Il confronto individuale e comunitario con la Scrittura
Fondamento e quotidiano sostentamento dei Padri e delle Madri nella ricerca continua di Dio è la Sacra Scrittura. La frequentazione con i sacri testi si rende particolarmente evidente nei loro Detti, non in quanto ne contengano precise citazioni, quanto piuttosto perché ne trasudano la frequentazione assidua e ne sono il frutto spontaneo.
Si è giustamente parlato di “ubiquità della Scrittura” proprio perché la Bibbia costituiva la vera essenza di tutta la loro vita, il luogo ordinario dell’incontro quotidiano con Dio attraverso la lettura e la meditazione della sua Parola, attitudine necessaria ed indispensabile a fissare la vita del monaco in Dio. La Parola letta o ascoltata macerava interiormente nella solitudine della cella, poi si condivideva nell’incontro liturgico settimanale coi fratelli e nei colloqui personali con i monaci anziani. La Parola circolava, non cessava di produrre nel tempo, tanto nell’anziano quanto nel discepolo, quella apertura a Dio che non può conoscere misura.
La connessione, la circolarità e il continuo passaggio dall’uno all’altro “luogo d’incontro con la Parola” (cella, liturgia, colloqui) creano il contesto ermeneutico che genera la lettura monastica delle Scritture.
La sinassi comunitaria (incontro per la lettura della Bibbia e la celebrazione dell’Eucarestia), era convocata ogni sabato, al pomeriggio, in modo che i singoli monaci avessero il tempo di raggiungere a piedi la chiesa dalle loro celle, a volte molto distanti.
Nel corso di tale sinassi si recitavano dodici salmi (intercalati da preghiere) e si proclamavano alcune letture bibliche dall’AT e dal NT. La domenica mattina probabilmente si celebrava una seconda sinassi dallo schema simile. Talora vi era anche una riunione nella quale si trattavano temi di interesse comune o questioni legate all’interpretazione delle Scritture, si prendevano decisioni o si ascoltava un padre dare istruzioni.
Si viveva certamente una viva continuità tra le sinassi comunitarie, in cui veniva proclamata la Parola di Dio, si celebrava l’eucaristia e si compiva l’agape fraterna, e gli uffici liturgici che da soli o in piccoli gruppi i monaci celebravano nelle loro celle, durante la settimana. I padri infatti, a differenza di come si potrebbe supporre a causa del loro stile di vita, rifuggivano da un approccio puramente individualistico alla Scrittura. È importante sottolineare che pur nella loro scelta di solitudine e nel loro amore al silenzio i padri mantenevano sempre presente l’importanza e la necessità della dimensione comunitaria – “ecclesiale” – ed era sotto vincolo di ubbidienza che i discepoli dovevano lasciare al sabato le loro celle per prendere parte alla sinassi comunitaria che restava l’incontro più importante.
Abba Poemen disse: «Sta scritto: Come la cerva anela alle fonti delle acque, così la mia anima anela a te, o Dio (Sal 41 [42],2). Quando i cervi nel deserto inghiottono molti rettili e il veleno li brucia, desiderano venire alle acque e bevendo trovano sollievo dal veleno dei rettili. Così anche i monaci che dimorano nel deserto sono bruciati dal veleno dei demoni malvagi e desiderano giungere al sabato e alla domenica per venire alle fonti delle acque, cioè al corpo e al sangue del Signore, ed essere così purificati dall’amarezza del Maligno».
Ruminazione
“Luogo d’incontro con Dio” ordinario ma indispensabile nella vita del monaco è la “kellíon” (cella), quel luogo che, da lui custodito con cura, contribuisce a sua volta a custodirlo, a generare e nutrire la sua vita spirituale e il suo desiderio di Dio. La cella è presentata nei “Detti dei padri” come la culla e il grembo di incubazione della parola di Dio generata dallo Spirito nel cuore del monaco: «“Va’ nella tua cella, e la cella ti insegnerà ogni cosa” ripetono gli anziani, facendo eco alle parole di Gesù in Gv 14,26: “Lo Spirito Santo vi insegnerà ogni cosa”».
Nella meditazione quotidiana della Scrittura si fa spazio a Dio di modo che, lentamente, la sua Parola possa trovare dimora nell’anima, perché ammorbidisca il cuore duro che naturalmente si apre a “temere il Signore”. In tal senso viene usata talora la metafora della ruminazione come, ad esempio, in un detto anonimo:
Fu chiesto a un anziano: «È bene attingere alle divine Scritture?» Ed egli rispose:«La pecora riceve dal pastore erba buona da mangiare, ma mangia anche ciò che trova nel deserto. Quando dunque sente il bruciore prodotto dai cardi del deserto, rumina l’erba: la sua bocca si raddolcisce e il succo acido dei cardi non si fa più sentire. Così anche per l’uomo, buona cosa è la meditazione delle Scritture contro le insidie dei demoni».
Sant’Antonio, il padre del monachesimo, domandava ai discepoli che venivano per mettersi alla sua scuola di pregare con assiduità, di recitare i salmi prima di addormentarsi e, dopo il risveglio, di ruminare nel loro spirito i comandi della Scrittura e di custodire il ricordo degli esempi dei santi in modo che, venendo l’anima stimolata dai precetti divini, essi potessero imitare il loro zelo.
Durante la “meditazione” era essenziale poi la partecipazione attiva della mente: «Se la mente non salmeggia assieme al corpo la fatica è vana», dice abba Elia, parole che sono un richiamo all’attenzione più che alla comprensione intellettuale: «mens concordet voci», dirà san Benedetto, ispirandosi probabilmente a questo testo.
Il confronto con gli anziani
Altro “luogo” di assimilazione ma anche di ermeneutica delle Scritture è il colloquio dei monaci con i loro “abba” o “anziani” (ghérontes). Con la parola “anziano” ci si riferisce non all’età biologica, ma alla maturità spirituale di una persona, che ormai, grazie alle sue lotte, agli sforzi di purificazione del cuore compiuti attraverso la continua assimilazione della Scrittura, è arrivata a essere totalmente penetrata dal suo spirito e può trasmetterlo ad altri. Il contatto e la familiarità con questi padri spirituali, come eco e riflesso della Parola, sono ritenuti decisivi nel cammino di assimilazione della Parola, non solo perché essa è sempre un evento ecclesiale e mai individuale, ma anche perché è parola viva, che continua a incarnarsi, come già si è incarnata nella storia della salvezza testimoniata dalla Scrittura.
Nel colloquio tra il padre ed il discepolo avviene la trasmissione della Parola di Dio che, dallo stesso padre, è stata interiorizzata e vissuta; ciò consente al discepolo di attingere sempre nuova ricchezza dalle Scritture, che rimangono sempre il canone di riferimento. L’esperienza del padre, che traspare dal detto, testimonia al discepolo che, realmente, attraverso la meditazione e l’interiorizzazione della parola di Dio, si sostanzia un rapporto con Dio personale, dinamico, vivo.
Quasi mai però la risposta dell’anziano si concretizza in un’esegesi discorsiva della Scrittura: anche quando avviene, quest’esegesi è appena accennata (per esempio l’anziano può offrire al discepolo la chiave allegorica per comprendere una parola o un episodio della Bibbia, o può accostarvi un altro brano biblico).
Durante i lavori manuali, generalmente lavori umili, come intessere corde, ceste, stuoie ecc. si praticavano la salmodia e la “meditazione” della Scrittura (melete). In un detto si afferma che unire la meditazione delle scritture e la salmodia al lavoro, costituisce le fondamenta dell’edificio spirituale, cioè della vita del monaco, e che «se egli cade in tentazione, è solo appoggiandosi su queste basi che può sperare di rialzarsi». Su questa esperienza si fonderà il motto/ regola di san Benedetto “Ora et labora”.
Il ruolo della memoria
Un elemento basilare della preghiera, della vita e della dottrina dei padri del deserto, anche per la difficoltà di reperire testi scritti e di disporne personalmente, è costituito dalla memorizzazione di molti brani della Scrittura. Il grande Macario così si congedava dal monaco che era negligente e si era lasciato tentare dal demonio: raccomandandogli digiuno, ascesi e: «…impara a memoria brani dell’Evangelo e delle altre Scritture».
Nella Vita di Antonio si legge che prescriveva a tutti i monaci che si recavano da lui di imparare a memoria «i precetti delle Sacre Scritture». Nella Regola di Pacomio è prescritto l’intero Nuovo Testamento e il salterio come quantità minima necessaria da imparare a memoria. Gli analfabeti venivano «molto diligentemente» istruiti, se nolenti costretti a imparare a leggere, per poter accostare personalmente il testo sacro.
La conoscenza mnemonica della Bibbia, ancorché prescritta dall’anziano al discepolo, e quindi posta in essere per ubbidienza, non era certo considerata mera “abilità” del monaco; infatti, anche se ne richiedeva certamente lo sforzo della memoria, era tenuta in considerazione come “dono di Dio”, (dono che poteva essere anche ritirato). “Ruminare” la sacra Scrittura era metodo perché questa si imprimesse bene nella memoria e significava sia scandire il tempo come cosa sacra che assicurarsi l’incessante memoria di Dio.
Questa costante memoria della Scrittura, unitamente alla pratica incessante della “preghiera del nome”: «Signore nostro Gesù Cristo, abbi pietà di me!» consentiva di vivere lo stato di “esychia” che più tardi Teofane il Recluso (1815-1894) così avrebbe fissato nel corso dei secoli nella storia della spiritualità: «La cosa principale è stare di fronte a Dio con la mente nel cuore, e continuare a restare di fronte a Lui incessantemente, notte e giorno, fino al termine della vita». La medesima pratica è insegnata, con riferimento al Vangelo, dalla beata Sarra.
Una volta alla beata Sarra fu domandato: «“Qual è la via stretta e angusta?”. Lei rispose: “La via stretta e angusta è praticare l’esychia e il silenzio, digiunare, vegliare, dedicandosi alla lettura della santa Scrittura e facendo tantissimi inchini fino allo stremo di tutte le forze. La via stretta e angusta è rimanere nella cella lasciandola solo per andare in Chiesa, rinunciare alla propria volontà per Dio, perché proprio questo diceva l’apostolo rivolgendosi al Signore: “Noi abbiamo lasciato tutte le nostre cose e ti abbiamo seguito”».
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