Contemporaneo di Turgenev, Tolstoj e Dostoevskij, anche Ivan Aleksandrovich Goncharov, come essi, compose interessanti ritratti dei mutamenti sociali in Russia nel corso del 19° secolo, dando vita a uno dei personaggi più vividi e memorabili della letteratura di quel paese.
Figlio di un ricco mercante, visse una infanzia e una giovinezza piuttosto agiate, e potè laurearsi in Lettere all’università di Mosca.
Lavorò per più di trent’anni al Ministero delle Finanze e poi a quello della Censura; unico diversivo in un’ esistenza piana e abbastanza ordinaria fu un incarico che ricoprì in Giappone, dal ‘52 al ’56, come redattore capo del giornale governativo Severnaja Pôcta, e dalla cui esperienza trasse ispirazione per un racconto di viaggio.
In Goncharov opera e vita si rispecchiano in un gioco al rimando: scarsezza di avvenimenti esteriori significativi, e un atteggiamento fortemente spirituale e riflessivo caratterizzano sia l’una che l’altra.
Scrisse diverse opere, ma tre sono fondamentali: “Una storia comune”(1847), “Oblomov”( 1859), e “Il burrone”(1869). Il tema ricorrente in queste scritture è il contrasto tra un protagonista quieto sognatore, e un personaggio oppositivo che rappresenti l’efficienza e la capacità affaristica. La contrapposizione diede modo all’autore di sottolineare l’infelice convivenza in Russia del capitalismo e dell’industrializzazione con le secolari tradizioni aristocratiche.
Quello che Goncharov dipinge, come del resto fanno i padri della letteratura dell’Ottocento ancora zarista, èun impero spaccato tra un modernismo occidentale che volge lo sguardo all’Europa liberale, e un’atavica arretratezza nobiliare ancora legata alla terra, che stenta ad emanciparsi ed abolire le aberrazioni della servitù della gleba.
Su questo sfondo si muove, o meglio, non si muove affatto, Oblomov, protagonista dell’omonimo romanzo.
La sua immobilità, la pigrizia e l’abbandono quasi patologico al lassismo, sono di fatto quelli della nazione.
Egli resta inerte, quasi dormiente, così come la Russia si abbandona lenta al sonno mentre l’Europa e il mondo corrono avanti a lei.
Il libro, in buona sostanza, racconta l’avventura immota di un aristocratico, proprietario terriero, che trascorre i giorni allungato sulla sua meridienne, senza far nulla dalla mattina alla sera, consacrando rarissimi e flebili sforzi a pensare di far qualche reprimenda al vecchio domestico che tenta di curare una casa oramai in abbandono, o ricevendo ogni tanto la visita di un giovane amico, Stoltz, un europeo di origini tedesche (dunque vitale e brillante, secondo il ragionamento appena sopra), che lo sprona ad esser più attivo, a viaggiare. Oblomov promette di raggiungerlo a Parigi, ma non vi andrà mai.
Frattanto si innamora di una giovane e adorabile donna, Olga, che ricambia il suo sentimento. Ma il cuore di un pigro non regge i moti dell’amore, e così Oblomov lascia passare l’occasione della sua vita, come lascia che ogni cosa lo superi e scivoli via.
Più tardi si arrenderà al matrimonio con una donna meno turbolenta, che non intralcia il letargismo dei suoi giorni.
La caratterizzazione del personaggio è talmente divenuta una personificazione dell’ inerzia e dell’indolenza, che ha fatto derivare dal nome del protagonista il conio di un nuovo lemma , oblomovshchina, che descrive appunto il lassismo e la futilità della società russa del XIX secolo.
Eppure, inverosimilmente, ciò che rende interessante il romanzo, in una tale stagnante fissità ed inerzia, è l’incessante moto intellettuale del protagonista, le sue continue riflessioni morali , le domande dello spirito, i giudizi chirurgici su una società che gli appare ipocrita e marciscente:
“Non c’è un centro, non c’è nulla di profondo, che possa toccarti sul vivo. Son tutti quanti dei cadaveri, degli addormentati, peggio di me, questi membri della società o del mondo! Che cosa li guida nella vita? Va bene, essi non stanno sdraiati, ma vanno e vengono ogni giorno, come mosche, avanti e indietro, e che ne vien fuori? (…) Si riuniscono e si offrono l’un l’altro da mangiare senza cordialità, senza bontà, senza reciproca simpatia! Sì riuniscono a pranzo, dànno una serata come se andassero all’ufficio, senza allegria.”
(Pag. 171)
C’è, nel dormiente Oblomov, un’insospettata vitalità di pensiero critico, una invincibile purezza, e lo sdegno di un’anima pura che osservi come il mondo privo di qualità morali si impantani, come il modo privo di carità e compassione non valga la pena di essere vissuto.
Vi è in egli davvero una forma della incontaminata etica infantile:
“Il suo cuore non ha dato mai una nota falsa, non s’è aperto a nessuna volgarità. Nessuna menzogna, per quanto brillante, riuscirà a stordirlo e nulla lo porterà su di una falsa strada; anche se un oceano di sudiceria e di cattiveria gli si muoverà intorno, anche se tutto il mondo sarà avvelenato e male indirizzato, Oblomov non si inchinerà mai all’idolo della menzogna, e la sua anima sarà sempre pura.”
(Pag. 462)
Dunque, se da un lato l’autore lo fa assurgere a simbolo della fissità di una intera nazione, della ottusa mollezza della classe aristocratica, Oblomov è altresì l’icona dell’eroe morale, che chiede costantemente il valore di ogni cosa, e che dall’alto della sua levatura spirituale rinuncia a scendere in quel pantano di mondo che gli si muove intorno.
Forse non è che il buono intristito dalla solitudine dei buoni, in un mondo governato da mercenari e sepolcri imbiancati destinati a morire per come hanno vissuto. Oblomov è solo perchè non crede negli uomini, osserva con disgusto la società ma non fa nulla per cambiarla, convinto che tale e immutabile sia la natura umana. Oblomov rinuncia, dorme, sceglie il sonno. Ci faccia allora riflettere che anche il più cristallino e puro degli ideali etici, se non sorretto da una fede che poiché è in Dio è anche negli uomini, annichilisce.
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