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I Chiaroscuri – La pedofilia dei preti costringe la Chiesa a interrogarsi

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Un rapporto terrificante

Sono davvero terrificanti i dati del rapporto, pubblicato in questi giorni in Francia da una Commissione d’inchiesta indipendente, da cui risulta che, negli ultimi settant’anni (dal 1950 al 2020), almeno 216.000 minori – di cui l’80% di sesso maschile – sono stati vittime di pedofilia per mano di circa 3.200 preti o religiosi. Il numero delle persone che hanno subito abusi sale a 330.000 se vi si aggiungono coloro che li hanno ricevuti da laici operanti nelle istituzioni ecclesiastiche.

Alle 485 pagine del rapporto, commissionato dagli stessi vescovi francesi, hanno lavorato per due anni e mezzo 21 persone. Nel consegnarlo a mons. Eric de Moulins-Beaufort, presidente della Conferenza episcopale francese, il presidente della Commissione, Jean-Marc Sauvé (una personalità autorevole, già membro del Consiglio di Stato e della Corte di Giustizia Ue) ha detto: «Ora tocca alla Chiesa appropriarsene e riprendere la fiducia dei cristiani, ristabilendo anche l’alleanza compromessa con la nostra società». 

Da parte sua, mons. Eric de Moulins-Beaufort, ha espresso «vergogna» e «spavento» di fronte all’enormità del fenomeno; poi, rivolgendosi alle vittime, ha detto: «Il mio desiderio, oggi, è di chiedervi perdono, perdono ad ognuna ed ognuno di voi». Anche se non basta il pentimento e si pone adesso il problema di risarcire in qualche modo persone che hanno avuto la vita distrutta o gravemente compromessa da pastori della Chiesa, di cui essi e le loro famiglie si erano fidati. Infatti, come è scritto nel Rapporto e come del resto è intuibile, le conseguenze di queste squallide violenze su chi ne è stato vittima, «sono molto gravi. Circa il 60% degli uomini e delle donne che hanno subito abusi sessuali incontra grossi problemi nella loro vita sentimentale o sessuale».

Non sono in gioco i singoli, ma l’istituzione e il suo rapporto col Vangelo

Il problema però non è solo di chiedere perdono per gli errori e le colpe del passato. È in gioco il futuro. «Mi aspetto che ci confrontiamo con questo peso, per quanto oscuro possa essere, per poter poi prendere le misure necessarie», ha detto suor Véronique Margron, presidente della Conferenza dei religiosi.

La prima cosa da fare, in questa direzione, è di non ridurre il problema alla deviazione di un certo numero, per quanto grande, di singoli pervertiti. Già le dimensioni del fenomeno rendono poco plausibile la solita giustificazione secondo cui in ogni comunità ci sono delle “mele marce”, che basta individuare ed eliminare perché tutto torni a posto. Qui è il paniere nel suo insieme che è stato marcio e che deve essere profondamente rinnovato.

La Commissione parla di «silenzi» e di «mancanze» della Chiesa,  dinanzi agli atti di pedofilia perpetrati al suo interno, che non sono occasionali, ma presentano un carattere «sistemico». L’istituzione ecclesiastica ha mantenuto, almeno «fino all’inizio degli anni 2000, un’indifferenza profonda, ed anche crudele, nei confronti delle vittime».

Questa indifferenza non si può certamente ricondurre a una valutazione troppo permissiva dei peccati sessuali. Soprattutto negli anni che hanno preceduto il Concilio Vaticano II – ma, in certi ambienti, anche dopo, fino ad oggi – il sesso, nella pastorale ordinaria (anche se non nel magistero), è stato spesso guardato con ossessiva attenzione e identificato come l’espressione principale del disordine morale.

Una visione certamente unilaterale (basta leggere la Divina Commedia per sapere che i peccati di lussuria, nella tradizione cristiana, non sono affatto i più gravi), che nella fase post-conciliare si è giustamente cercato di ridimensionare.

Il punto è che la pedofilia non è tanto espressione di pura e semplice lussuria, quanto di un modo profondamente distorto di vivere la sessualità, che riduce l’altro a puro oggetto – come solo un bambino indifeso può essere – su cui esercitare il proprio dominio violento. Se c’era una espressione del “sesso” che avrebbe dovuto preoccupare i pastori era dunque proprio questa.

Anche perché si tratta di uno dei pochi casi in cui Gesù personalmente, secondo i vangeli, si è pronunziato, con estrema durezza: «Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare» (Mc 9,42).  

Che proprio questo peccato sia stato guardato con estrema, colpevole indulgenza, da parte di chi doveva custodire e interpretare fedelmente il messaggio cristiano – a fronte della severità mostrata verso l’universo della sessualità –, è un segno drammatico della distanza che in certi casi si crea tra il Vangelo e la Chiesa istituzionale.

I fattori dell’“indulgenza” verso i preti pedofili

All’origine di questa “indulgenza” stanno probabilmente diversi fattori. Uno è stato sicuramente il desiderio di insabbiare i problemi, per tutelare un’immagine dell’istituzione ecclesiastica che sarebbe stata incrinata se si fosse dato corso alle denunzie. Da qui la scelta sciagurata di limitarsi a trasferire il presbitero accusato di pedofilia a un altro incarico (magari di cappellano in un collegio religioso di bambini!). Logica che è agli antipodi non solo del Vangelo, ma anche semplicemente del buon senso.

Un altro è stato la sottovalutazione della violenza implicita negli atti di pedofilia e la tendenza a confonderla con un eccesso di affettuosità, che si poteva prevenire, per il futuro, con una semplice raccomandazione del vescovo al suo prete di essere più sobrio. Sarebbe bastata una maggiore conoscenza di Freud e dei suoi successori per rendersi conto dell’equivoco.

Un altro motivo (e questo rimane fortissimo anche oggi) è stato la scarsità di preti e la necessità di garantire la quantità chiudendo un occhio (ma in certi casi tutti e due) sulla qualità. In nome del servizio da rendere al popolo di Dio, si è dimenticato – e purtroppo ancora si dimentica – che è meglio un presbitero in meno che uno in più, ma corrotto e corruttore.

Dietro quest’ultima motivazione sta, peraltro, una visione clericale della Chiesa, che assolutizza la figura del prete caricandola di tutte le responsabilità – da quella di celebrare e amministrare i sacramenti, a quella economico-ammnistrativa, a quella organizzativa… -–e minimizzando il ruolo dei laici, che in moltissimi ambiti potrebbero benissimo sostituirlo. Solo che questa restituzione del presbitero alla sua reale, indispensabile e insostituibile funzione pastorale, ne diminuirebbe il potere, distribuendone l’esercizio a uomini e donne della comunità che opererebbero, pur sempre, sotto la supervisione ultima del parroco, ma con una loro relativa autonomia.

Da qui la resistenza, a più di cinquant’anni dal Concilio, del clericalismo e, connessa ad essa, la scarsa incisività nel discriminare, fin dal seminario, chi può svolgere il ministero presbiterale e chi no.

Il problema della pedofilia si rivela, così, non solo un dramma morale, ma anche una cartina di tornasole per i ritardi della Chiesa nel ripensare se stessa.

L’urgenza di una conversione radicale

Nell’immaginario collettivo il punto cruciale di questo ripensamento, di fronte al dramma della pedofilia, dovrebbe essere l’abolizione del celibato dei preti. Premesso che l’ipotesi di una simile riforma non pone alcuna difficoltà di principio – nelle Chiese cattoliche di rito greco ci sono presbiteri sposati –, rimane molto dubbio che essa costituisca una soluzione per il problema specifico della pedofilia. Come dimostra la grande diffusione delle molestie sessuali nei confronti di minori anche all’interno delle famiglie, il pedofilo non cerca semplicemente una soddisfazione sessuale e affettiva (che potrebbe trovare in una moglie), ma è una persona profondamente ferita – spesso proprio per aver subito a sua volta, da piccolo delle molestie –, che scarica su altri i suoi traumi.

Più che il matrimonio, ai preti servirebbe una nuova ottica spirituale ed ecclesiale. Giusto chiedere perdono per i peccati del passato, ma l’espiazione di una colpa, come insegna la dottrina cattolica, richiede un sincero pentimento che, a sua volta, implica la conversione. La Chiesa – non solo quella francese – deve forse smetterla di interrogarsi su come annunciare il Vangelo agli uomini e alle donne di oggi e chiedersi come deve cambiare lei, per viverlo più coerentemente.

A questo potrebbe servire il Sinodo che sta per aprirsi e che, nel corso di tre anni, coinvolgerà le Chiese di tutto il mondo – il primo anno a livello nazionale, il secondo anno a livello continentale, il terzio a livello mondiale. Senza dire che, per l’Italia, parte un Sinodo della Chiesa italiana che avrà un suo proprio sviluppo, con un biennio di ascolto, un anno di lettura sapienziale dei dati raccolti, uno, infine, proteso alla profezia.

“Sinodo” significa cammino fatto insieme. Già sarebbe un segno della conversione di cui si parlava la capacità della Chiesa di mettersi in ascolto delle voci che vengono dal suo interno, ma anche di quelle che dall’esterno la interpellano. Delle voci che, in una logica clericale, non c’è mai il tempo e la voglia di prendere in seria considerazione, anche perché sono “scomode”. Forse da questo ascolto potrà prendere le mosse anche il superamento della ferita profonda della pedofilia dei preti.

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