Hai sempre un certo pudore a confessare la parola “maestro”, quasi nel timore che riconoscere un debito nei suoi confronti porti gli altri a “scoprire il trucco” del tuo mestiere, finendo per attribuire a lui ciò che si erano illusi fosse propriamente tuo. Questo accade, spesso, quando il “maestro” di cui si tratta ha una personalità ingombrante, che tende a prolungarsi nei suoi allievi, le cui esitazioni nel manifestare la propria filiazione possono dunque essere lette come una legittima rivendicazione di autonomia. Ci sono casi, invece, in cui il senso di gratitudine spazza via ogni resistenza, perché il maestro che ha contribuito alla tua formazione è stato così discreto, da rendere impossibile tacere in occasione del suo congedo istituzionale. E questo soprattutto per impedire che la discrezione del suo insegnamento finisca nell’oblio di chi la scambia per una mancanza di incidenza.
Quello che qui offro è però non solo un omaggio, ma anche un affettuoso dispetto. Schivo com’è di fronte a complimenti e apprezzamenti – quando appare a tratti come una figura d’altri tempi, un moderno stoico insensibile verso ciò che invece agita e preoccupa altri – Leonardo Samonà non gradisce celebrazioni. Ma nemmeno si scompone più di tanto se ne riceve. E non tanto per umiltà. Il fatto è che non ha tempo. Bisogna lavorare. Troppo intento a discutere una questione o a risolvere un problema per porsi l’alternativa fra umiltà e vanagloria. A chiunque lo conosca, Samonà appare virtuoso non perché sia moralmente perfetto, ma perché non ha molto tempo per i vizi caratteristici degli accademici. Gli piace troppo fare filosofia per attardarsi su questioni periferiche lungo la via. Deve procedere, dinamico e sportivo, così come fa anche fisicamente, con quella sua ingannevole chioma bianca, simpatico contraltare alla camminata, veloce e molleggiata, di un venticinquenne con lo zainetto sulle spalle.
Professore ordinario di Filosofia Teoretica all’Università di Palermo, profondo studioso e acuto interprete della tradizione metafisica, soprattutto di Aristotele, Hegel e Heidegger, Samonà concluderà la propria carriera accademica quest’anno. Chiunque lo conosca, lo abbia ascoltato o letto, si porta dentro l’esperienza di un incontro umano e di un privilegio intellettuale. L’incontro con una figura discreta e signorile, di cui colpisce lo stile professionale asciutto ed essenziale, privo di quella caratteristica affettazione di cui talvolta sono vittime i filosofi. Ma soprattutto il privilegio intellettuale, raro, di aver potuto sperimentare “che effetto fa” la filosofia, quando questa parola non si riduce alla fredda e noiosa esposizione di una dottrina, ma alla freschezza di un pensiero vivo, pacato e rigoroso, mai ovvio, sempre lucido e coinvolgente.
Non c’è chi non si accorga, dopo averlo incontrato e conosciuto, di quanto l’eleganza della persona faccia in lui tutt’uno con la finezza del pensiero, in un effetto di insieme straordinariamente formativo, perché mentre coinvolge e appassiona, al tempo stesso responsabilizza e impegna. Ed è questa, personalmente, la lezione che ritengo di aver appreso in ultimo da Leonardo Samonà, una lezione che reca l’impronta inconfondibile della sua persona, e cioè il tratto cordiale della filosofia e dei suoi principi, il fatto che il pensiero sia una faccenda di stile, in cui la forma è davvero sostanza. Non c’è insomma alcun bisogno che il pensiero sia debole per non essere violento. È sufficiente che sia gentile. Dove però la “gentilezza” del pensare diventa qui la più fedele espressione della sua “forza” specifica, come si coglie, per innegabile contrasto, dal fatto stesso che Samonà ha saputo coltivare questa leggerezza anche, e soprattutto, come lettore e interprete di autori speculativamente “pesanti” quali sono Aristotele e, soprattutto, Hegel.
Ascoltare Samonà ha sempre significato, almeno per me, lasciarsi trasportare da una corrente impegnativa, partecipare a un evento che si svolge sul momento, con tutta la tensione, l’imprevedibilità e il carattere avventuroso che questo comporta. Con quei colpi di scena ai quali ho spesso assistito nello scoprire, grazie ad alcune delle sue geniali interpretazioni, un senso inedito nella pagina di questo o quell’altro grande filosofo. Ascoltare Samonà, insomma, ha significato per me sperimentare un magnetismo che però non ti ipnotizza, perché ti lascia sempre quello spazio che non ti risparmia la fatica di uno sforzo indipendente. Torna qui il privilegio di cui parlavo, ossia poter vedere che effetto fa la filosofia mentre si svolge nella sua forma più classica, ossia il dialogo socratico. In cui sei sempre insieme spettatore che contempla e attore che agisce e contribuisce a definire il quadro contemplato. Nel suo lavoro silenzioso e privo di enfasi, Samonà sa far gustare pienamente, mettendolo in scena, qualcosa di questo affascinante processo, in cui ciò a cui arrivi tu grazie a un altro si mostra semplicemente “vero”, ossia indipendente da entrambi.
Volendo ridurre all’osso la sua intensa riflessione speculativa, si potrebbe dire che è in questo modo che Samonà ha sempre inteso la filosofia: non come un conflitto fra opinioni sganciate da ogni riferimento alla cose, ma come il luogo in cui il pensiero recupera un rapporto amichevole con il loro principio e con chiunque lo discuta. Il che presuppone una precisa (e ben più profonda di quanto sembri) concezione della verità, intesa da Samonà come qualcosa che unisce tutti solo quando è riconosciuta liberamente da ciascuno. Quanto questo ideale di filosofia sia stato vissuto oltre che teorizzato, lo si può vedere anche nel modo in cui Samonà ha gestito informalmente i rapporti, spesso conflittuali e di aspra competizione, tipici del mondo accademico. L’ho sempre visto valorizzare il lavoro di chiunque, al di là delle esigenze di schieramento accademico. In un ambiente spesso segnato da rivalità e maldicenze, mi ha sempre impressionato vedere come non vi fosse anziano collega o giovane in formazione di cui Samonà non riconoscesse i diritti e la dignità. Una specie di “onore delle armi” concesso a chiunque come preliminare regola del gioco. Etica d’altri tempi.
Certo, si dice che per omaggiare un maestro occorra parlare non di lui, ma delle cose che egli ha insegnato o che si ritiene di aver da lui imparato. Io credo però che nel caso di Samonà questo sia ancora troppo poco. E non soltanto perché impegnarsi nella direzione che il suo lavoro intellettuale ha tracciato significhi, inevitabilmente, anche parlare di lui, ma perché spinge, soprattutto, a parlare con lui, quasi a confermare il carattere intimamente dialogico della stessa ricerca filosofica.
A questo riguardo sarebbe un errore fermarsi di fronte al carattere apparentemente ermetico del lavoro di Samonà. Anche la fisica e l’economia, per chi non si sottomette alla fatica del loro studio, sono ermetiche. Come tante altre discipline, la filosofia è complessa ma non complicata. C’è insomma bisogno di uno sforzo per comprenderla e, soprattutto, per gustare le gioie profonde che può regalarci in cambio della nostra fatica. Tutto ciò che chiede di più dà anche di più. Quella di Leonardo Samonà, è innegabile, è una filosofia impegnativa, ma solo perché fatta “come si deve”. La sua complessità speculativa è il riflesso di una fedeltà testuale: alle grandi opere della tradizione, dai dialoghi platonici alla Metafisica di Aristotele, dalle Critiche kantiane alla Fenomenologia di Hegel, dagli scritti di Heidegger a quelli di Wittgenstein. È insomma la complessità della filosofia stessa e dei problemi di cui essa si è tradizionalmente occupata con l’impegno dei suoi grandi maestri. Chiunque ami davvero questa strana signora, non potrà che compiacersi di avere anche solo una vaga idea di cosa significasse, per i discepoli di Platone, di Hegel, di Kant e di Heidegger, ascoltarne la viva voce.
In questo il lavoro filosofico di Samonà lascia intravedere qualcosa che si coglieva anche nello stile del suo maestro Nunzio Incardona. Se mi è permesso un piccolo ricordo nostalgico, fu proprio mentre preparavo l’esame di Filosofia teoretica da sostenere con Incardona che, venticinque anni fa, conobbi Leonardo Samonà. Benché non fosse in programma, comprai e divorai il suo Dialettica e metafisica. Prospettiva su Hegel e Aristotele, nella speranza che potesse darmi una chiave di accesso all’ermetico filosofare incardoniano e alla sua impervia lettura di Aristotele e di Hegel. Se è vero che “dai frutti conoscerete l’albero”, così mi dissi, leggendo Samonà avrei potuto capire qualcosa in più anche di Incardona. Il risultato, divertente, fu che se da un lato compresi Incardona quanto bastò per superare a pieni voti l’esame, dall’altro lato non compresi Samonà così pienamente da non aver bisogno di leggerlo (e incontrarlo) ancora. E così è avvenuto per tanti anni, in cui ho ricevuto il regalo di poter apprendere il carattere laborioso della filosofia, che ha davvero a che fare con quella che Hegel chiamava la “fatica del concetto”, e che in Samonà sembra esprimersi più propriamente come “pazienza del dialogo”.
Mi incuriosì, a questo proposito, ciò che una volta mi ha detto parlando della sua idea di filosofia quando, citando il Vangelo, paragonò la vocazione del filosofo a quella di chi, costretto dall’altro a fare un miglio, decide di farne due (Mt 5, 41). Rivedo in questa analogia molti degli incontri avuti con Leonardo Samonà in ormai quasi un trentennio, incontri nei quali ho sempre ricevuto più di quanto chiedessi o mi aspettassi, a cominciare dal tempo dedicatomi. Di questa generosità, di cui ancora oggi beneficio insieme a tanti altri, mi piace finalmente ringraziarlo con il mio piccolo omaggio. Che, lo so già, gli strapperà un sorriso affettuoso, ma del tutto privo dello sterile compiacimento di chi dipende dall’altrui approvazione. Se pensare, come dice Aristotele, è già “meraviglioso”, non occorrono altre consolazioni…
Lascia un commento