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Barsotti e la vocazione cristiana, parte 2: lo spirito della Comunità dei Figli di Dio

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La Comunità dei Figli di Dio 

Già dai tempi del suo “eremitaggio” a Palaia don Divo sognava un movimento nuovo nella Chiesa per dare al mondo una nuova salvezza. Nei suoi scritti del 1945 si moltiplicano le annotazioni che esprimono il progetto che il Signore gli ispira.

19 settembre 1945: «La mia missione è rivelare il primato della contemplazione e di questo hanno bisogno oggi le anime».

10 ottobre 1945 (ultimo giorno a Palaia):

«L’opera ha le ampiezze stesse di Dio: come non ha scopi, non ha anche confini: altro non deve che unirci nell’Amore fino a fonderci e consumarci nell’unità – e l’Unità sarà tanto più vera quanta più sarà l’ampiezza che abbraccia: come una luce che si dilata sempre più e quanto più si dilata più cresce e si fa luminosa. La vedo confondersi con l’opera stessa di Dio, è anzi l’Opera sua. […] ».

14 ottobre:

«è necessario, per vivere, agire: la vita è movimento. Non puoi chiuderti, ora che Dio ti ha voluto in una grande città per lavorare. È necessario che il fuoco divampi. L’azione reagisce sulla tua vita interiore rendendola più viva, profonda. L’azione è la riprova della contemplazione […] lo Spirito è per la missione».

E quando intorno a lui nasce il primo nucleo della futura comunità, è naturale per lui trasmettere loro quello che ha sentito dentro di sé, il desiderio di far nascere un movimento in cui fosse abolita la separazione tra i religiosi tradizionali e i cristiani della strada e fosse resa possibile quella che Maritain chiamava la “santità profana” e che il dettato conciliare avrebbe chiamato “santità universale”.

Fuori dalle mura dei conventi

In questa nuova famiglia suscitata dallo Spirito la vita religiosa non avrebbe avuto più bisogno di essere protetta dalle mura dei conventi, ma sarebbe stata in mezzo ai fratelli, in una stupenda anticipazione di quanto il papa attuale ci insegna, quando parla di un Cristianesimo “in uscita”. Don Divo ha sentito tra i primi che il mondo di oggi avrebbe avuto bisogno di questo nuovo tipo di santità, senza separazioni tra gli specialisti del sacro e il popolo di Dio.

La Comunità nasce come realizzazione di quel progetto, perché il mondo ha bisogno di santi che non siano separati dai fratelli. Non vogliamo dilungarci, perché ci sarebbe da dire troppo. Notiamo soltanto come nel nostro statuto siano continuamente ripetute le parole “nel mondo”. E aggiungiamo solo due notazioni:

Monachesimo interiorizzato

La Comunità “è” Alioscia Karamazov. Come Alioscia viene invitato dal suo staretz a lasciare il monastero e ad andare nel mondo, così i consacrati non devono rimanere separati dai fratelli, ma essere capaci di accogliere ed ascoltare tutti senza giudicare. È questo il “monachesimo interiorizzato”, secondo l’espressione di Evdokimov, che don Divo ha pienamente condiviso e voluto realizzare per primo nel Cristianesimo occidentale, proponendo ai suoi figli di vivere in un “monastero senza mura”, impresa titanica, se vogliamo, ma certamente adatta ai nostri tempi. Con molta semplicità negli incontri ripetiamo: «donaci quella pienezza di fede cui hai promesso la conquista del mondo… rinnova in noi il miracolo della Chiesa nascente», quella Chiesa che conquistò il mondo con la gioia rivelatrice della presenza del Cristo.

La Chiesa che rappresenta tutta la creazione

La “Comunità del figli di Dio” insegna ai suoi membri ad essere Chiesa, a sentire il senso della Chiesa-mistero, che è il Corpo di Cristo. Il cristiano non è separato, ma, come Cristo è il primogenito che salva tutti gli uomini, così il battezzato, che è innestato nel Cristo, è “primogenito” nei confronti degli altri. L’offerta delle primizie nell’antico culto esprimeva in una porzione, la prima e la migliore, una concentrazione di sacralità che rendeva sacra la totalità e così nei primogeniti era rappresentato tutto il popolo. Allo stesso modo, nella dimensione di mistero nella quale si è introdotti con la consacrazione nella Comunità, se Dio ci sceglie, lo fa per una missione di salvezza universale, dalla quale, sull’esempio del nostro padre, non possiamo escludere niente e nessuno, ma dobbiamo sentire di poter salvare tutti i fratelli.

Accogliere l’universo nel cuore

Concludiamo con una poesia di don Divo che meglio esprime quanto abbiamo detto:

A convegno 13 dicembre 1974

Troppo piccolo è il cuore
per accogliere in sé l’universo
eppure sento che muore ogni luce
di bellezza, se in me non l’accolgo;
e mi chiede di aprirgli a fargli posto
ogni uomo che incontrai lungo la via.
Va perduto per sempre
come non fosse mai nato
quello che rifiutava l’amore.
Ma come le innumeri forme
l’alito fresco del vento, il profumo
del fiore, la luce dell’alba
– potranno in me rimanere
intatte per sempre?
E sento tuttavia che m’incalza
e mi sforza ogni cosa
che in me vuol sottrarsi alla morte.
Ma più l’uomo.
Certo, i poeti:
vengono dalle contrade più remote
bussano caparbi, senza darsi per vinti,
chiedono di potermi parlare.
E i santi:
vivono essi nell’inaccesso silenzio di Dio,
eppure non hanno lasciato la terra.
Chiedono tutti ospitalità nel tuo cuore.
E tutto vuol vivere in te perché di tutto tu viva.

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