Un Natale da dimenticare?
A molti non sembra neppure che sia Natale. La festa del calore familiare, delle luci, del cenone, dei doni sotto l’albero, è stata trasformata dalla pandemia in una grande, fredda quarantena, che relega ognuno nella sua casa, escludendo quell’allegra convivialità con amici e parenti che rendeva questa ricorrenza la più sentita dagli italiani.
Per non parlare di tutti coloro che sono ancora scossi dalla perdita di persone care, tanto più dolorosa perché avvenuta in totale solitudine; di coloro che sono risultati positivi al tampone e che perciò, perfino nelle loro abitazioni, vivono un ulteriore isolamento precauzionale nei confronti dei familiari; soprattutto di quelli che stanno vivendo il dramma della malattia e sono ricoverati negli ospedali, alcuni addirittura in terapia intensiva, con l’incubo dell’intubamento…
Al posto di Babbo Natale, un Dio in esilio
Quest’anno Babbo Natale non è arrivato. Eppure c’è da chiedersi se proprio il vuoto lasciato dalla sua assenza non ci costringa a riscoprire il significato originario di questa festa, da lungo tempo dimenticato. Che non è la celebrazione del consumismo, e neppure quella della famiglia, ma riguarda il mistero cristiano di Dio che si è fatto uomo.
Qui il dilagante “buonismo” natalizio c’entra poco. Il Natale di Gesù assomigliò più al nostro di quest’anno che non a quello a cui siamo abituati. Come dice il titolo di un bel romanzo di Vintilia Horia, Dio è nato in esilio. Maria non lo ha partorito a casa sua, a Nazareth, assistita dalle donne del vicinato sue amiche, ma in una stalla, alla periferia di un villaggio sconosciuto e lontano, Betlemme, mentre era in viaggio, sola con suo marito. Erano talmente poveri che non ci fu dove mettere questo neonato altro che nella mangiatoia degli animali
La prima esperienza di questo bambino è stata l’emarginazione: nota l’evangelista Luca che «per loro non c’era posto nell’alloggio». E i soli a farsi avanti per rallegrarsi della sua nascita sono stati degli altri emarginati, i pastori. Tutti gli altri abitanti di Betlemme, quelli della vicina Gerusalemme, neppure si accorgono di ciò che è accaduto. E perché, del resto, avrebbero dovuto farlo?
Dio si manifesta nella povertà
Non è questa l’immagine di Dio che le religioni e i filosofi si sono sempre fatti. Non era neppure quella delle Scritture ebraiche, in cui Jahvè è il Creatore del cielo e della terra, il Signore, Colui di cui non si poteva neppure pronunciare il nome né vedere il volto senza essere annientati.
Eppure, ai pastori l’angelo non indica altro indizio, per riconoscerne la presenza, che questo scenario di povertà: «Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia». È questo Dio esiliato dalla sua beata, intangibile trascendenza, oltre che dalla società degli uomini, questo fragile bambino, figlio di gente che non conta, gettato allo sbaraglio in un mondo estraneo e indifferente, è questo il Dio che il Natale ci presenta.
Cambiare la nostra idea di Dio, ma anche di noi stessi
Guardandolo, ci rendiamo conto che noi abbiamo sempre fatto i conti con l’Altro, quello delle religioni e dei filosofi. È in Lui che abbiamo creduto o a cui ci siamo ribellati, magari rimproverandogli di avere permesso la pandemia. È Lui che abbiamo sentito molto lontano da noi e dai nostri problemi, tanto da finire per ignorarlo, come ormai accade nei nostri ritmi di vita secolarizzati.
Il Natale ci costringe a cambiare la nostra idea di Dio. Ma forse anche quella di noi stessi. Se Lui non è lontano da noi, perché ha condiviso per sempre la nostra fragilità, le nostre povertà – non ci sono solo quelle economiche –, la nostra insignificanza, anche noi non siamo così lontani da Lui, come credevamo. Proprio quando siamo vulnerabili, spaventati, feriti, ce lo ritroviamo vicino. Nelle case troppo piccole, dove la convivenza forzata genera nervosismo; nella fatica di uno smart working spesso più estenuante e invasivo del lavoro in presenza; nella solitudine che le feste natalizie rendono ancora più deprimente; perfino nella malattia e nella paura della morte.
Se Dio ha accettato di vivere la nostra condizione umana, anche noi possiamo farlo. Se l’ha apprezzata e amata al punto da farla sua, anche noi dobbiamo imparare a coglierne la dignità e la bellezza. Anche quando essa è più precaria, più esposta al male. Ed è là – non in Cielo – che lo dobbiamo cercare.
Fare spazio a Dio…
Perché ciò avvenga, però, bisogna che gli facciamo spazio. Il modo in cui è venuto tra noi mostra chiaramente che non si sa imporre. Nel vangelo di Giovanni troviamo una versione del Natale che conferma il racconto di Luca. Dopo avere iniziato dicendo che «In principio era il Verbo», l’evangelista continua: «E il Verbo si fece carne». “Carne”, nel linguaggio biblico, non indica il corpo, ma l’umano nella sua fragilità. Ed anche Giovanni sottolinea che a questo “esilio” di Dio, espresso nella sua “uscita” dalla propria sicurezza e perfezione trascendenti, corrisponde l’esilio a cui è andato incontro tra gli uomini: «Era nel mondo/ e il mondo è stato fatto per mezzo di lui;/ eppure il mondo non lo ha riconosciuto./ Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto».
… Per salvarlo dentro di noi
Perché noi impariamo da Dio quello che Egli ci dice sulla nostra umanità, dobbiamo accoglierlo dentro di noi nella sua divinità. Lo ha detto in modo commovente una ragazza ebrea, Etty Hillesum, uccisa in un lager, in una pagina del suo diario: «Se Dio non mi aiuterà più, allora sarò io ad aiutare lui (…). Cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me, ma apriori non posso promettere nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, è anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini».
Nel silenzio del Natale
Perciò il Natale non significa soltanto che possiamo riconoscerci nella fragilità di Dio, ma che possiamo riscoprirlo dentro di noi. Anche nel tempo del coronavirus. Anzi, forse proprio in questo tempo, in cui siamo costretti a rallentare il ritmo frenetico delle nostre esistenze indaffarate e a trascorrere molto tempo a casa dove, pur nella fatica del lavoro a distanza, siamo più facilmente soli con noi stessi.
Forse per fare spazio a Dio basta restare in silenzio, far tacere non solo i suoni esterni che quotidianamente ci assediano, ma anche le tensioni, i pensieri, le parole che assillano la nostra mente. È in questo profondo silenzio, in cui Egli è entrato nel mondo, che può nascere in noi.
E allora forse sarà stato Natale. Per la prima volta anche per noi.
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