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“Il segreto del Bosco Vecchio” di Dino Buzzati: una recensione

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Tutto ciò che ci affascina nel mondo inanimato, i boschi, i fiumi, le montagne, i mari, le valli, le steppe, di più, il cielo, i tramonti, le tempeste, di più, la neve, di più, la notte, le stelle, il vento, tutte queste cose, di per sé vuote e indifferenti, si caricano di significato umano perché, senza che noi lo sospettiamo, contengono un presentimento d’amore”.

Dino Buzzati

Buzzati concesse la stampa de Il segreto del Bosco Vecchio nel 1935, per i tipi dei Fratelli Treves: era il suo secondo romanzo.

Dietro l’apparenza di uno scritto favolistico che mischia elementi fantastici a quelli realistici, e dentro la struttura lineare della fabula, si rincorrono tematiche etiche ed esistenziali che offrono al lettore interessanti spunti di riflessione: il rapporto tra uomo e natura, l’ecologia e l’educazione ambientale, gli archetipi della fanciullezza e dell’età adulta, la dimensione simbolico-sacrale degli elementi naturali.

Nel susseguirsi dei 40 capitoli di breve estensione che compongono il testo, la trama racconta del lascito di una grande tenuta boschiva a Valle di Fondo a favore dell’avido colonnello Sebastiano Procolo e del fragile nipote dodicenne, Benvenuto Procolo, di cui per volere testamentario egli è tutore.

Il vecchio ufficiale intende radere al suolo il Bosco Vecchio, la parte più antica e nobile della proprietà, per trarne un fruttuoso guadagno, e arriva a progettare l’assassinio del nipote per accaparrarsi la restante e più cospicua parte di eredità.

Su questa semplice traccia narrativa si innesta l’elemento magico che fa cambiar rotta al racconto: il bosco vive, vi abitano geni millenari e animali parlanti, e persino i venti hanno un nome e posseggono una voce.

Bernardi, uno dei geni con sembianze umane, per proteggere la foresta accondiscende ad un accordo con Procolo: egli fermerà la strage di alberi, e in cambio le creature del bosco gli daranno rami e tronchi caduti da cui cavar profitto.

Procolo, tuttavia, persegue ancora l’idea di sbarazzarsi del nipote, e assolda il terribile Vento Matteo, dopo averlo liberato dalla cava in cui era stato rinchiuso, perché porti avanti il suo piano scellerato. Il vento più volte fallirà il tentativo, e infine mentirà al suo padrone, dicendogli che Benvenuto giaceva sotto a una slavina; mosso a pietà del ragazzo, cui pian piano si era venuto ad affezionare, il vecchio muore cercando nella notte gelida il bambino.

Questo atto d’amore ribalta il giudizio: il colonnello Procolo, dentro al Bosco, ritornato alla sua dimensione primigenia, riacquista le sue più belle qualità umane, impara a donarsi, a voler bene, e, al pari delle “inumane” creature che lo abitano, accoglie di nuovo in sé la pìetas perduta.

Dove e quando l’aveva perduta?

Bernardi dice ad un certo punto nel romanzo:

A una certa età tutti voi, uomini, cambiate. Non rimane più niente di ciò che eravate da piccoli. Diventate irriconoscibili”.

Dunque, per Buzzati, crescere è perdere l’innocenza e la purezza, dimenticare il luogo edenico della fanciullezza, corrompersi.

Il Bosco si fa simbolo e mito ancestrale dell’eden perduto, quello“collettivo, dell’umanità intera, e quello personale e privato della verginità coscienziale dei primi anni di vita”1.

Parallelamente, esser bambini significa aprirsi all’incredibile, allo stupore felice del creato, alla dimensione naturale dello spirito e della morale.

Cosi, nel romanzo, il delicato e fragilissimo bambino diventa cifra di lettura esistenziale: il salvifico ritorno al cuore intatto e incorrotto dell’Inizio (Benvenuto è simbolo di ciò che ogni adulto è stato un tempo, felice nell’armonico abitare la natura).

La contaminazione, di fatto, trae nutrimento dall’allontanarsene, dal ferire la natura incontaminata, tradirla. Prevalere su di essa.

Questo il messaggio etico ed ecologista nel racconto.

Buzzati, del resto, era un appassionato camminatore di sentieri montani e passi alpini, uno scalatore. Una foto scattata sulla cima della Croda lo ritrae felice, come forse solo in montagna riusciva ad essere, e in diversi articoli nel corso della sua carriera giornalistica difese strenuamente la natura contro l’industrializzazione, lo scempio della deforestazione e della cementificazione.

Queste alcune delle tante chiavi di lettura del romanzo, che scorre con un linguaggio semplice e gentile, e una prosa poetica capace di coniugare senza fratture di senso e di tono il mondo mitico e quello umano.

In esso convivono infiniti e solenni silenzi, in cui il tempo pare essere inghiottito, e i rumori vivi del Bosco, i canti del vento, il tramestio delle creature, le voci remote degli alberi secolari.

In esso si alternano la dolcezza e la poesia del creato, a incubi misteriosi nel ventre della casa, nottetempo.

In esso ci si smarrisce, o si smarrisce la propria ombra, in esso ci si ritrova.

“…finiremo per ritrovarci. I nostri rami si toccheranno ancora, e riprenderemo i nostri discorsi e gli uccelli ci staranno a sentire”.

Nel ciclo della natura, il ritorno all’Inizio.

1 Claudio Toscani, Introduzione alla Il Segreto del Bosco Vecchio- Mondadori.

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