Dopo i primi entusiasmi, sull’onda della fumata bianca e delle inconsuete esternazioni del nuovo pontefice, cominciano da qualche tempo a manifestarsi e a crescere le perplessità. Capita sempre più spesso di incontrare persone – per lo più laici cattolici di provata fede, semplici sacerdoti o prelati – che, a quanti si felicitano con loro per la bella scelta fatta dallo Spirito Santo, rispondono con una smorfia di dubbio, affrettandosi a chiarire che anch’essi sono contenti, certo, ma che forse è meglio aspettare, che c’è il rischio di equivoci, che, insomma, l’entusiasmo collettivo che fin dal primo momento circonda il nuovo papa va preso con le pinze.
I motivi di queste riserve? I dubbiosi sono pronti a spiegarli. Uno è che l’enfasi sull’innovazione da parte di Francesco rischia di essere strumentalizzata dai nemici della Chiesa per far apparire sbagliato tutto quello che hanno detto e fatto i suoi predecessori, soprattutto il papa emerito, ancora in vita, e nei cui confronti questa esaltazione della figura del successore rischia di suonare offensiva. Sia chiaro, non è solo un problema di riguardo personale: è in gioco la continuità della tradizione, che qualche gesto forse un po’ troppo audace del nuovo pontefice rischia di mettere in dubbio; sono in gioco i “valori non negoziabili” – la difesa della vita biologica, la famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna, la libertà di educazione – , su cui tanto sia Benedetto XVI che la CEI hanno tanto insistito in questi anni, e di cui il nuovo pontefice non parla se non di passaggio, in mezzo a tanti altri temi come i poveri, la giustizia, lo sfruttamento del lavoro, l’ambiente, che anche prima erano menzionati, per carità, ma in precise occasioni ufficiali, senza troppa insistenza.
Eppure su certe cose – si aggiunge – prima o poi il papa dovrà pur pronunziarsi e, quando lo farà – si assicura – , ci sarà un contraccolpo terribile: tutti quelli che oggi lo osannano, gli si rivolteranno contro, gli entusiasmi si spegneranno, sarà finalmente chiaro che la sintonia tra un mondo secolarizzato come il nostro e la Chiesa può essere solo illusoria.
Qualcuno si spinge ancora più lontano e lascia trasparire senza troppa reticenza i propri malumori verso una linea giudicata in sostanza demagogica. La croce di vile metallo, le scarpe malandate, il rifiuto di vivere nell’appartamento papale, non sono in fondo puri gesti ad effetto, che in realtà non risolvono affatto il problema della povertà e vogliono solo strappare gli applausi delle folle?
Dicevamo che queste e altre critiche, sommesse ma ben distinguibili, vengono mosse a papa Francesco soprattutto negli ambienti cattolici. E in fondo è bene che ciò avvenga, perché significa che il cambiamento viene avvertito come reale e minaccioso. Il consenso universale sarebbe un brutto segno, perché dimostrerebbe che dietro l’apparenza niente in realtà sta mutando.
Quanto al merito di queste critiche, vale la pena di fare qualche considerazione. È vero, i gesti del nuovo pontefice spingono a un confronto col suo predecessore. Ma è stato così anche per Giovanni Paolo II nei confronti di Paolo VI e, prima ancora, di Giovanni XXIII nei confronti di Pio XII. Che in questo caso il predecessore sia vivente non comporta per il papa in carica l’obbligo di reprimere la propria personalità in ciò che ha di originale e di comunicativo.
È vero: quando Francesco parlerà di alcune tematiche etiche o teologiche, molti non potranno più essere d’accordo con lui. Il Vangelo non può non scandalizzare il mondo. Ma fino a ieri il mondo era scandalizzato anche e forse soprattutto da stili, situazioni, comportamenti della Chiesa che non erano affatto evangelici, e che facevano molto soffrire tanti cristiani autentici. Il grande merito di Francesco è di sforzarsi di dissolvere gli scandali del secondo tipo con gesti fortemente simbolici, che potranno essere accusati di demagogia solo da chi non si rende conto che i simboli sono fondamentali nella vita umana e di conseguenza anche nella percezione che si ha della Chiesa.
Quanto alla continuità della tradizione, il tema della giustizia e della povertà è molto più antico e radicato nella storia del cristianesimo, a partire dai padri della Chiesa, che non quelli della lotta contro l’aborto o le nozze gay. Se una rottura c’è stata, è avvenuta ad opera di quei cattolici che, assolutizzando la vita biologica o alcuni temi etici come “non negoziabili”, hanno dato l’impressione di considerare negoziabili gli altri, che invece erano anch’essi parte imprescindibile del patrimonio tradizionale.
E comunque la continuità profonda tra questo papa e il suo predecessore può essere negata solo da chi fa di Benedetto XVI un conservatore, dimenticando la sua coraggiosa lotta per portare alla luce, senza remore o ipocrisia, la piaga della pedofilia dei preti, oppure il rivoluzionario gesto delle sue dimissioni, sulla cui linea innovatrice si sta muovendo anche papa Francesco sovvertendo tante vecchie e superate abitudini.
Più ragionevoli potrebbero essere, se mai, le riserve di quanti attendono le scelte concrete che il nuovo papa dovrà fare riguardo al governo della Chiesa e alla gestione della Curia vaticana. Anche a questo livello i primi passi sono già significativi, con la scelta di otto cardinali, di vari continenti, che possano affiancarlo nella guida della cattolicità.
Ma forse la vera risposta va cercata ancora più a fondo, nello stesso stile partecipativo che Francesco ha fin dall’inizio instaurato col popolo di Dio nella sua totalità, dando ma anche chiedendo la benedizione, ponendosi in un rapporto di reciprocità con i fedeli, dando voce a chi non ne aveva mai avuto dentro la Chiesa. Forse la risposta che egli cerca non sta tanto in questa o quella soluzione giuridico-burocratica ai problemi della Curia, ma in questo stile che coinvolge l’opinione pubblica della Chiesa, il cui fondamento sta in quello che il Concilio ha chiamato il “sensus fidelium”, per cui tutti i cristiani sono chiamati, in qualche modo a formulare, insieme ai loro pastori, la linea dottrinale della comunità ecclesiale.
L’impressione è che Francesco stia cercando, più che di ristrutturare, di scavalcare le pesanti mediazioni costituite fino ad oggi dalle strutture di vertice della Chiesa, entrando in contatto più diretto con la gente. Se è così, la vera riforma dobbiamo farla anche noi insieme a lui, contribuendo al suo sforzo con la nostra preghiera, ma anche con la nostra attenzione vigile e con la nostra partecipazione attiva. Se sapremo assumercene la responsabilità, sarà questo – ed è tanto! – che rimarrà del nuovo pontificato, dopo i primi entusiasmi.
Giuseppe Savagnone
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