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Recensione a “La figlia di Sion” di Joseph Ratzinger

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Photo by Levi Meir Clancy on Unsplash

Recensione a “La figlia di Sion”, edizione Jaca Book, 2016 

Nella figlia di un popolo esule ma comunque eletto, schiavo ma capace di alludere alla libertà dal peccato confluiscono attese e speranze, oltre che lo stupefacente annuncio di una nazione nuova, cementata non da sangue, né da volere di carne, o di uomo, ma da Dio stesso.

Decenni dopo aver scritto “Figlia di Sion, la devozione a Maria nella Chiesa” ascendendo al soglio di Pietro, Joseph Ratzinger si definirà “un umile lavoratore nella vigna del signore”. Ma questa sua caratteristica trapela già nelle tre conferenze, tenute a metà degli anni settanta del secolo passato, che questo prezioso libretto ripropone lasciando, come lo stesso autore scrive nella prefazione, volutamente inalterato lo stile libero e talora improvvisato proprio dell’esposizione orale.

Dal punto di vista contenutistico il volumetto si articola in due sezioni: nella prima viene ripercorsa la presenza della Vergine nelle Sacre Scritture con interessanti notazioni su quella nascosta propria dell’Antico Testamento; nella seconda ci si intrattiene sul ruolo della fede mariana nella tradizione ecclesiale. Lo stesso registro linguistico, lungi dall’assolvere un ruolo meramente formale, dischiude qui almeno due possibilità a un tempo inedite ed affascinanti: quella di entrare in una sorta di cantiere del pensiero in cui la visione prospettica aiuta a scorgere sia i principali dettagli, sia i lineamenti dell’insieme; e quella di accedere a una cristologia anche glottologicamente anti nestoriana.

Se il nestorianesimo, negando l’unione ipostatica, aveva reso Dio inaccessibile e lontano occorreva riavvicinarlo, mediante un senso mariologico autentico che riaffermasse anche, nella sua contiguità con l’uomo, il genuino contenuto cristologico. Un contenuto che rischiava di essere travolto dalle complesse discussioni su Maria nella teologia del secolo passato che avevano trovato una eco non irrilevante nello stesso Concilio Vaticano II, oltre che nell’opera, valutata criticamente dal nostro autore, dei teologi della così detta demitizzazione, primo fra tutti Rudolf Bultmann.

Secondo questa corrente, il genuino messaggio dei vangeli sarebbe stato avvolto in una sorta di involucro mitologico divenuto inutile per l’uomo moderno e non pochi elementi della fede mariana, ad iniziare dal parto verginale sarebbero segni di questa struttura arcaica. Le Sacre Scritture andrebbero quindi sottoposte a una complessiva opera di demitologizzazione, attribuendo alcune credenze unicamente alla scaturigine storica della loro redazione: Dio avrebbe parlato in quella peculiare forma per farsi comprendere da persone indotte, ma oggi questa modalità primitiva non sarebbe più opportuna, anzi, col suo essere avulsa dal comune sentire, renderebbe il credere una fatica ancora più ardua.

In una simile temperie culturale non era tanto necessario comporre l’ennesimo trattato di mariologia sistematica, quanto capire cosa vi fosse di talmente imperituro nella fede che la Chiesa rivolge alla Vergine, da riverberarsi sia nella sua vita, sia nella sua stessa tradizione. Per centrare un simile obiettivo sarebbero bastati, ad avviso di Ratzinger, dei lineamenti che semplicemente riportassero la devozione all’immacolata allo splendore della sua diafana ma inesauribile verità. Una verità che le comunità monofisite – termine da intendersi non tanto in senso storico, quanto in una modalità che ricomprenda anche le poliformi ripresentazioni di questa eresia – depotenziano naturalmente costruendo cristologie che negano sia la nascita sia la maternità.

Per questa via si affievolisce persino la fede nel dogma dell’Incarnazione, fulcro della stessa religione cristiana. Da tale indebolimento derivano logicamente sia l’impossibilità della Madonna a partecipare pienamente alla Passione del Figlio, sia quella, successiva dal punto di vista teologico ancor prima che da quello temporale, di condividerne la vittoria finale sulla morte.

Per preservare entrambe le opzioni citate occorre, anche tramite una sana mariologia, difendere la cristologia ortodossa: non già istituendo un’impossibile concorrenza tra il culto mariano e quello dedicato al Figlio di Dio – che sono essenzialmente diversi restando la Vergine pur sempre una creatura – ma aiutando per Mariam, a recuperare la stessa adorazione della seconda persona trinitaria. Anche da questo punto di vista la Madonna si rivela profondamente icona della Chiesa stessa, luna capace di riflettere una luce che origina nel suo Signore.

Al contrario la cristologia nestoriana che espunge da se la mariologia e, con lei, l’intera umanità rappresenta una tentazione sempre risorgente nella comunità credente dalla quale non sono esenti neppure certe propaggini dello stesso movimento liturgico fiorito nel secolo passato. Il progressivo distanziamento della speculazione Ratzingerjana da questa corrente va inquadrato proprio in una diversa accezione del Cristocentrismo. Un simile percorso è delineato brillantemente nelle conferenze raccolte in “figlia di Sion” che, mentre radicano la Vergine nell’Antico Testamento, non senza aver abbattuto alcuni stereotipi sulla concezione femminile nella Prima Alleanza, dischiudono prospettive nuove.

Si tratta da un lato di una peculiare maternità, tanto da includere la stessa verginità quale condizione fondamentale per il suo esercizio, dall’altro dello sradicamento della coppia benedetto non benedetto, in cui ciò che era maledetto, la condizione di sterilità, viene sublimato nella castità: del pensiero, della parola, dell’opera, non solo del corpo. Il fatto di non essere sposati, e quindi, nella mentalità semitica abbandonati a una prospettiva di maledizione viene elevato, nella scelta verginale, a una paradossale rinuncia, capace di divenire fecondità.

Dalla stessa radice della teologia del popolo di Dio che si compie nella nuova Maternità di Maria rampolla la certezza, progressivamente acquisita dalla Chiesa, che la vergine, in vista della sua particolare elezione, sia stata preservata da ogni peccato, consapevolezza che, non senza tensioni, diverrà dogma del Immacolata Concezione durante il pontificato di Pio IX.

Proprio perché esente dalla colpa la Madonna partecipa, restando creatura, quindi straordinariamente vicina all’essere di ciascuno di noi, tanto alla resurrezione del Figlio, quanto alla sua definitiva vittoria sulla morte. Da questa seconda consapevolezza sorge il Dogma dell’assunzione corporale della Vergine,proclamato durante il pontificato di Pio XII anche qui non senza frizioni, soprattutto con le Chiese cattoliche di rito orientale.

Queste considerazioni ci guidano alla scoperta della teologia della donna che, contrariamente a quanto affermato da un diffuso pregiudizio, non ha, fin dall’Antico Testamento, una funzione ancillare: al contrario si inserisce da protagonista nella diade che comprende l’eterno e il suo popolo, intervenendo in decisivi crinali della storia di Dio con gli uomini. L’unilateralismo di alcune letture teologiche circoscrive l’intero Antico Testamento nella lotta dei profeti, risoluti assertori dell’unicità di Dio contro l’idolatria, i cui “dei” erano raffigurati a un tempo come uomini e donne o assumevano le sembianze delle religioni della fecondità.

Dal punto di vista della prassi si combatte anche la rappresentazione della donna divina resa emblematica dalla prostituzione sacrale, assai diffusa in tutto il vicino oriente antico, oltre che in ambito greco e romano. In Israele, dal punto di vista cultuale, la sua posizione marginale sarebbe confermata anche dalla circostanza non irrilevante che la donna sedeva nel vestibolo del tempio, senza avere alcuna parte nelle cerimonie sacre. Stante questa subordinazione, il ruolo di Maria nel Nuovo Testamento e, successivamente, nella tradizione della Chiesa fino al Concilio di Efeso (431 d.C., che le assegnò il titolo di Madre di Dio) rappresentò unicamente l’importazione di modelli extra biblici, battezzando, per così dire, l’idea della fecondità.

E’ vero che la fede profetica rigetta il modello della divinità accoppiata, ma assegna alla donna un ruolo insostituibile emblematicamente rappresentato nel matrimonio, antonimo della prostituzione sacrale cui, in una sorta di lussuria a un tempo culturale e idolatra, alludevano le cerimonie dedicate alla fertilità. Idolatria che certo i profeti combatterono strenuamente: così se nel libro dei Proverbi il saggio raccomanda a Dio di preservare il figlio dalla “donna forestiera, dalla straniera che ha parole di lusinghe”, non mancano, esempi di altro tenore.

Si tratta soprattutto delle figure di donne salvatrici, capaci di riscattare a tal punto la maternità che lo stesso popolo eletto viene presentato nel suo rapporto con il Signore come: innamorata, madre, sposa. Giungiamo così a un punto centrale per la teologia della donna che significa allegoricamente ciò che il popolo eletto è: nelle storie di queste”eroine” confluiscono sia una rinnovata concezione di Israele, sia, soprattutto, un’inedita teologia dell’alleanza alla quale conferiscono un contenuto e uno spessore spirituale prima sconosciuti.

Dal precipuo apporto del femminile, costitutivamente caratterizzato dall’accoglienza e dall’ospitalità quest’ultima fuoriesce dall’ambito dei patti giuridici di vassallaggio tipici dell’oriente antico, in cui il grande re assegnava diritti e doveri ai sudditi, per divenire, grazie alla simbologia sponsale, un’alleanza d’amore.

Dio ha amato la fanciulla Israele intensamente e, se può adirarsi contro la donna della sua giovinezza per il suo adulterio, questa collera si rivolge contro lui stesso: l’amante è scosso fin nelle sue viscere e in questo turbamento è ultimamente fondata l’eterna irrevocabilità dell’alleanza. Anche alla luce degli sviluppi della teologia novecentesca, è interessante notare come il maschile situi il patto tra l’Altissimo e l’uomo in una sfera giuridica, di mera subordinazione tra chi concede e chi appare unicamente ricettivo. È il femminile a trasformarlo in alleanza sostituendo alla metaforica del diritto e del riconoscimento formale quella dell’umano: entrano così in gioco l’amore irrevocabilmente esclusivo, la delusione per i tradimenti, l’inconsistente vacuità della recriminazione e dell’ira che, ultimamente si rivolgono contro chi le prova.

Nel suo rapporto con l’onnipotente la donna Israele è al contempo vergine e madre, circostanza che rivela le radici veterotestamentarie del culto mariano, sconfiggendo l’ipotesi, antecedentemente adombrata, che questo fosse un’importazione di modelli esogeni rispetto a quello delle Sacre Scritture. Direttamente discendente dall’alleanza il matrimonio, su cui si basa l’intera storia umana, è la forma antropologica della relazione tra Dio e ciascun Israelita.

Sul piano teologico, il solo che ricomprenda totalmente la vicenda di ogni singolo, all’Altissimo non appartiene una dea, mero segno di fecondità, ma la figlia di Sion, la donna amata fin dai lontani anni della giovinezza. Nella feconda sterilità delle donne salvatrici – tra cui primeggia Giuditta – si esprimono così tanto il concetto di creazione quanto quello di elezione: non riconoscere questo aspetto significa impoverire la stessa rivelazione e precludersi quella prima porta regale che, fin dall’Antico Testamento dischiude preparandolo il mistero della Vergine. La supposta ancillarità del femminile nella prima alleanza non solo è priva di riscontri testuali che parrebbero piuttosto smentirla, ma fuorvia l’intera comprensione della figura di Maria, vero resto santo che diverrà la Madre di Dio.

Proprio questa teologia della donna e dell’amore sponsale ha reso possibile l’assunzione nel canone del Cantico dei Cantici che, nonostante appaia come una silloge di inni profani d’amore connotati da tinte fortemente erotiche, descrive in realtà il rapporto tra Dio e l’uomo tanto che le letture in cui tale relazione rappresenta le nozze di Cristo con la Chiesa non possono essere derubricate a mera allegoresi.

Soprattutto nella letteratura sapienziale cronologicamente successiva a quella profetica e, forse, teologicamente ancor più vicina a Cristo appare un’altra linea ermeneutica che allude alla centralità del femminile. Certo mutuata da modelli egiziani, la sapienza più volte impersonificata da una donna, non si spiega interamente nell’Antico Testamento, ma, al pari del mutamento dei concetti di alleanza, creazione ed elezione, riceve in Maria la sua chiarificazione definitiva.

Prima creatura di Dio la saggezza rappresenta sia la sua volontà intesa nel modo più puro, sia la più profonda risposta che l’Eterno trova. La stessa creazione si esprime in una radicale contiguità con Dio da cui promana, contrassegnata, ancora una volta dalla metaforica sponsale che porterà la Chiesa a riferire tipologicamente alla Vergine le letture dedicate alla sapienza. Come Maria, infatti, anche la saggezza è intermediaria tra Dio e la sua creazione e questa sua natura si esprime linguisticamente nel fatto che il termine che la designa è femminile, sia in Greco, sia in Ebraico. Se in Cristo la sapienza diviene “logos”, verbo ultimamente creatore, questo è possibile solo grazie al “avvenga di me secondo la tua parola”, detto dalla vergine: la sua risposta fa fruttificare in quella santa obbedienza che non è sottomissione, il germe riposto dall’altissimo.

Cancellare la mariologia dai testi sapienziali significa, in nome di un malinteso e unilaterale cristocentrismo, fraintendere totalmente il ruolo della donna nella mentalità biblica. Esplicitata, pur se brevemente, la mariologia latente nell’Antico testamento, possiamo ora accedere alle pericopi neo testamentarie chiedendoci anzitutto come si sia formato il Dogma di Maria Vergine e Madre.

Prima però occorre stabilire una capitale differenza tra un criterio meramente storico che individua l’originario in ciò che è semplicemente antichissimo e l’ermeneutica propriamente teologica capace di ripercorrere gli stadi principali della crescita di questa consapevolezza nella tradizione. Nella storia della chiesa le testimonianze dell’inizio sono vive, quindi suscettibili di sviluppo nel continuo approfondimento che dischiude dall’inesauribilità della Parola tesori sempre diversi.

In questa ottica ciò che è semplicemente più antico non ha sempre la priorità: in Paolo il problema della nascita di Gesù dal punto di vista teologico non riveste particolare importanza, essendo la sua fede sviluppata principalmente a partire dalla croce. Nella lettera ai Galati la notazione incidentale “è nato da donna” serve unicamente a sottolineare l’umanità di Cristo: il mistero del Natale fiorirà compiutamente nei racconti dell’infanzia, presenti nei primi due capitoli dei Vangeli di Luca e Matteo.

In questi scritti le genealogie non mostrano solo l’origine di Gesù ma rinviano alla sua natura: per il primo evangelista il Nazzareno rimanda a Davide; mentre nell’autore degli Atti degli Apostoli si risale fino ad Adamo indicando in tal modo l’universalità del Cristo, capace di ricomporre gli aneliti di ogni uomo a un tempo vagabondo in un’interminabile ricerca e scisso in se stesso tra legge e amore, volontà e intelletto, natura e grazia.

Gesù è certo frutto dell’albero genealogico ma la pianta può non essere sterile perché le sue radici non vengono solo dal basso: Cristo discende intimamente da Dio stesso. Uomo, naturalmente germinato dalla terra. Egli non trae origine solo da lei: e la rottura appare già nelle genealogie in Matteo con il verbo “è nato”, riferito alla Seconda Persona divina che interrompe la catena degli antecedenti “generò”; in Luca dalla notazione secondo cui il Nazzareno “era creduto figlio di Giuseppe” allusione al fatto che la sua reale paternità fosse nell’alto dei cieli.

Gesù si profila quindi come un nuovo inizio in cui la creazione ferita viene risanata e una tale nascita, preannunciata dal canto veterotestamentario di Anna, può avvenire solo dalla sterile divenuta Vergine. L’illibatezza di Maria implica anche un messaggio cristologico: opera divina fin dalla sua origine, il Bimbo sarà totalmente santo. Qui il Cristo si contrappone al Battista: non parliamo di un profeta, ma del Figlio di Dio.

Assumendo la natura umana Gesù rende la stessa carne centro del “logos”, in un continuo scambio del Figlio col Padre. Generandolo, Maria rinuncia a se stessa e in questa oblazione risiede l’aspetto più profondo della verginità cristiana che in lei comincia: nell’uomo nulla è meramente biologico ma, post cristum natum, anche gli aspetti materiali dell’esistenza ricevono un senso nuovo. Se Dio si è incarnato il corpo della Madonna, non può essere mero contenitore passivo, ma si inscrive in una stupefacente contiguità con l’inaudito che è essa stessa evento.

Analogamente il  destino creaturale dell’uomo appare proprio nel suo potersi realizzare solo divenendo uno con la donna che certo può essere tentatrice,ma, anche dopo il peccato originale si offre come madre di ogni vita. Resta insomma colei che, essendo la  sorgente dell’esistere rappresenta precipuamente la figura della Chiesa cui dobbiamo la nostra genesi spirituale.

Giungiamo così alla terza tappa di questo viaggio: dopo aver scandagliato le premesse veterotestamentarie e il loro compimento mariologico, occorre esplorare il poliforme manifestarsi del culto alla madonna che, alla stregua di un silenzioso fiore, spande il suo soffuso profumo nella vastità della comunità credente. Una vastità non solo cronologica e geografica, cui allude Alessandro Manzoni aprendo l’Inno Sacro dedicato al Nome di Maria, ma anche rituale se l’oriente cristiano ha elevato alla Teotokos canti di struggente bellezza.

Questa disamina può utilmente partire dai tre grandi Dogmi mariani in cui confluiscono le linee di sviluppo della devozione ecclesiale alla madonna: si tratta della divina maternità di Maria, dell’Immacolata Concezione e dell’Assunzione Corporale della Vergine. Il Dogma di Maria a un tempo Vergine e Madre,ci aiuta nell’unità dei due testamenti che rappresentano la storia di Dio con gli uomini a comprendere la lettura tipologica delle sacre scritture trascurata,anche in ambito cattolico, dall’esegesi successiva alla Riforma Protestante.

La  modernità relega la mariologia in un pericoloso romanticismo proprio perché dissolve l’unità dei due testamenti che rappresenta il solo presupposto affinché restino integre sia la dottrina della creazione sia quella della grazia. Con l’affermarsi del Luteranesimo, si è però unilateralmente insistito sulle controversie legate alla questione del libero arbitrio. La dottrina della creazione, dalla quale meglio si sarebbe potuta apprezzare l’unità intrinseca dei due testamenti, è rimasta nell’ombra, con ricadute non lievi anche sul concetto stesso di redenzione.

Per salvare l’uomo, infatti un Dio non basta e questa affermazione ha ricadute anche dal punto di vista mariologico: contro i Nestoriani che ammettevano il solo titolo di madre di Cristo, la dottrina ortodossa ha  sancito l’impossibilità di separare da un Gesù umano quello divino in cui la stessa dimensione antropologica è totalmente compendiata.

La nascita, in questo quadro, non rappresenta un dato meramente somatico: si collega, invece al mistero del Incarnazione. Le tesi cristologiche divengono mariologiche, conservando intatta la loro radicalità. Non meno interessante è il dibattito che ha impegnato la Chiesa prima che fosse sancito il Dogma dell’Immacolata Concezione contro cui vengono generalmente sollevate due tipologie di obiezioni.

L’esenzione della Vergine dal peccato, argomentano i suoi negatori, se esiste è fatto che può essere appreso solo per comunicazione e non mediante complicati passaggi argomentativi. Ma questa comunicazione esplicita nella rivelazione non esisterebbe, tanto che l’intera cristianità del I millennio ignora sostanzialmente questo dogma. L’Immacolata,quindi sarebbe frutto di speculazioni.

A queste difficoltà di ordine filosofico se ne aggiungono altre che uniscono argomentazioni teologiche e loro stratificazione nelle vicende storiche. Affermare che una creatura, ancorché in vista dei suoi eccezionali meriti, sia stata esentata dal peccato significa negare l’universalità della grazia: i teologi dell’evo medio hanno lungamente discusso su questo punto, ma è con la Riforma, quando la grazia è concepita dai protestanti come giustificazione  meramente estrinseca del peccatore, che questa disputa fuoriesce dalle aule di teologia per acquistare un pregnante rilievo dal punto di vista soteriologico.

Ancora una volta l’intrinseca unità dei due testamenti e, soprattutto la loro lettura tipologica, ci aiuta ha fuoriuscire da questa criticità: ai riformatori che vedono nella storia unicamente resistenze ed opposizioni all’agire di Dio, va obiettato che fa parte della predicazione profetica, l’annuncio di un resto santo. Si tratta di una comunità certo esigua dal punto di vista numerico, ma capace di resistere nella continuità di promessa e adempimento.

Un piccolo gregge che Paolo vedrà ultimamente realizzato nell’Israele cristiano. La fede può essere accolta e Maria, radice santa del popolo eletto, compendia anche il senso di salvezza che, secondo il piano divino, doveva spettare all’antica alleanza, chiamata ad accettare in Israele la redenzione donata a tutti gli uomini. La storia del popolo eletto prevede al suo stesso interno, una radice santa che, resistendo al male e al peccato, prepara il germogliare definitivo della redenzione. Madre della parola, primo compimento della nuova alleanza lei è interamente giudea e, per questo, interamente cristiana.

Lungi dall’opporsi alla grazia, la Vergine, creatura che diviene risposta, la esprime. Resta valida la prima obiezione che ora va confutata: il peccato originale non è un fatto in senso positivistico ma è una circostanza tipologica: il testo che più esplicitamente sostiene questa tesi è il capitolo V della Lettera ai Romani, in cui Adamo si identifica con ogni singolo uomo.

Altro luogo paolino riferibile all’immacolata è la lettera agli efesini: qui si parla in chiave tipologica di un nuovo Israele, in una chiesa” senza macchia ne ruga”. A queste pericopi i Padri della Chiesa, fin dagli inizi dell’era cristiana, hanno dedicato inni di struggente bellezza. Il vangelo di Luca ci autorizza a riferire personalmente questi passi alla vergine come la sola creatura cresciuta nell’obbedienza della fede.

Ultimamente il peccato originale non è una mancanza naturale, ma la rottura di una relazione, quella con Dio, da cui tutti gli altri rapporti discendono. Ancora più rilevanti furono, nel secolo passato, le obiezioni sollevate dal Dogma dell’assunzione corporale di Maria nella gloria celeste, sia, come accennato, nelle teologie orientali, sia in quelle di area tedesca. Anche qui si contesta che l’Assunzione non sarebbe attestata dal punto di vista fattuale se non a partire dal VI secolo d.C.

Occorre precisare come il Dogma non è fondato tanto da attestazioni storiche, ma piuttosto come atto di culti che nella forma più solenne possibile, intende rappresentare la più alta affermazione della fede nella madre. Maria, rende esplicito il presupposto interno del culto, la vita intima con Dio. Assunta in cielo, la Vergine raggiunge la meta: il Dogma descrive contenutisticamente ciò che il culto afferma. Tutte le generazioni infatti secondo il canto del Magnificat, la chiameranno beata. Il Dogma dell’Assunzione, come quello dell’Immacolata, si situano su un piano teologico e non possono unicamente essere compresi con argomenti derivanti dall’antichità delle loro attestazioni. 

Abbiamo accennato alla scaturigine storica dell’odierna difficoltà ad accettare la nascita verginale della madonna: esistono ulteriori criticità che si situano a un livello ancora più profondo nonostante siano generalmente ancor meno avvertite delle precedenti.

La nostra visione del mondo appare lontana dal messaggio biblico. Ma cosa si intende con questo concetto che la lingua tedesca definisce weltanschauung? 

Ogni  visione del mondo si fonda sulla fusione tra saperi e valori: i secondi ricevono dalla cultura un’evidenza che non posseggono in se stessi. Ma non sempre ciò che è plausibile è vero: noi riteniamo impossibile la nascita verginale di Cristo perché i valori della modernità paiono escluderla categoricamente. Il fatto che tale tesi sia aprioristicamente rigettata non ci impedisce però, nonostante l’assenza di prove storiche di questo asserto, di sostenere che il culto mariano sarebbe stato importato da modelli extrabiblici perché questa opinione ci appare meglio compatibile con le credenze dell’uomo moderno.

Questo piccolo libro ha un merito che conclusivamente occorre sottolineare: ricomprendere Maria nella categoria, cruciale per Ratzinger, della figliolanza.

Alcuni di noi divengono padri secondo la generatività biologica, altri lo sono spiritualmente o dal punto di vista culturale; tutti noi siamo figli: qualcuno ci ha introdotti al mondo, per noi e in nostra vece se ne è assunto la responsabilità. Ma la figlia che qui contempliamo lo è in un modo, per così dire speciale, come del resto eccezionale è anche la sua maternità.

Lei è la figlia delle attese di un popolo e, compiendole mirabilmente nel mistero della sua persona, le sovverte, perché imprime,  con un semplice si, alla storia un corso inedito. Rimane ancora oggi nelle nostre vite come icona della preghiera: i pittori di ogni tempo la hanno effigiata, i poeti ne hanno tessuto un elogio appassionato in cui versi sublimi sono divenuti anche inarrivabili culmini della teologia. Nel suo cantiere ancora aperto Ratzinger ci mostra donde tutto questo trae origine: in un adempimento che è promessa, in una promessa capace di divenire realtà.

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