di Augusto Cavadi
Nella sofferenza del malato non abbiamo ancora imparato a distinguere un nucleo duro, irriducibile, da un contorno aggiuntivo, superfluo. Il nocciolo d’acciaio, ineliminabile, è inscritto nel DNA del nostro essere:coincide con la nostra vulnerabiità genetica. Possiamo fare o meno i conti con la morte, intesa come evento conclusivo della vita biologica: ma non possiamo sottrarci al confronto, quotidiano, con la nostra mortalità. Essa è una dimensione costitutiva della nostra esistenza e ci accompagna, inseparabilmente, sin dai primi vagiti: per dirla con sant’Agostino, “nasciamo e, di questo, moriamo”. La medicina ci insegna, d’altronde, che proprio questa esposizione innata e continua agli stimoli dolorosi ci preserva da mali peggiori: se fossimo insensibili a qualsiasi minaccia esterna o interna alla nostra salute vivremmo di meno e peggio, non di più né meglio.
Ma il dolore fisiologico e inevitabile è accompagnato, e come avvolto, da strati di dolore supplementare, superfluo. Abbiamo il diritto – e per molti versi il dovere – di contrastare queste dosi gratuite di sofferenza. Come ?
Innanzitutto con gli strumenti farmacologici. La ricerca scientifica appronta ogni anno sostanze, e cocktail di sostanze, analgesiche di cui i pazienti, i parenti dei pazienti, gli operatori sanitari sono spesso ignari. Così ogni giorno nel mondo milioni di persone sono inchiodate a croci insopportabili che una diversa cultura terapeutica potrebbe eliminare o, per lo meno, ridurre drasticamente. (Qui la logica del discorso porterebbe alla questione dell’eutanasia che, per la sua rilevanza, merita una trattazione a sé).
Ma la sofferenza evitabile, e da evitare, non è solo fisica. E’ anche di natura psicologica e mentale. E’ la sofferenza che si radica nell’orizzonte intellettuale del paziente. E’ quanto ha intuito, ad esempio, Victor Frankl – “mezzo dottore e mezzo filosofo” – durante la sua prigionia ad Auschwitz: tra gli internati, chi vedeva un barlume di senso in ciò che provava (perché in qualche modo lo inseriva all’interno della propria prospettiva ebraica o della propria prospettiva comunista o di qualche altra concezione del mondo e della storia) resisteva anche fisicamente più, e meglio, di quanti trovavano del tutto assurdo ciò che stavano vivendo.
Cosa può insegnarci quanto Victor Frankl racconta nel suo Uno psicologo nei lager e in tanti altri testi da lui dedicati alla riflessione filosofica sulla sofferenza umana? Che siamo animali “affamati di significato”: che, per dirla con Nietzsche, se intravvediamo un “perché” siamo in grado di sopportare “quasi ogni come”.
E’ qui che si inserisce il ruolo del filosofo-consulente: del filosofo di strada, disponibile a scendere dalla cattedra per entrare nei luoghi della quotidianità e degli interrogativi esistenziali autentici – come appunto, ad esempio, gli ospedali. Non è certo il ruolo del juke-box da cui attendersi risposte pronte-da-portare. Se mai, riprendendo la metafora di Socrate, è il ruolo dell’ostetrica che aiuta la donna gravida a partorire ciò che ha concepito al proprio interno. Se non sono stato io a trovare – o per le meno ad attribuire – al mio dolore un qualche senso, nessun suggerimento che mi provenga dall’esterno potrà davvero farmi luce. Il filosofo-consulente può offrirsi come interlocutore per la mia ricerca di ciò che significa soffrire.
E se il dolore non avesse nessun senso, nessun significato ? Se fosse intrinsecamente e irrimediabilmente assurdo? Anche in questa ipotesi, per così dire estrema, il filosofo avebbe comunque un compito critico da assolvere: aiutare il “consultante” che lo interpella a liberarsi dalla false risposte che, in quanto infondate, finiscono per accrescere inutilmente la sofferenza. Mi limito a un solo esempio, non raro in un Paese di tradizioni cattoliche. Quante volte il malato oncologico, specie se in fase terminale, si chiede cosa abbia fatto di male per meritare da Dio tale pena? Il filosofo può essere personalmente credente in senso cristiano o meno, ma – in ogni caso – sa (o dovrebbe sapere) che questa visione arcaica della malattia come punizione voluta da Dio è stata contestata più volte da Gesù di Nazareth . Ad esempio, al capitolo 9 del vangelo secondo Giovanni, a chi gli chiede se la cecità di un cieco nato è conseguenza di peccati suoi o dei suoi genitori, il Rabbi risponde che ha peccato né lui né i suoi genitori. Similmente, al capitolo 13 del vangelo secondo Luca, è sempre Gesù a spiegare che i Galilei trucidati da Ponzio Pilato, come le diciotto vittime del crollo accidntale della torre di Siloe, non erano più peccatori dei sopravvissuti.
Allora il filosofo, in dialogo, può sollecitare l’ospite a riflettere sulla contraddizione fra il dirsi cristiano e il ritenersi destinatario di una punizione divina; fra l’accettare il vangelo originario che parla di un Padre amorevole e la convinzione popolare che sia Dio stesso ad ‘assegnare’ le malattie come castighi. In modo che il paziente arrivi o a non dirsi più cristiano o a liberarsi dalla concezione mitica del Dio castigatore.
L’esemplificazione di una conversazione con un cattolico potrebbe, con le debite modifiche, appplicarsi alla conversazione con un musulmano o con un buddhista o con un ateo. In tutti i casi, la strategia è la stessa: supportare l’interlocutore nella ricerca di una coerenza fra la sua visione-del-mondo in generale e l’interpretazione, in particolare, della propria malattia fisica. Questa armonia ‘interna’ non è condizione sufficiente ad affrontare il dolore, ma è di certo necessaria. Liberati dalle contraddizioni logiche fra i pezzi della nostra concezione della vita siamo predisposti, se lo vogliamo, a confrontare tale nostra concezione con le prospettive altrui: e dal confronto dialogico, dalla “lotta amorevole”, potremmo guadagnare nuovi punti di vista e nuovi parametri di giudizio per avvicinarci, sia pur asintoticamente, alla saggezza accessibile ai mortali.
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