Fin dal titolo, questo libro rivela il taglio che lo caratterizza e lo rende originale. Il gioco di parole che trasforma il prevedibile “storia della mia vita” in “storia della mia vista” è da questo punto di vista significativo: perché proprio di un “vedere” l’autore parla, che non è quello degli occhi – Alessio Conti è dalla nascita non vedente –, ma di tutto il suo essere, «spirito, anima e corpo».
«Non si vede solo con gli occhi, ma ogni vita e tutta la vita (anche la condizione che si attraversa) può essere attinta in una tripolarità capace di assumere: il corpo –soma–, l’anima –psiche–, lo spirito –pneuma» (p. 95).
Anche il corpo conta. Siamo qui agli antipodi di una rinunzia alla fisicità, per reazione alla propria menomazione. Alessio Conti, al contrario, vuole sottolineare il paradossale “guadagno” che la mancata funzionalità di un senso, la vista, può comportare per gli altri sensi: «Chiudere gli occhi significa avviare un impossibile, paradossale esodo: dalle abitudini, dalle certezze. Vuol dire scegliere consapevolmente il tatto e con lui il con-tatto. Può farvi da guida chi non ha scelto di nascere a occhi chiusi? La definizione appena accennata, ‘nascere a occhi chiusi’ non è però esaustiva: potrei dire nato a ‘narici spalancate; a pori aperti; a dita lunghe affusolate ed esploranti; avvezzo ad una pelle radar, a un corpo interamente senziente, curioso, in senso etimologico’. Un corpo che è cifra dell’umano, un corpo che indica, domanda chiede, sente e vive con tutto se stesso (…). Tutto il corpo proteso nella ricerca, tutto il corpo è, almeno in quel momento, quella ricerca.» (p.164).
Grazie a questo coinvolgimento di tutti i sensi, chiamati a supplire alla mancanza della vista, anche il mondo percepito cambia significato: «Per un bimbo cieco il confine non indica tanto una fine, il limite di uno spazio, quanto una soglia porosa e valicabile che, lambita dalle dita, intuita nei rumori, annusata negli odori provenienti da lontano, fa presentire e per così dire gustare l’altrove». (pp.160-161).
In un certo senso, il non poter contare sugli occhi consente una nuova esperienza della realtà: «Queste sensazioni sfuggono a occhi aperti: la vista domina, classifica, categorizza, ordina tenendo a debita distanza» (p.163).
Tutto ciò diventa esperienza anche psicologica: «Sensazioni poliformi si inoltrano in te, si iscrivono in te e ti costituiscono, ti plasmano, ti rendono meno straniero il mondo che, però, resta mistero e domanda, questione aperta, non riducibile ad alchimie chimiche o neuronali» (p.167).
Soprattutto, però, esperienza a livello spirituale. Che non è mai separabile dagli altri due livelli, fisico e psicologico, ma si fonde intimamente con essi.
Esperienza della bellezza: «Non vedo nulla, non vedo una guglia, eppure entrando in Sistina sono grato per chi può farlo e prego affinché l’arte, Bibbia dei e per i poveri, cioè per tutti noi, parli di quella bellezza che avvicina al mistero (…). Beati, quindi, coloro che crederanno al messaggio della Sistina pur senza averla vista, senza incasellare ogni cosa in sciocche scale di valori» (pp.83-84).
Esperienza religiosa. È quest’ultima ad avere un posto fondamentale nel libro di Conti sulla storia della sua vista. Gli occhi dello spirito vedono cose che quelli del corpo non possono cogliere.
C’è uno sguardo dell’anima che permette di capire la propria vera identità e accettarla, con i limiti che essa implica: «Se pensiamo con gli occhi del cuore a quel Dio che ci ha liberati dal nostro Egitto, affinché restassimo liberi, ciascuno non può che ammettere la propria miseria, scoprendo poi con Pascal che in lei risiede la sua grandezza. Lo dice il Vangelo, la vita, talora, lo conferma» (p.26).
In quest’ottica, si prende atto senza angoscia delle strutturali povertà che caratterizzano l’esistenza umana. Commentando l’episodio evangelico delle nozze di Cana, Conti scrive: «Nonostante l’abbondanza anche nei nostri banchetti, proprio come in quelli del Vangelo, manca sempre qualcosa. Proprio quando ci pare di possedere, il nostro avere è intriso di nostalgia e di assenza» (p.35).
Soprattutto ci si apre alla trascendenza, superando un secolarismo che ci sta disabituando a guardare oltre noi stessi: «Paradossalmente in nome di una finta apertura, ci si fa banditori di un pensiero refrattario a qualsiasi cosa lo sorpassi, e le cose che lo sorpassano non sono poche non solo per numero, ma, soprattutto, per importanza» (p.29). «Sì, perché ex-sistere, significa proprio uscire fuori da sé. Solo questa ragione può dirsi autenticamente libera: dirsi libera da sé stessa, libera dalla tentazione, sempre risorgente, di bastarsi» (p30).
Non è solo un problema conoscitivo. La tentazione più grande è di quella di restare prigionieri di se stessi: «Ogni idolatria ci lascia avvinti a noi stessi, prigionieri di noi stessi. Ci libereremo solo se avremo l’umiltà di percepirci come liberati non da coazioni esterne, né da costrizioni interne, ma, paradossalmente, da noi stessi» (p.57).
Si può parlare di orgoglio, ma solo se si è consapevoli che esso è solo l’altra faccia di una sottile disperazione che ci porta a fuggire da noi stessi, cercando il riconoscimento degli altri, per paura di vederci come siamo: «Io amo il me stesso proiettato negli altri, mentre non ho stima del me reale e, proprio questa poca stima, mi porta a cercare l’approvazione altrui, rendendola costitutiva del mio stesso essere» (p.57).
«Uscir fuori da sé». Da qui una ricerca inesauribile, che però non dà disperazione: «Così la ricerca smette di essere rovello, affanno, lotta titanica. Così la ricerca si fonde con l’esperienza dell’essere profondamente uomini e donne di pace perché pacificati. Così si cerca, sapendo che un giorno si sarà trovati» (p.32).
L’autore sottolinea che questa tensione, col suo travaglio, non è vanificata dalla fede: «La fede non è un porto sicuro, un possesso quieto, immune dai dubbi e dalle lacerazioni della vita: è una battaglia “Ho combattuto la buona battaglia” esclama Paolo al termine della sua esistenza, aggiungendo «ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede» (p.13).
La fede non è una fuga dal mondo: «Chi crede avrà già qui cento volte tanto, qui, non in una felicità differita a un paradiso lontano e ideale, in cui ogni antinomia si risolve nella visione, qui, avrà cento volte tanto» (p. 74). «Avrà uno sguardo nuovo, perché interiormente rinnovato, su: cose, persone, relazioni, avrà quella pace del cuore che ti rende saldo nell’essere e, quindi, capace di dare e di darti, avrà una nuova scala di priorità non più proveniente solo dall’esterno» (p.74). Ancora una volta torna il riferimento alla vista dell’anima: «Guardare al cielo significa non abbandonare la Terra, ma vederla con occhi rinnovati, udire con gratitudine anche il flebile cinguettio dell’uccellino che canta su un pino secolare appena fuori della mia finestra» (p. 76).
Ma la fede non è una conquista: è un dono, come lo è la salvezza. A volte anche i credenti, con il loro attivismo, sembrano dimenticarlo: «Dono gratuito e non meritato dello Spirito, la salvezza va invece accolta: in questo fare spazio risiede la nostra opera» (p. 65).
Quello che conta, allora, non è ciò che noi possiamo dare, ma l’amore che riceviamo da Colui che solo ci conosce: «La sfida di essere perché si è amati, la sfida del Cogitor ergo sum, sono pensato, sono amato, e, quindi, esisto. Basta una lettera, una piccola r dopo la o, a far vacillare il sistema geometricamente cartesiano, da cui discende un Dio forse necessario, ma freddo: quello dei filosofi. Una r che, volgendo il pensiero al passivo, lo rende attento non a ciò che produce, ma a quello che riceve» (p.28).
Perciò, nel suo commento all’Adoro te devote, l’autore sottolinea il ruolo decisivo di quella che sembra una passività dell’essere umano: «L’inno si apre con una ‘disfatta’ dei sensi naturali, travolti, involti nella vertigine del senso fatto pane, di un Dio che, restando perduto e nascosto, pur balugina rivelandosi realmente nelle specie eucaristiche (…). Visus, tactus, gustus in te fallitur, Sed auditu solo tuto creditur» (p.70). (Significativa l’eccezione dell’udito, così corrispondente all’esperienza dell’autore: «La vista, il tatto, il gusto, in Te si ingannano, Ma solo con l’udito si crede con sicurezza: Credo tutto ciò che disse il Figlio di Dio, Nulla è più vero di questa parola di verità»)
Ma anche quella degli altri sensi è una passività solo apparente: «La forza scaturisce dove tutto tace, dove tutto sembra immoto e immobile, ma a muoversi sono le energie più recondite e profonde». (p. 69). E infatti «ciascun senso tornerà come se fosse trasfigurato e redento nel mistero: è, ad esempio, il caso del gusto che alla fine dell’inno riemerge nel dolce sapore della visione (…) Praesta meae menti de te vivere Et te illi semper dulce sapere (…). Tornerà anche una vista non più soggetta agli inganni (…) Iesu, quem velatum nunc aspicio, Oro fiat illud quod tam sitio; Ut te revelata cernens facie, Visu sim beatus tuae gloriae» (pp.70-71).
Non si può concludere questa recensione senza ricordare che Alessio Conti è un docente di Storia e filosofia nei licei. E nel suo libro si riflette l’esperienza della scuola: «Quanto deve essere frustrante, per un alunno, studiare senza capire: un’incomprensione che spesso non riguarda tanto le parole, i concetti, ma la finalità stessa, la spendibilità, anche teorica, di quello che si studia (…). Coltiva, invece, la mente uno studio che, dialogando con la vita, divenga vita» (pp.48-49).
Acutissima la sua analisi del ruolo della istituzione scolastica in una società che non soffre più il problema della scarsità di fonti, ma quello del loro eccesso: «In un coro di fonti la scuola deve inserire la sua voce per aiutare a capire quali stonino, quali veicolino contenuti faziosi o tendenziosi, come distinguere il buon grano dalla zizzania (…). Se la scuola si trincera nell’autosufficienza, come se fosse la tenutaria esclusiva del diritto-dovere di apprendere degli studenti, sarà destinata al fallimento e allo scacco, al più a un residuo di nozionismo, completamente avulso dalla vita» (p.49).
Anche sotto questo profilo, dunque, siamo davanti a un bel libro, scritto con passione e intelligenza a una persona che ha saputo vivere la sua condizione non come quella di un menomato, ma scoprendo in essa il senso più universale della stessa vita umana. E rimandano a questa scoperta le parole che egli lascia alla riflessione del lettore: «Puoi maledire tutti, a iniziare da te stesso, anche per un’intera vita: ma puoi anche benedire, dire bene. Non raccontandoti che tutto è bello, né illudendoti che sia facile, ma vivendo ogni circostanza alla stregua di un’opportunità e, soprattutto, evitando di farti schiacciare. Esistono un ”giogo dolce” e un “carico leggero” (Mt 11,30) che ciascuno deve portare con sé, il punto non è se, ma come farlo» (p.106).
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