Recensione a “Il miracolo e il disincanto “ di Giuseppe Savagnone , edizioni dehoniane , Bologna,
2021, pp119.
Ripensare la provvidenza nella tensione tra l’insopprimibile caoticità del vivere e l’idea che un Dio, forse diversamente onnipotente, si prenda ancora cura della periclitante condizione umana, abitandola egli stesso, è l’affascinante itinerario che Giuseppe Savagnone propone ne “il Miracolo e il Disincanto” in cui si discute di provvidenza in modo nuovo, proprio mentre molti accadimenti, remoti e ancora in corso – si pensi alla pandemia – parrebbero negarla.
Una nuova onnipotenza divina appare necessaria essendo quella tradizionale ormai irrimediabilmente corrosa dal lento, ma costante, lavorio di due tarli: l’autonomia del mondo, affacciatasi nelle scienze naturali e propagatasi poi ad altre plaghe dell’esistere, e il pervasivo debordare del male, argomento principe, da Epicuro in poi, per proclamare l’inesistenza di Dio.
Anche per questo, quello che Savagnone propone è un itinerario nuovo tra letteratura, filosofia, teologia, irrorate tutte dalla rugiada della Sacra Scrittura, a iniziare dalla pagina di “le città invisibili” di Italo Calvino che rappresenta un vero
e proprio mutamento di paradigma rispetto alla questione provvidenza.
Caotica la città di Eudossia brulica di vita, ma guardando in filigrana l’ordito di un tappeto, ogni abitante poteva ritrovare oltre quel flusso dionisiaco, la forma di un ordine apollineo. Questo fino a quando non si affaccia il dubbio radicale: che il tappeto non serva a nulla e la vera mappa di Eudossia risieda proprio nel caos non ordinabile della vita, nelle strade brulicanti, nelle case disseminate senza ordine. Una certa idea di provvidenza ipostatizzante è la vittima sacrificale predestinata di quel dubbio che affacciatosi nella modernità dilaga nel secolo passato.
Si profila così all’orizzonte in vari settori, oltre che spesso inconsapevolmente in non poche esistenze, la categoria del disincanto. Disincanto che non coglie l’autore il quale, dopo aver fugacemente indagato il ruolo della provvidenza nella tradizione cristiana connettendolo alla questione dell’onnipotenza divina, ne ammette la crisi.
Derisa dal caso che ha sempre più importanza nelle scienze della natura, una certa idea di provvidenza parrebbe non avere più spazio. Per questo nel secolo passato non pochi teologi, a partire da Bonhoeffer, hanno creduto di potersene
sbarazzare.
Non serviva più il Dio tappabuchi, quello che magicamente faceva tornare tanto i conti della storia quanto quelli delle singole esistenze, specie mentre la notte del totalitarismo avvolgeva il mondo.
Eppure, in quel prisma caleidoscopico che è la Sacra Pagina, la provvidenza può fare discretamente capolino anche in altre forme: nella vicenda di un Dio deliberatamente svuotatosi, che abita l’umana fragilità scegliendo di divenire debole egli stesso. Non solo e non tanto sulla Croce, quanto nella nascita in una stalla vegliato dai pastori e nella vita nascosta. É questo Dio un tesoro celato nei secoli che l’apparato di una certa teodicea ha tacitato ad annunciare la sua liberante presenza nelle pagine di Savagnone con una rinnovata aderenza soprattutto ai testi paolini.
E’ il termine greco kènosis, letteralmente svuotamento, la chiave di questa rilettura che ripensa anche il concetto stesso di creazione. Si tratta di un apporto originale della rivelazione biblica sia rispetto alle religioni orientali, sia nei confronti dei sistemi della filosofia greca, compreso quello di Plotino solo apparentemente più prossimo al Dio di Gesù Cristo. Una creazione intesa non tanto in senso temporale, ma come mantenimento delle cose nel dono dell’essere.
Un mantenimento che è provvidenza, non fato né destino indifferente alle sorti dei mortali.
Ecco, oltre il disincanto, il miracolo che qualcosa sia e soprattutto quello che continui ad esistere.
Nonostante il male che, per Tommaso d’Aquino, rappresenta proprio la paradossale prova del
esistenza di Dio: proprio perché il male esiste e dilaga, Dio abita la storia in quanto il negativo non
ci sarebbe se non ci fosse l’ordine del bene di cui rappresenta una mera privazione.
Esiste la vista di cui la cecità è privazione: il male è sempre una mancanza, che, pur indebolendolo, non annulla
totalmente l’essere in cui si annida. D’altro canto proprio lo stupore per il miracolo dell’essere e la
gratitudine per il bene presente nella storia, ripropongono l’interrogativo sulla sua scaturigine e, quindi, sulla provvidenza.
In questa prospettiva proprio il male parla della contingenza del mondo, della sua incapacità di spiegarsi da sé, del suo continuo domandare perché qualcosa è? Perché il nulla non è? È Dio che fa fiorire dal nulla l’effimera bellezza del finito, lo ama e lo abbraccia, proprio come, riprendendo Tommaso, le pause di silenzio rendono più soave il canto.
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