quando “tutto precipita in quell’Atto”, che è l’atto del Cristo, ma anche di lui sacerdote.
Un esempio significativo della sua capacità di accogliere gli altri nel cuore per l’eternità: il 27 agosto del 1996, al ritorno dal pellegrinaggio in Russia, scrive sul suo diario:
«Ho ritrovato ieri la spilla che mi regalò un ragazzo di Vladimir appena fui sceso dal pullman. Ho sentito vivo un grande amore per lui. Potrò rivederlo un giorno in Paradiso? Sentivo che non potevo fare a meno di lui, sentivo che mi era necessario ed egli è in me. Come potrò essere salvo senza di lui? L’ho visto appena e se lo incontrassi non saprei riconoscerlo. Erano una frotta di ragazzi. Ma anche questo sarà il paradiso: riconoscere coloro che Dio mi ha dato come fratelli, come amici, come figli. Io non posso fare a meno di lui».
La funzione sacerdotale di consacrazione della realtà si unisce alla missione dell’annuncio. Ecco allora che la sua vita sarà tutta nel dono agli altri, ai suoi figli, ma anche a tutti quelli che incontra sul suo cammino, di quello che il Signore gli va dicendo. La duplice tensione verso Dio e verso i fratelli si coglie in tante espressioni cui siamo abituati e che spesso costituiscono i titoli dei suoi libri: Parola e silenzio, la fuga immobile…
Una missione di salvezza senza confini
3 – Terzo punto: tutto questo avviene nella Chiesa. Già nel 1941 scrive nel suo diario:
«Tutto è relativo, tranne la Verità, la Carità, la Vita: e la Verità, la Carità, la Vita sono venute al mondo per l’Incarnazione del Verbo di Dio, e si chiamano la Chiesa. Tutto per la Chiesa. Anche tu. Servi la Chiesa. Sarà l’ultima che rimane, la sola. Tu hai un nome e la tua vita un senso, un valore, in quanto servi la Chiesa, perché davanti all’Eterno la Chiesa sola rimane, Dio non conosce che lei. O Signore, uniscimi alla Chiesa tua – fammi organo di vita in lei, fa’ che partecipi di lei con una pienezza mai finora raggiunta. Che io possa servire la Chiesa, tutta la Chiesa, con tutto me stesso. […] Ebbene, non è ambizione né vanità: voglio lavorare per Te, o Signore! Voglio abbracciare tutti i popoli – voglio in me sentire il martirio d’amore della Chiesa Madre per tutte le anime che si perdono, per tutte le anime che si dibattono nell’errore e nel male – non voglio limitarmi a nessun apostolato, non voglio aver confini nell’amore. Sento che non sarei contento di essere Vescovo di una sola diocesi, non potrei esser contento. Affidami, o Signore, tutta la Chiesa, Tu che mi hai affidato Te stesso».
La Chiesa non ha confini. Quindi neanche il cristiano deve conoscere confini. Per don Divo la Chiesa è innanzitutto il mistero del Corpo mistico che tutti abbraccia. E sono presenti in lui le parole della lettera a Diogneto per cui il cristiano è il cuore del mondo: il mondo si salva per mezzo di lui. Ed ecco allora che, per descrivere la Chiesa, il nostro padre sceglie un simbolo insolito: la Chiesa è come una cometa:
«dobbiamo avere chiaro questo: fuori della Chiesa non vi è salvezza, ma vi sono un numero immenso di anime che sono unite invisibilmente alla Chiesa visibile. Vedete, la concezione della Chiesa, nel Concilio ultimo, non è più chiusa in compartimenti stagni. Come ho detto altre volte, è come una cometa: c’è un punto luminosissimo, ma poi c’è una coda lunga, lunga milioni di chilometri e in fondo a questa coda la luce è quasi nulla e la densità della cometa è quasi inesistente. Così è l’umanità: vi è un punto luminosissimo che sono i santi della Chiesa Cattolica che sono anche il centro. Poi, dice il Concilio Vaticano II, sono uniti a noi, in quanto hanno gli stessi mezzi di grazia, gli ortodossi, e dopo di loro i protestanti che conservano i sacramenti (del Matrimonio, del Battesimo, e alcune comunità anche dell’Eucarestia). Infine, afferma il concilio, anche il Buddismo, che pure di per sé nega Dio! Ma anche il Buddismo stesso è in qualche modo in rapporto con la Chiesa di Dio, perché il concetto della salvezza che ha il Buddismo (dice sempre il Concilio), è analogo al concetto della salvezza che possiede il Cristianesimo. Vedete allora che non c’è nessuno che sia totalmente al di fuori. Al di fuori della Chiesa c’è soltanto colui che rinunzia alla Chiesa [Biella 25 settembre 1988]
Da tutto questo deriva che Dio solo è giudice degli altri, un Dio che è morto per tutti! Ne deriva quindi l’assenza di giudizio, cosa difficile in un mondo che conosce tanti confini e contrapposizioni. Oggi si tende facilmente a condannare e a catalogare gli altri secondo criteri che non sono religiosi. Del resto anche le divisioni nella Chiesa storicamente furono provocate spesso da motivi politici e non religiosi. Don Divo non era uomo di parte (anche perché era troppo intelligente per farsi catturare dagli slogan di qualunque tipo) e quindi era pronto a riconoscere, con Giuliana di Norwich, che alla fine tutto sarà bene e a sperare che l’inferno (sia pure voluto dall’amore di Dio) alla fine si rivelerà vuoto, mentre nell’inferno spesso vive già in questa vita chi è lontano da Dio. A questa sensibilità contribuisce ancora una volta il suo essere poeta. Non a caso ad una conclusione molto simile giunge Calvino nelle Città invisibili.
Troviamo in don Divo un’apertura del cuore che supera anche le barriere dello spazio e del tempo. Egli non si limita a pensare alla realtà a lui contemporanea, i suoi orizzonti sono più vasti. Diceva per esempio che si sentiva un etrusco, e che una volta aveva desiderato essere vescovo degli Etruschi del passato. Leggiamo a proposito quello che scrive nel 1964:
«La dimensione vera di ogni uomo è tutto il tempo dal peccato di Adamo alla consumazione finale. Non viviamo soltanto la breve parabola della vita. Ogni uomo inizia il suo cammino prima di nascere con Adamo e lo finisce non con la morte ma con la risurrezione finale.
La vita dell’uomo è tutta la storia. Ogni uomo deve vivere fino all’ultimo giorno, deve vivere tutto il passato, le civiltà sepolte, il silenzio dei millenni»
In Dio non c’è divisione, e quindi ogni cosa, se viene assunta nel Cristo, può essere redenta e salvata. Ma nella Chiesa questa assunzione avviene attraverso ciascuno di noi.
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