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L’identità di genere è innata o è una costruzione? Il complesso equilibrio tra natura e cultura

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La visione costruttivista dell’identità di genere

I concetti di genere e identità di genere giocano un ruolo tanto importante quanto controverso nel ddl Zan: nell’articolo 1 il genere viene definito come qualunque manifestazione esteriore che sia conforme o meno al comportamento tipico del sesso di appartenenza, mentre l’identità di genere con «l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione».

Il ddl cerca di tradurre in legge gli aspetti teorici più importanti dei cosiddetti studi di genere (gender studies), un ambito di ricerca all’intersezione tra le scienze sociali e le scienze umane nato negli anni ’90 del XX secolo in università prevalentemente statunitensi ed europee. Gli studi di genere sono profondamente influenzati sia dal pensiero post-moderno sia da quello femminista. Uno degli aspetti più paradigmatici del pensiero post-moderno, emblematizzato da Foucault, Lyotard, Lacan, Deleuze e Guattari, è il considerare i valori e le strutture sociali come il prodotto di un contesto socio-culturale che determina relazioni di potere che bisogna de-costruire al fine di comprenderne l’origine e di mostrarne la relatività culturale. Coerentemente con ciò, una parte consistente del pensiero femminista argomenta che le differenze di genere uomo-donna non sono di origine biologica, bensì di natura linguistica e performativa (Butler) nonché di potere e sottomissione della donna verso l’uomo (MacKinnon, Haslanger).

Gli studi di genere considerano pertanto il genere e l’identità di genere come una costruzione sociale o prodotto culturale che si sviluppa nel corso del tempo insieme «al linguaggio, al pensiero, all’azione e al modo di percepire» (Jule 2014). L’appartenenza a un genere piuttosto che un altro non dipende, dunque, da una specifica conformazione biologica (genica, anatomica e fisiologica), bensì da una serie di atti performanti che sono codificati socialmente e che ci definiscono in quanto uomo o donna.

Nella visione post-moderna dell’identità di genere la materialità rappresentata dal corpo non sembra essere un elemento discriminante per l’identità della persona. Tuttavia, il corpo è sempre lì presente e rappresenta, anzi, l’elemento fondante di una qualsivoglia «transizione di genere»: non si può desiderare di passare da un sesso all’altro se non sussiste alla base un’ idea – più o meno chiara – di un corpo ben preciso nel quale effettuare la transizione. Un tale approccio all’identità di genere si trova pertanto di fronte una palese contraddizione: da un lato rifiuta il corpo e la sua organizzazione come fonte di normatività per il genere, dall’altro l’identità di genere, cis e trans, si definisce proprio in relazione al corpo maschile e femminile e deve ammetterlo come elemento legittimante del proprio discorso.

La problematicità delle teorie essenzialiste del genere

Sebbene la maggior parte degli studi di genere siano costruttivisti, alcune ricerche sostengono una visione essenzialista, secondo cui l’identità di genere è determinata da differenze genetiche tra uomo e donna (Lippert-Rasmussen 2010) oppure da basi biologiche storicamente e culturalmente invarianti (Haslam, Rotshild e Ernst 2000). Anche tale posizione non è immune da limiti teorici piuttosto rilevanti. Si potrebbe infatti porre a un essenzialista la seguente domanda: cosa s’intende per dato biologico e in che modo determina causalmente l’identità di genere? Un essenzialista si troverebbe probabilmente in imbarazzo nel cercare di spiegare – senza riuscirvi – il nesso causale tra i geni, oppure i caratteri primari sessuali primari e secondari, e la costruzione di un’identità personale coerente con essi. Inoltre, un essenzialista si troverà a disagio nel cercare di spiegare tutti quei casi in cui sussiste una reale dissonanza tra la materialità del corpo (nella sua anatomia e fisiologia) e la mancanza di identificazione al genere sessuale di tale corpo.

Photo by Yasin Yusuf on Unsplash

 L’identità di genere tra natura e cultura

Sembra dunque che il dibattito corrente sul genere e sull’identità di genere sia estremamente polarizzato tra posizioni costruttiviste che enfatizzano il ruolo del contesto socio-culturale e posizioni essenzialiste che sottolineano l’importanza del contesto biologico. Eppure, l’identità personale, della quale l’identità di genere è un aspetto, è il risultato di una base materiale (il corpo) che interagisce col proprio contesto socio-culturale in un periodo storico ben definito. È davvero possibile, dunque, rendere conto di tale identità scindendo l’aspetto biologico da quello culturale?

Una visione filosofica che spiega la cognizione e l’identità personale tenendo conto sia dell’aspetto biologico sia di quello culturale è rappresentato dalle teorie enattiviste che traggono la loro ispirazione da L’albero della conoscenza di Maturana e Varela. Nella visione enattivista i processi psichici sono caratterizzati dalle cosiddette 4E della cognizione: avvengono sempre in un corpo ben preciso (Embodied), sono integrati in una mutua relazione con l’ambiente esterno (Embedded), non risiedono semplicemente nelle connessioni neurali ma implicano una dimensione azionale in cui il corpo insieme alla mente compiono delle azioni (Enacted) e infine sono estesi all’ambiente in cui opera l’organismo (Extended).

La visione enattiva suggerisce una pista estremamente interessante per comprendere l’identità di genere (nonché l’identità personale): essa è il risultato di una complessa interazione tra aspetti biologici del corpo (per esempio una certa produzione ormonale o un certo tipo di conformazione anatomica), aspetti culturali (ad esempio l’educazione ricevuta, i valori familiari e quelli dello stato di appartenenza) e aspetti ambientali (per esempio un ambiente urbano o rurale o un ambiente inquinato o salubre). Il modo in cui queste tre dimensioni interagiscono tra di loro nella determinazione dell’identità di genere non è chiaro da un punto di vista scientifico. È probabile che questi tre livelli s’influenzino mutualmente nel corso della vita umana determinando una relazione dinamica che rende conto della complessità dell’identità di genere e dell’impossibilità della sua riduzione a una visione puramente costruttivista o essenzialista.

Implicazioni di una visione enattiva dell’identità di genere

Una visione siffatta dell’identità di genere ha delle importanti conseguenze non solo da un punto di vista filosofico, bensì sociale. Sul piano educativo si tratta di educare bambini e adolescenti a un pensiero complesso e critico circa l’identità personale e l’identità di genere. L’identità è ancorata a un corpo (e dunque a un sesso anatomico) che si comporta e agisce secondo dei valori determinati dalla propria storia familiare e dalla cultura del proprio paese e che è influenzato dal contesto ambientale in cui opera. Sulla base di ciò è fondamentale educare, il che non significa istigare (come pensano a torto certi detrattori del ddl Zan), al fatto che, nel processo di crescita, la maggior parte degli esseri umani sviluppa un’identità di genere cis dove il sesso corrisponde al genere; nondimeno, una parte minoritaria della popolazione può sviluppare una disforia di genere che può determinare un’identità di genere trans. Si tratta anche di educare al ruolo che hanno la nostra storia familiare, il contesto sociale e quello ambientale nel determinare la nostra identità di genere. Educare al rispetto verso le identità trans implica un’educazione profonda e capillare alla complessità della relazione tra corpo, cultura e ambiente nel processo di sviluppo.

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