La pandemia ha aperto, specialmente nelle società occidentali, un periodo di ripensamento volto a rinnovare i sistemi sociali, politici, economici e istituzionali che si sono ritrovati impreparati nella gestione del virus. Dall’Europa al Mezzogiorno, dal contributo dei credenti alla politica all’analisi della storia recente, gli effetti della crisi in corso potranno superarsi soltanto tramite un approccio olistico. Di questi temi discutiamo con Calogero Mannino. Già deputato all’Assemblea Regionale Siciliana e alla Camera, diverse volte Ministro della repubblica, Mannino è una delle personalità più significative della politica siciliana e italiana durante gli ultimi decenni della prima repubblica.
– Nel suo recente intervento alla Sorbona, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha richiamato l’importanza del riferimento alla visione del mondo proposta dall’Europa capace di declinare tanto la libertà quanto la giustizia. Tuttavia, il progetto dei padri fondatori non si è ancora pienamente realizzato. Le questioni connesse alle migrazioni, al debito condiviso, alla politica estera, ai diritti umani e alle spinte nazionaliste rischiano d’infrangere il sogno europeo. A suo parere, cosa manca all’Unione Europea per realizzare la visione a cui si richiama Mattarella?
Man mano che si ascende la montagna l’orizzonte si allarga. L’Unione Europea è partita come Comunità del carbone e dell’acciaio, è divenuto Mercato Europeo Comune ed oggi è quell’imponente realtà che mette insieme alcune politiche, molto importanti, addirittura una moneta unica, l’Euro la seconda moneta di riferimento sul mercato globale. Nel tempo, ed in atto particolarmente, si sono presentate questioni urgenti a volte drammatiche. La pandemia e l’impetuoso flusso immigratorio. Le risposte date possono considerarsi incomplete ed insoddisfacenti. Ma nel caso del Covid bisogna riconoscere che se non fosse intervenuta l’Unione Europea non avremmo neppure potuto affrontare il problema delle vaccinazioni, dell’approvvigionamento del vaccino, tutto prodotto in altri continenti, particolarmente negli USA. La questione delle immigrazioni, invece, è destinata a segnare moltissimo non soltanto il presente ma anche l’immediato futuro dell’Europa. Faccio un esempio: qualche tempo fa è stato assegnato al Premier dell’Etiopia il Nobel per la Pace, per la conclusione di una guerra ultratrentennale con l’Eritrea. A smentita di questa visione di pace negli ultimi mesi si è infuocata una situazione interna all’Etiopia ed ai confini con l’Eritrea, il Tigray. Ancora una volta la repressione armata, la rivolta armata, l’esodo drammatico di centinaia di migliaia di persone che si sono spostate prevalentemente in Sudan. La spinta all’ulteriore fuga è già registrata in Libia con l’arrivo di migliaia di profughi. Quindi c’è la premessa di una spinta molto forte in direzione Lampedusa-Sicilia. Il problema è complesso e in questi giorni c’è chi chiede un’iniziativa più diretta nel governo dei flussi in testa all’UE. Significa soltanto una garanzia agli sbarchi o anche alla ripartizione degli immigrati? Tutto è incerto come lo è stato in questi anni.
– La pandemia ha rivelato e, al contempo, confermato i limiti del sistema italiano. Dall’istruzione alla sanità, dal regionalismo alla politica partitica, il nostro Paese si è ritrovato nel giro di qualche settimana ferito tanto dal virus quanto dagli atavici ritardi accumulati nei decenni precedenti. Il governo guidato da Mario Draghi pare aver messo d’accordo quasi tutti per guidare la nazione in questa fase di transizione. Secondo lei è la scelta giusta?
In questi anni i poteri delle Regioni sono stati accresciuti e rafforzati. Per esempio nella materia sanitaria hanno raggiunto un livello così alto da porre il problema delle regole di coordinamento con lo Stato. Salvo che nell’ultimo periodo, quello del governo Draghi, abbiamo assistito in televisione ai conflitti tra alcune Regioni ed il Ministro per la Sanità. Le sparate di De Luca sono state a lungo un repertorio felice per il comico Crozza. E di pari passo il problema della scuola ha mostrato tutta la propria urgenza. Sanità e scuola sono i due banchi di prova che porranno le loro perentorie istanze a partire dalla fine dell’estate. Ma sono anche due questioni strutturali. A colpi di “riformette” negli ultimi trent’anni la scuola ha perduto la sua fisionomia identitaria. La caratterizzazione tecnico-scientifica non può prescindere dal carattere nazionale definito dalla storia multisecolare che ci riporta alle radici della classicità. Cosa facciamo, una scuola di avviamento professionale? Oppure una scuola che prepari le persone ad affrontare compiti e professioni di natura scientifico-tecnologica accanto alle professioni tradizionali, ma tutte sulla base di un impianto umanistico irrinunciabile per i caratteri della nostra storia nazionale ed europea
– Se l’Italia soffre per via della pandemia, una parte di questa – il Mezzogiorno – risente ancor di più della crisi sanitaria, economica e sociale in atto. Da don Luigi Sturzo e Piersanti Mattarella, il Sud Italia ha espresso grandi personalità in grado di tematizzare il bisogno della nostra comunità nazionale di un progetto politico per il meridione. Al di là di qualche convegno, la questione meridionale pare scomparsa dall’agenda effettiva della politica italiana. È così? Perché?
Con la crisi del 1992 tutte le risorse e le energie sono state concentrate al sostegno alle strutture economiche ed industriali del Nord. Basti ricordare che dal Sud d’Italia sono stati risucchiati gli Istituti Bancari come il Banco di Napoli, quello di Sicilia, la Cassa di Risparmio Sicilia e quella della Puglia. Ne hanno beneficiato Banca Intesa e Unicredit. L’intervento straordinario con la soppressione della Cassa interrotto, e mai in questi trent’anni gli investimenti pubblici, soprattutto quell’infrastrutturale hanno avuto riguardo per il territorio del Sud. Quel che è grave che con la soppressione della Cassa è stato disperso un management di alto profilo professionale, del quale molti nomi ritroviamo ancora oggi nella gestione di strutture private e pubbliche. Però la conseguenza è presto detta: non mancano gli investimenti, ma mancano i progetti. Come dimostra il caso eclatante dell’attuale Recovery plan.
– L’elezione di Papa Francesco ha generato una sorta di effetto prima di sorpresa e di simpatia e poi di critica e di opposizione in particolar modo da parte di alcuni settori della Chiesa definiti “tradizionalisti”. Il magistero di Bergoglio, profondamente radicato nella teologia del popolo latinoamericana, ha spostato l’asse della Chiesa dalla difesa dei cosiddetti “valori non negoziabili” all’invito rivolto alle comunità credenti a fare “profezia nella storia”. Specie sui temi connessi all’insegnamento sociale, quale pensiero ha maturato in merito all’attuale pontificato?
Appartengo ad una generazione che ha conosciuto (preferisco dire) i Papi che si sono succeduti nella Chiesa Cattolica da Pio XII a Francesco. Tutti grandissimi Pontefici. Alcuni hanno alcuni raggiunto la santità che è stata proclamata. Appartengo ad una generazione di uomini che ha fatto l’esperienza della fedeltà alla Chiesa e quindi non ha mai letto un pontificato contrapposto ad un altro. In questi anni, che segnano una stagione assai complessa e difficile dell’intera umanità, lo Spirito Santo ha affidato le chiavi di Pietro a Papa Francesco. È fin troppo ovvio che misurandosi non più soltanto con la secolarizzazione ma con la scristianizzazione programmata e consequenziale al dominio nichilista che ha anche messo da parte il relativismo, che sembrava già frutto diabolico, la Chiesa vede tutti i suoi problemi esaltati. Il Covid ci ha privato pure della partecipazione alla Santa Messa ed all’Eucarestia. L’immagine è quella dolorosa di Papa Francesco che attraversa “solo” piazza San Pietro recando in mano la Croce. È l’immagine di una realtà dalla quale con il passo possibile la Chiesa si dovrà riscattare. Reggere il timone della barca di Pietro è assai complesso e superiore ad ogni forza semplicemente umana. Papa Francesco con la sua forza mistica tiene la rotta che forse in quest’epoca può essere soltanto di resilienza. La storia ci insegna che vi sono state fasi nella quali il cattolicesimo e la fede religiosa si sono totalmente oscurate, poi, invece, da piccola favilla gran fiamma seconda, una rinascita straordinaria, ha realizzato fasi di intensa ripresa della fede religiosa. La stessa Controriforma rispetto alla Riforma, sconvolgente non soltanto per Calvino e Lutero, ma per il profondo mutamento dell’equilibrio politico e militare dell’Europa. Se crediamo che la Chiesa sia di nostro Signore dobbiamo sperare che non venga dispersa. Ma la sua immagine non è quella della Chiesa trionfante. Questa è la prima fondamentale profezia che si affida ad un arma indispensabile: la preghiera.
– Negli anni Novanta, Giuseppe Dossetti ha sostenuto che dopo cinquant’anni di gestione del potere i cristiani in politica non avrebbero più avuto la rilevanza ottenuta con la Democrazia Cristiana. Rispetto ai primi anni della storia repubblicana, la società italiana è profondamente mutata come lo è anche la presenza dei credenti nelle città, in politica, nel mondo della cultura e del lavoro. Come ripensare la relazione fra cattolici e politica nell’Italia odierna?
Dobbiamo ricostruire i ricordi con certa precisione. Dossetti abbandonò “la stanga” alla quale era stato chiamato da De Gasperi. Accettò, dopo, e parve contraddittorio, di candidarsi a Sindaco di Bologna in contrapposizione al comunista Dozza. Bologna come la Regione Emilia Romagna salvo episodi limitati è stata sempre soltanto rossa cioè comunista. Dossetti convinto che il Comunismo, addirittura quello di Stalin, avrebbe vinto la sfida della storia si ritirò in convento, vivendo una profonda esperienza di fede, che si manifestò esemplare. Ritornò ad esprimere opinioni ed avvisi politici, ma intanto il Comunismo era stato travolto con il muro di Berlino e quindi la fine dell’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche. Ma sorprendentemente nel 1992 per circostanze e fattori che andranno compiutamente ricostruiti, la Democrazia Cristiana come partito si sciolse, per non dire fu sciolto. Proprio mentre la Storia segnava la definitiva sconfitta del comunismo. Una parte di DC si trasfuse in altra formazione che al termine e poi confluì nel partito, oggi, denominato Democratico, cioè nel partito degli ex- o postcomunisti, che ha attraversato diverse fasi definite in termini vegetali: quercia, ulivo. Quindi vi sono ex-democristiani o post-democristiani impegnati nel PD anzi in posizioni anche di governo di alta responsabilità ed evidenza politica ed istituzionale. Questa è stata una scelta. Vi è stata una silenziosa diaspora dei cattolici. Altre posizioni, comprese quelle di formazioni minori e peraltro in contrasto, non hanno superato la soglia del mero richiamo nostalgico al simbolo dello scudo crociato. Certamente sul piano di principio rimane fermo il dovere dei credenti di impegnarsi nel sociale e nel politico. Ma non mi pare esistano più le condizioni per una ripresa di esperienze che con il Partito Popolare di Sturzo e con la Democrazia Cristiana di De Gasperi e Moro abbiano ragioni concrete di discendenza per coerenza di ideali e di posizioni politiche. Del resto il pluralismo definito dal Vaticano II rende possibile questo ed in qualche modo inevitabile.
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