Un’ Ordinanza contestata
L’Ordinanza del presidente della Regione Sicilia Nello Musumeci che sancisce l’espulsione dei migranti e chiude loro i porti dell’Isola – Ordinanza poi impugnata dal governo nazionale, con la motivazione che «la gestione del fenomeno migratorio è competenza dello Stato e non delle Regioni», e in seguito sospesa dal Tar –, ha suscitato, come prevedibile, un vespaio di polemiche, riattualizzando la contrapposizione su questo delicato tema tra “destra” e “sinistra” (a livello politico) e tra sostenitori e oppositori di papa Francesco (all’interno della Chiesa).
Per una riflessione pacata
L’esperienza insegna, purtroppo, quali falsificazioni della realtà possano essere perpetrate quando si discute di immigrazione, sotto la spinta di stati d’animo esasperati e di interessi di parte. Da qui l’opportunità di provare a fare una riflessione pacata, volta, prima che a sostenere una tesi o l’altra, ad avviare un confronto civile, degno di una società democratica e di una comunità ecclesiale. Questo non vuol dire che io non abbia un mio punto di vista (chi segue i miei “chiaroscuri” dovrebbe saperlo), ma che desidero tenere conto anche di quello degli altri, senza affrettarmi a catalogarli sotto questa o quella etichetta offensiva, come oggi si usa fare.
Una rabbia comprensibile
La prima considerazione che mi viene in mente è che la rabbia del presidente Musumeci è comprensibile. Nell’hotspot di Lampedusa sono stipate da giorni 1.400 persone, a fronte di una capienza massima di 192. Questo mentre altri sbarchi si susseguono.
Si aggiunga a questo la gravità della situazione sanitaria. Il virus non lo portano certo gli immigrati. Il presidente del Consiglio Superiore di Sanità, Franco Locatelli proprio in questi giorni ha chiarito che, «a seconda delle Regioni, il 25-40% dei casi sono stati importati da concittadini tornati da viaggi o da stranieri residenti in Italia. Il contributo dei migranti, intesi come disperati che fuggono, è minimale, non oltre il 3-5% sono positivi e una parte si infettano nei centri di accoglienza dove è più difficile mantenere le misure sanitarie adeguate».
Sgombrato il terreno da questa bufala, instancabilmente alimentata dagli organi d’informazione (?!) di “destra”, resta vero che, nelle condizioni disumane in cui i migranti vengono trattenuti, non solo i contagi tra loro sono più facili, ma negli hotspot si verificano sempre più spesso disordini e tentativi di fuga che ne rendono meno controllabile la diffusione, con pericoli anche per la popolazione del territorio.
La latitanza del governo
Di fronte a questo inferno, non è stato solo Musumeci a protestare per la scarsa incisività delle istituzioni nazionali. «Il governo» – ha denunciato il sindaco di Lampedusa – «continua ad affrontare il problema come se fosse una situazione ordinaria, mentre il Presidente del Consiglio dovrebbe assumersi la responsabilità di quanto accade».
Si ha effettivamente l’impressione che, al di là di qualche intervento occasionale, manchi un piano organico, da parte dello Stato, per fronteggiare la situazione. Così come continua ad essere assente, dopo tanti discorsi, una rigorosa pianificazione a livello europeo. Né si possono certo addebitare queste carenze all’emergenza, visto che di questa crisi si parla ormai da anni.
Ma è anche per i migranti che ci si preoccupa?
Tuttavia – ed è questa una seconda considerazione che mi si impone – , leggendo l’ampia premessa con cui si apre l’Ordinanza, si ha la netta impressione che a motivarla non sia stata la legittima preoccupazione per le condizioni disumane in cui i migranti vengono a trovarsi, ma il fatto che la loro tragica situazione «incide in modo significativo e allarmante sul rischio concreto di diffusione del contagio» e la convinzione che «deve essere tutelata l’incolumità e la salute di tutti i cittadini siciliani».
Anche se poi, nelle sue dichiarazioni, Musumeci ha cercato di correggere il tiro, l’Ordinanza non nasce da una logica umanitaria, ma da una visione egoisticamente regionalistica. Come conferma il fatto che essa non si pone minimamente il problema della sorte degli espulsi: dice solo che essi «devono essere improrogabilmente trasferiti e/o ricollocati in altre strutture fuori del territorio della Regione Siciliana».
Prospettiva locale e prospettiva nazionale
Si potrà osservare che non è compito del presidente di una Regione affrontare il problema nel suo complesso. Ma è proprio questo che il governo e i sostenitori dell’illegittimità del testo normativo hanno obiettato. La politica dell’accoglienza non può essere gestita dai poteri locali – come già in altre occasioni essi hanno preteso di fare – con uno sbrigativo «fuori dai piedi» o l’equivalente «ovunque, tranne che da noi». Se non altro perché una giusta distribuzione è possibile solo in una logica nazionale, che ne stabilisca ragionevolmente, in rapporto alle diverse situazioni territoriali, le modalità.
Un’eclatante ambiguità: il rinnovo dell’accordo con la Libia
Resta il fatto che, alla base di questa situazione sbagliata non c’è solo l’improntitudine del presidente della Regione Sicilia, ma prima di tutto l’incapacità del governo di proporre un progetto serio per la gestione dell’accoglienza e dell’integrazione di migranti.
Quella di questi giorni non è l’unica occasione in cui lo si è visto. Ai primi di febbraio si è lasciato che scattasse la proroga automatica, per altri tre anni, senza sostanziali modifiche, del memorandum Italia-Libia, in base a cui il nostro Paese ha finanziato generosamente la Libia perché bloccasse con tutti i mezzi – compresi i lager e le violenze della guardia costiera sui naufraghi – le partenze verso le nostre coste.
Il vero Salvini è stato Minniti
Le indignate denunzie della “sinistra” contro le prese di posizione di Salvini nei confronti dei migranti hanno oscurato il fatto che quell’accordo era stato firmato dal governo Gentiloni nel febbraio del 2017 e gestito dal ministro degli Interni – del PD – Minniti. Salvini è stato abile nel contribuire a questa smemoratezza, per lucrare i consensi derivanti da scelte altrui e dalla conseguente drastica diminuzione degli sbarchi (risalente in realtà ai mesi precedenti alla sua entrata in carica). Ci sarebbe aspettati, adesso, che quell’ “errore” fosse corretto introducendo nel memorandum clausole vincolanti contro le violazioni sistematiche dei diritti umani da parte del governo libico. E invece lo si è rinnovato così com’era, pur dichiarando che ci si riservava di chiedere in futuro delle modifiche (ma le modifiche andavano chieste prima, non dopo il rinnovo! E infatti, anche la recente visita del ministro Lamorgese non sembra aver prodotto più di qualche generica raccomandazione umanitaria, tutt’altro che cogente).
La mancata abolizione dei “Decreti sicurezza”
Analoga ambiguità il governo ha avuto nei confronti dei due “Decreti sicurezza” voluti da Salvini e bollati, giustamente, come “Decreti insicurezza”, perché, essendo volti a rendere quanto più possibile difficile l’integrazione, rischiano di condannare alla clandestinità permanente persone che, a questo punto, diventerebbero effettivamente pericolose.
Dopo le vivacissime proteste che questi due testi normativi avevano giustamente suscitato, ci si poteva aspettare che fosse una priorità del nuovo governo abolirli o almeno modificarli radicalmente. Invece, no. La sola cosa che è cambiata è l’atteggiamento dei rappresentanti delle istituzioni, ora meno fiscale e rigoroso di quando Salvini gestiva il ministero degli Interni. Delle deroghe si sono fatte riaprendo i porti per rendere di nuovo possibile l’accoglienza. Restano però tutte le limitazioni previste dai Decreti che rendono difficile l’integrazione. Si naviga a vista.
Insomma, mentre quello di Salvini è un progetto politico, questo non lo sembra esserlo. Certo, bisogna dare atto che quello delle migrazioni è un problema di amplissime proporzioni e di difficilissima soluzione, di cui sarebbe follia pretendere la soluzione in tempi brevi. Ma l’attuale governo sembra incapace non solo di risolverlo, bensì di affrontarlo con una sua precisa linea politica, che possa costituire un’alternativa a quella (disastrosa) dei governi precedenti.
Così si svalutano anche gli appelli di papa Francesco
A questo punto non c’è da stupirsi se molti cittadini hanno dato ragione a Musumeci. Anche tanti cattolici, che sarebbero in astratto d’accordo con papa Francesco sulla necessità di accogliere i poveri, in concreto si sentono minacciati da un’accoglienza caotica e senza prospettive di una corretta integrazione. In questo modo non si rende un buon servizio neppure agli immigrati. E acquistano forza le sorde resistenze, anche nell’ambito ecclesiale, nei confronti degli accorati appelli di Francesco, che ancora in questi giorni ci ha messi in guardia dalla “cultura dello scarto”. Dimenticando che lo stesso pontefice ha sempre sottolineato che l’accoglienza, senza integrazione, non è una soluzione, anzi perpetua in altre forme la logica dello scarto.
Senza un linea politica adeguata, vincerà la paura
La verità è che la carità non può fare a meno della giustizia e la giustizia non può fare a meno della politica. Se quest’ultima continuerà a barcamenarsi tra dichiarazioni di principio umanitarie e una effettiva mancanza di progettualità e di efficienza nel tradurle in scelte e misure concrete, è inevitabile che l’opinione pubblica – già nel recente passato molto sensibile alla “propaganda della paura” di matrice sovranista – finisca per concludere che la linea del respingimento dei migranti è l’unica realisticamente praticabile. E questo, al di là delle controversie tra “destra” e “sinistra”, per il nostro Paese significherebbe ricadere in una regressione ben più grave di quella economica, perché coinvolgerebbe non il Pil, ma la nostra umanità.
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