“Tardi ti ho amato bellezza così antica e così nuova, tardi ti ho amato.
Tu eri dentro di me ed io ero fuori. Lì ti cercavo.
Deforme mi gettavo sulle belle forme delle tue creature.
Tu eri con me, ma io non ero con te.
Mi tenevano lontano da te le tue creature, inesistenti se non esistessero in te.
Mi hai chiamato e il tuo grido ha squarciato la mia sordità.
Hai brillato e il tuo splendore ha dissipato la mia cecità.
Hai diffuso la tua fragranza e io la ho respirata tanto che ora anelo a te
ti ho gustato e ora ho fame e sete di te.
Mi hai toccato e ora ardo dal desiderio della tua pace”.
Confessioni 10, 27-38.
Declamata poeticamente in questo passo delle ”Confessioni”, ripercorsa in mille biografie spesso ageografiche, a iniziare da quella fondamentale dell’amico Possidio, la vita di Agostino è un’inesauribile ricerca che si dipana dalla natia Africa al continente europeo, abbracciando le principali scuole retoriche e filosofiche del suo tempo.
Una ricerca di cui ci restano tracce nelle “lettere” e nelle “antologie per i semplici” oltre che nei non pochi episodi rievocati nelle “confessioni”, non mera autobiografia, ma narrazione che utilizza elementi tratti dalla vita, rielaborati con sopraffine abilità retorica. Un’esistenza avventurosa che si risolve nel cruciale incontro milanese con il Vescovo Ambrogio, nel successivo Battesimo,e nella polimorfe attività di: infaticabile presbitero, zelante vescovo – non abbandonò la sua Ippona neppure durante l’assedio dei Vandali -, arguto polemista, inesausto omileta, sottile filosofo, profondo teologo.
Un dedalo di interessi che, in una complessa temperie culturale connotata dalla dialettica osmotica tra il declinante Impero Romano e una comunità cristiana in vorticosa ascesa nonostante, al suo interno fosse travagliata da dissidi dottrinali, e all’esterno dagli ultimi colpi di coda dell’agonizzante paganesimo è ripercorso da Maria Bettetini nel suo “introduzione ad Agostino”.
Un testo che, senza inutili apologetiche o sterili agiografie guida il lettore alla conoscenza di questa complessa figura: dai dialoghi giovanili all’adesione al Pitagorismo e al Platonismo, dall’ermeneutica intesa come scienza fondante, ai grandi temi del tempo e del male, dai numerosi scritti polemici a un’affascinante rilettura tanto delle “confessioni” quanto della “città di Dio”. Il testo si sofferma anche su aspetti poco noti dell’opera del dottore della grazia: dal ruolo del linguaggio e delle arti liberali, – viste come scala sicura verso le realtà spirituali – ai rapporti con il proprio corpo o a quelli tra uomo e donna: tutti questi temi, proprio per la loro rilevanza, tornano più e più volte nella narrazione dell’autrice, senza che a ciascuno di essi sia dedicato un capitolo specifico.
Una scelta certo audace ma che conferisce ritmo all’intero impianto narrativo, restituendo, anche grazie a questo espediente, il fascino di una figura poliedrica, capace di influenzare il dibattito culturale fino ai nostri giorni. Lo stesso carattere d’occasione di molti scritti agostiniani, lungi dallo sminuirne il valore, fa rampollare dalla vita questioni cruciali: dalla polemica contro la gnosi dualistica dei Manichei sorge la grande meditazione sul male; da quella contro l’autosufficienza soteriologica dei Pelagiani si dipana l’intricata vicenda della libertà umana e della sua coesistenza con la grazia divina; da quella contro l’adozionismo degli Ariani discende l’applicazione dell’analogia all’uomo e allo stesso Dio Unitrino; da quella contro i donatisti fiorisce la discussione, attualissima ancora oggi, sulla validità dei sacramenti.
La Vita
Agostino nasce a Tagaste, piccola città della Numidia Proconsolare, il 13 novembre 354 d.C. durante il regno di Costanzo II e il papato di Liberio da Patrizio, un pagano membro del consiglio municipale del villaggio, uomo libero ma non ricco, e Monica fervente cristiana, molto presente nel cuore del figlio fino alla sua morte avvenuta a Ostia Tiberina nel 387 d. C.
L’editto di Costantino aveva già consentito nel 313 d.C. il culto di tutte le religioni e il Cristianesimo, fino ad allora costretto in una dimensione catacombale, si stava rapidamente espandendo. Un successivo decreto emanato dall’Imperatore Teodosio nel 380 d.C. trasformò quella Cristiana nella sola credenza ammessa nei territori amministrati da Roma, rafforzando in tal modo la commistione tra potere civile e autorità religiosa, di cui decenni dopo, lo stesso Agostino si servirà per richiedere la confisca dei beni dei Manichei.
A partire dal 40 d.c. sotto il regno di Caligola, la cittadina di Tagaste era divenuta parte dell’Impero Romano, assieme ad altri territori abitati da etnie berbere, cui lo stesso Agostino dovette appartenere. Queste erano così denominate perché originariamente incapaci di parlare sia il latino sia il greco, lingue che coincidevano con la civiltà stessa per cui chiunque le ignorasse era detto barbaro.
In questa cittadina libera e romanizzata con alle spalle tre secoli di relativo benessere frutto di un’economia fondamentalmente agricola, l’autore delle “confessioni” ricevette la sua prima educazione. Dal punto di vista linguistico padroneggiava il latino e il punico, mentre il greco gli sarebbe restato ostico per tutta la vita, nonostante abbia più volte tentato di apprenderlo in età adulta per accedere in lingua originale agli scritti neotestamentari. Secondo le usanze del tempo il bimbo non fu battezzato, nonostante una sua esplicita richiesta durante una infezione che lo colpì in tenera età: si riteneva allora che l’adolescenza, tempo generalmente favorevole al peccato, avrebbe reso ancor più intollerabili i non lievi precetti della Chiesa e, per questo motivo, si differiva il Sacramento.
Nella sua città natale e successivamente a Madaura, il giovane ricevette un’educazione culturale oggettivamente modesta, nonostante le sue doti eccezionali emergessero già a quei tempi tanto che vinse un premio per una versione in prosa dell’episodio dell’ira di Didone provocata dalla partenza di Enea, ira che egli stesso infliggerà alla madre Monica salpando per l’Europa a sua insaputa.
In queste scuole di provincia materie come la filosofia, le scienze e la storia erano oggetto solo di letture volontarie, effettuate prevalentemente sui manuali: in filosofia la fonte più rilevante era Cicerone che con il suo cauto sincretismo fungeva da ponte tra cultura romana e speculazione ellenica. Avvinto dalla sua retorica in cui vedeva una fonte di possibili successi, l’ambizioso giovane si spostò a Madaura, dove studiò grammatica: aveva circa 15 anni e frequentava qualcosa di simile a una facoltà di lingua e letteratura in cui si approfondivano alcuni classici.
Virgilio, Cicerone, Sallustio e Terenzio erano i soli autori cui si dedicasse attenzione mentre altri poeti, primo fra tutti Omero, venivano ignorati o storpiati. Gli studenti di grammatica sarebbero divenuti retori, cioè abili nel redigere discorsi capaci di convincere l’uditorio: non si trattava necessariamente di aule di giustizia, visto che l’abitudine di leggere o declamare orazioni ad alta voce era molto diffusa in età tardo antica, tanto che lo stesso stile delle “confessioni” ne risente. Dal punto di vista spirituale, anche a seguito della morte di un suo amico, l’adolescente si allontanò dalla formazione cristiana, impartita principalmente da Monica, e certamente non superficiale, come per secoli si è sostenuto.
I suoi sogni erano altri: anelava all’Europa, alle grandi città imperiali oltre il mediterraneo, ma la dura realtà lo costrinse ad interrompere gli studi non avendo Patrizio i soldi necessari per sostenerlo. Nell’anno di ozio forzato, prima di poter riprendere, grazie a Romaniano, un amico benefattore, la sua formazione a Cartagine, si colloca il celebre episodio del furto delle pere che nelle “confessioni” assurgerà a simbolo del male scelto per se stesso, senza alcuna necessità.
Nella città punica, oltre ai naturali giochi di un giovane che trovava tutto insolito provenendo da un piccolo villaggio, il diciassettenne Agostino cresce intellettualmente grazie a tre incontri stimolanti, vede per la prima volta il mare, e anche il suo sogno dell’Europa inizia a concretizzarsi. Un periodo difficile da ricostruire che l’autore delle “confessioni” seguito da secolari schiere di Ageography dipingerà come dissoluto, per meglio far risaltare la vita ascetica successiva alla conversione. Probabilmente, però, proprio perché l’opera agostiniana non è un’autobiografia, si tratta di una rielaborazione letteraria.
Due libri sono i protagonisti di altrettanti incontri: il primo è “l’Ortensio”, testo ciceroniano sul valore della filosofia oggi in gran parte perduto composto in un affascinante latino; il secondo una cattiva traduzione delle sacre scritture, utile unicamente a rafforzare il giovane studente di retorica nell’idea che nulla di vero avrebbe potuto apprendere da un libro scritto tanto rozzamente. Ma torniamo all’ ”ortensio” che segnerà il passaggio dalla retorica, utile solo come strumento argomentativo, alla filosofia. Si tratta di un’opera minore che lo conduce a prediligere l’immortalità della sapienza: colui che amava amare indirizza la sua concupiscenza al piacere del pensiero.
Il dissidio tra vuota retorica e ricerca del vero diviene esperienza vissuta: per pensare occorre preferire i piaceri dell’intelletto, scelta gravosa per Agostino che non riusciva a disprezzare quelli dei sensi. L’intelligenza ha il vantaggio di dischiudere la prospettiva dell’immortalità, intesa come ritorno al cielo: concetto, questo facilmente interpretabile anche in chiave cristiana, nonostante la conversione sia ancora lontana. Esiste oltre alla gioia del corpo e a quella della mente assetata di gloria, un altro piacere: è la sapienza, per la quale, sola vale la pena vivere.
Chiusa, almeno temporaneamente, la Sacra Scrittura senza che avesse ancora i mezzi per aprirla in modo adeguato, cioè con una lettura allegorica che sarà il Vescovo Ambrogio a destare, il giovane, smanioso di certezze, Agostino aderì al manicheismo. È questo il terzo incontro determinante: si tratta di una religione gnostica, cioè secondo la quale ci si salva non grazie alla fede, ma in virtù della conoscenza e dualistica perché prevede alla base del mondo due principi: uno buono, autore dello spirito, del bene ,della luce; l’altro cattivo, creatore della materia, del buio, del male.
Il Manicheismo
Il Manicheismo non ha la consistenza del cibo solido e cotto, ma pasce l’adepto di fantasmi in una storia di caduta e salvezza articolata in tre tempi: il problema del male si sposta dal cuore dell’uomo a una battaglia a lui esterna. Grazie ai Manichei dieci anni dopo aver letto”l’Ortensio”, Agostino otterrà a Roma una cattedra di retorica dalla quale sosterrà dispute contro i Cattolici difendendo tesi semplici e definitive, coinvolgenti emotivamente in un sincretismo tra Zoroastrismo, Buddismo e un Cristianesimo deprivato dell’intero Antico Testamento.
Non si tratta quindi di una parentesi esotica, ma di una tappa di un più lungo percorso che comprenderà anche la stessa conversione, intesa come l’itinerario di un uomo in ricerca, smanioso di sapere, incapace di accettare la vita così come tutti gli altri la conducevano. Al Agostino non ancora cristiano manca l’umiltà che si paleserà nel miracolo inaudito e indicibile in cui a farglisi incontro sarà la vita stessa nella cantilena di un bimbo e nelle sferzanti parole dell’Apostolo. Ma per giungere a questo punto dovremo valicare il Mediterraneo, mare latino, teatro di millenarie civiltà e di questa esistenza affascinante.
Restando in Africa a questo periodo risale anche l’incontro con la madre di Adeodato, il figlio con cui simulerà il dialogo “sul maestro”, variamente interpretato dagli studiosi che si intrattiene fondamentalmente sui rapporti tra le parole e le cose, nonostante venga letto da alcuni anche come opera pedagogica. Forse la composizione di tale scritto si deve a un triste dettaglio biografico: la prematura scomparsa del giovane, di cui il padre volle lodare la straordinaria intelligenza.
Tornando a sua madre. Poco sappiamo su questa donna, ne ignoriamo il nome e possiamo supporre che fosse di umile condizione, tanto da sconsigliare il matrimonio, mentre il concubinato, in alcune circostanze, era ammesso così da non destare scandalo, anche se l’Agostino convertito biasimerà questo regime di vita. Acuta la notazione dell’autrice per cui le donne dell’antichità parlano sempre in nome di qualcosa, mai per se stesse: Monica è allegoria della fede, mentre questa anonima fanciulla allude alla maternità , si tratta di una prospettiva avulsa dalla nostra ma, proprio per questo, non ha senso ne farsi troppe domande, ne biasimarla con parametri estranei alle epoche che la hanno prodotta.
Agostino è ormai famoso, insegna retorica – non più solo grammatica – e scrive un trattato sul bello ed il conveniente oggi perduto: lo si cercava nell’anima, ma si trattava di un’indagine solo materiale in cui la grazia coincideva con la virtù, mentre il vizio era discordia. La bellezza qui è armonia: proporzione dell’oggetto sia in se, sia in rapporto con altro: concetto questo che resterà cruciale, pure nell’Agostino cristiano. È seguendo l’ordito di queste idee che Maria Bettetini rifiuta la tesi della conversione come momento di radicale crisi, vedendovi piuttosto l’esito naturale di un lungo itinerario, capace di includere anche ciò che sembrerebbe negarla.
Come la retorica, anche il Manicheismo e lo stesso eclettismo filosofico, non riescono a placare i dubbi dell’arguto cercatore: se i suoi correligionari gli avevano promesso la risposta a ogni tipo di incertezza anche a quella sull’esistenza del male, il giovane professore appare tormentato da una questione: aveva imparato nei gradi inferiori dell’istruzione che molti fenomeni astronomici, come le eclissi, si potevano spiegare con semplici calcoli matematici, mentre i Manichei ne facevano un simbolo dell’eterna lotta tra il bene e il male che , pervadendo il cosmo intero, coinvolgeva anche i corpi celesti.
Ed ecco un altro filo dell’ordito che resterà nel teologo cristiano: la fede non abolisce l’ambito propriamente razionale che serve piuttosto a illuminarne le ragioni, quindi se un fenomeno si dimostra naturalmente la sua spiegazione, entro certi limiti, va accolta. Nei racconti dei Manichei tutto si riduce alla guerra tra i due principi materiali: appassionato di astrologia, scienza che gli antichi non distinguevano dall’astronomia usando i medesimi testi tanto per calcolare le maree, quanto per prevedere il destino degli uomini, il futuro Vescovo di Ippona svela, con la sola ragione, l’inganno manicheo, che consiste nell’aver sostituito a semplici calcoli matematici, astruse cosmologie soprannaturali, mostrando disprezzo per la ragione, prima ancora che la macchinosità di questa fede.
Quelle manichee sono certezze per chi non pensa e questo rimprovero filosofico sarà fondamentale per l’Agostino cristiano, per cui chi crede non smette di pensare. Del resto è questo il destino di ogni gnosticismo, nonostante i confini che lo dividono dal primo Cristianesimo non siano sempre così netti, come l’Agostino convertito tenderà a farci credere. Il professore, pur restando formalmente Manicheo, è già in ricerca: incontra così il Neo Platonismo che gli consente di pensare non corporalmente. Si tratta di un guadagno teoretico di eccezionale portata che gli dischiuderà le polimorfe vie dello spirito, imprimendo, come vedremo tra poco, una decisiva curvatura all’intero pensiero occidentale. Ignorando il greco, il futuro filosofo legge i platonici in traduzioni latine, probabilmente quelle di Mario Vittorino e queste opere ne influenzeranno la mentalità per tutta la vita, tanto che spesso, ingenerosamente, egli è definito come il Platone cristiano: pur dissentendo da tale etichetta, è indubbio che dottrine come quella della conoscenza per illuminazione o speculazioni come quelle sul male e sul tempo, risulterebbero incomprensibili senza uno sfondo platonico, capace di animare l’intero Medioevo, fino alla rivoluzione tomista.
Sempre più deluso dai Manichei, Agostino incontra il loro vescovo Fausto, contro il quale da convertito scriverà un’opera polemica. Il prelato avrebbe dovuto risolvere i suoi dubbi: ma trova un uomo di cultura mediocre, che conosceva solo rudimenti di grammatica e qualche opera di Seneca. Ancora assetato di successo il nostro cercatore parte per ”l’Italia”: ancora formalmente manicheo anche se si sente attratto, come detto, da un Platonismo scettico, tra i cui esponenti troviamo Carneade di Cirene, noto ai più per aver fatto inciampare il Don Abbondio dei “promessi sposi”.
Tali accademici erano probabilistici, cercavano cioè di sostenere su ogni questione filosofica l’opinione più plausibile essendo il vero e il falso sempre mescolati, tanto che in ogni affermazione veridica può persistere una certa dose di menzogna. E qui, in questa attenzione per il falso e per la bugia troviamo un altro interesse che resterà costante anche nel teologo dottore della grazia. Lo riprenderà nei “soliloqui”, dialoghi sull’immortalità dell’anima tra Agostino e la ragione, in cui si sostiene che il falso vuole sembrare vero pur senza esserlo e tuttavia somigliandogli. Chi sogna un cane non dirà di aver sognato un uomo e l’animale apparsogli mentre dormiva, pur se ingannevole, viene riconosciuto per la sua affinità con il vero amico dell’uomo che la persona può vedere da sveglia. Agostino fugge in “Italia”: prima a Roma, poi, a causa di turbolenze politiche, a Milano, nuova capitale dell’impero: qui i Manichei, gli offrono un incarico importante.
Occorre certo difendere il paganesimo, ma è ancora più necessario combattere il Vescovo cattolico Ambrogio, ed il retore venuto dall’Africa, sempre vincitore nelle dispute teologiche, sembra la persona più adatta. Siamo nel 385 d.C. e Roma perseguitava vari tipi di eretici tra cui gli Ariani, i Pagani e gli stessi Manichei essendo fedele alla dottrina nicena: nei ricordi delle “confessioni”, scritte decenni dopo questi eventi, Agostino associa Milano alla figura di Ambrogio , prima temuto avversario, poi amico leale.
Nativo della Gallia studiò come funzionario imperiale, prima di assumere la carica di vescovo meneghino in un’indistinsione tra la sfera civile e quella religiosa tipica del mondo tardo antico: a lui il retore ancora pagano deve una sensazionale scoperta la possibilità di leggere allegoricamente le Sacre Scritture. Un fatto che, almeno dal punto di vista storico, non può non generare perplessità perché il nostro filosofo era nato a pochi chilometri da Alessandria, dove tale metodo era fiorito ed è assai difficile che una persona, pagana ma comunque colta, non ne avesse avuto notizia.
Frequentando, più per dovere sociale che per reale interesse, la predicazione di Ambrogio del Vescovo l’autore delle “confessioni” scoprì la possibilità di andare oltre la lettera che uccide essendo fedeli allo spirito vivificatore. Finalmente Agostino, raggiunto da Monica ed Adeodato, abbandonò i Manichei, contro cui si scaglierà con violenza inaudita tanto da favorire la completa distruzione delle loro opere per questo oggi perdute, divenendo catecumeno: la Chiesa Cattolica non gli promette certezze, ma non chiede fede in narrazioni mitologiche. Con l’amico Alipio voleva dedicarsi allo studio delle Scritture: mandata in Africa la madre di Adeodato, vive mesi tormentati: senza la donna amata, una piena adesione al Dio dei Cattolici, privo di pseudocertezze, ma non avendo ancora compreso la forza vivificante del dubbio.
Il Platonismo rappresenta in questo periodo il ponte tra i Cristiani Ambrogio e Simpliciano e la cultura pagana: forse Agostino è entrato in contatto con le “enneadi” di Plotino,- naturalmente in traduzione latina – forse con commentari all’opera di Porfirio più probabilmente con entrambi gli scritti. Cristiani e Platonici si distinguevano per un punto: l’Incarnazione. Solo per i primi , infatti, il Verbo era sapienza da amare, persona da seguire, parola capace di illuminare mente e cuore; mentre i secondi, come tutta la cultura ellenica, rigettavano recisamente questa ipotesi: parlando all’Aereopago, come attesta la narrazione lucana degli” atti degli apostoli”, lo stesso Paolo ne ebbe una tangibile, amara riprova.
L’abbraccio del filosofo con la verità di Gesù avviene tra questi tormenti: conosce le vite degli asceti come Antonio, ma la castità gli ripugna. Intelletto e volontà si rivelano, ancora in modo inconsapevole, come i due cardini della sua vita, ancor prima che del suo pensiero, dopo la conversione completamente ghernito da due oggetti: Dio e l’anima, oltre che dal inesausto desiderio di conoscerli. Nel VIII libro delle confessioni” il filosofo narra la celebre scena del giardino : disperato, scisso biograficamente in più volontà ,ma consapevole, dal punto di vista intellettuale, dell’unicità di questa virtù, sente una voce infantile che gli dice “prendi e leggi”.
Il professore apre a caso le” lettere” di Paolo e trova un passo di quella ai Romani in cui lo si invita a” rivestirsi di Cristo”, abbandonando i piaceri della carne. La castità non è più un ostacolo , e il convertito, ritiratosi in una casa di campagna, medita le Scritture. Qui nascono i primi dialoghi giovanili successivamente riveduti tra cui spiccano i “soliloqui”. Nella Pasqua del 387 d.C. Agostino riceve il battesimo dalle mani di Ambrogio, e in questo gesto, simile a una nuova nascita, si inscrive la tradizione della Chiesa, vocata a consegnare alle future generazioni ciò che essa stessa ha accolto come dono, tutti i giorni, fino alla fine del mondo.
Chi crede continua a pensare: il male, la storia, il tempo, lo stesso destino umano, sono incastonati in una presenza quella di Cristo che non sempre rende più semplice il ruolo del cercatore. Anzi talora lo complica, come nel caso del male: il problema non è tanto la sua esistenza, quanto la nostra pochezza che non riesce ad assegnargli il giusto posto all’interno del universo. Per provare a farlo Agostino, che anche da cristiano restò esteta raffinato, si affida a un’immagine, tanto suggestiva, quanto pregna di significati.” Nel dialogo sul ordine” il filosofo ipotizza che un uomo abbia una vista tanto manchevole da scorgere in uno splendido pavimento a mosaici, solo una tessera per volta, così che non gli riesca agevole ricostruire a posteriori l’insieme dell’opera.
L’uomo vede poco, coglie un piccolo pezzo di realtà proprio perché è il più vicino, il meglio ingrandito dalla luce, ma paradossalmente anche il più deformato da tutte queste circostanze e da quella, assai più importante, che il resto del mosaico, da cui la stessa infinitesimale tessera prenderebbe senso, gli resta nascosto in un’impenetrabile caligine. Questa deformità gli appare inaccettabile per cui l’uomo si ribella al disarmonico: in questo modo l’incapacità di chi guarda impedisce di rispecchiarsi nell’autentica opera d’arte. Non dissimile è il nostro destino: dotati di una ragione debole, attribuiamo la malvagità alle cose, mentre questa in ultima analisi dipende dalla poca acuità del nostro visus.
Nel ottimismo ontologico agostiniano ogni realtà creata ha una funzione nel universo e ciò serve a giustificare l’esistenza di Dio difronte al male. Tale aspetto è , come ha sottolineato Remo Bodei, è a un tempo esaltato e esorcizzato. È esaltato: dal monaco agostiniano Lutero, è esorcizzato nelle rivolte moderne da Sartre a Dostoevskij. Il male è privazione, disarmonia, mancanza, e, per questo Dio, sommo bene che coincide con l’essere, non può averlo creato.
Il Manicheismo è definitivamente battuto sul suo terreno, mentre si profilano, con tutte le loro aporeticità, le varie teodicee che pulluleranno nel occidente latino, restando assenti nella cristianità orientale, più incline alle teologie della gloria, poco avvezze a un simile inquadramento della questione. Non meno gravida di conseguenze è la riflessione del Vescovo di Ippona sul tempo: incastonata tra le suggestive pagine sulla memoria, e la tardiva ripresa del commento ai primi versetti della Genesi operata nelle” confessioni”, una riflessione tanto cruciale non si esaurisce nella sua misurazione: Dio, infatti chiama al essere tutte le cose, simultaneamente ma non allo stesso modo. Per questa via l’Onnipotente crea anche una cronicità lineare che si dipana nell’unicità della vita e non in una consolatoria ciclicità greca ripresa dai pensatori moderni.
Qui risiede una capitale differenza tra la speculazione agostiniana e le riflessioni neoplatoniche o stoiche: essendo il pensiero dell’Ipponate privo del eterno ritorno postulato dalle prime; e dell’onnipresente realtà del fato debordante nelle seconde. Il cristianesimo immette nella cronicità una drammatica irripetibilità esistenziale, connettendo strettamente il tempo al libero agire della volontà che scompagina il destino cui tutti, dei e uomini, soggiacevano nell’Ellade antica, così intesi tanto il tempo quanto la libertà inseriscono, nel paradosso cristiano, un dramma più lancinante della stessa saggezza greca.
Prima della creazione Dio non faceva nulla perché in lui non vi è un’anteriorità, rimandando i fluire del tempo al eternità. Poeticamente, rivolgendosi al Altissimo l’autore delle confessioni esclama “ i tuoi anni sono un giorno solo e il tuo giorno non è ogni giorno, ma oggi perché il tuo oggi non cede al domani”. Finalmente, solo dal confronto con l’eterno in cui tutto è presente, si svela la natura del tempo come distensio anime , dove il termine polisemico anime allude alla memoria, cui il passato esplicitamente rimanda, mentre il futuro proietta immagini già note del accaduto verso un possibile accadere: emblematico è l’esempio dell’alba capace di alludere, anche domani, al sorgere del sole dal momento che io ho visto un fenomeno simile verificarsi antecedentemente.
Il presente si configura come istante privo di estensione: misurando il tempo a partire da ciò che non è più- il passato – che naturalmente, in una sorta di linea retta irrevocabilmente segnata dal eventi incarnazione, si dirige verso ciò che non è ancora – il futuro -. Kronos diviene così quantità nell’animo, del singolo uomo: trattenute nei palazzi della memoria , le immagini del passato e del futuro, permettono la spazializzazione del succedersi degli istanti. L’anamnesi diviene, in tal modo, un grande contenitore, privo di spazio, che ci consente di quantificare il tempo. Pur se misurabile la cronicità non si esaurisce nella sua oggettivazione in un numero, implicando aspetti psicologici che, secoli dopo Agostino, filosofi come Henri Bergson e letterati come Marcel Proust scandaglieranno con inarrivabile profondità.
Ma il tempo non è solo quello individuale, scandito nell’irripetibile singolarità allusiva della vita terrena. Esiste anche una temporalità collettiva che la “città di Dio”, opera monumentale di filosofia della storia si propone di illuminare. Un evento epocale dischiude ad Agostino lo spazio del pensiero: nel 410 d.C. per la prima volta dopo 800 anni, Roma veniva saccheggiata da un esercito di Visigoti al comando del generale Alarico.
L’agonizzante paganesimo sfrutta l’occasione per accusare la nuova religione: non più onorate le tradizionali divinità della romanità hanno smesso di proteggere l’Urbe che la nominalistica provvidenza dei Cristiani non è riuscita a preservare dalla devastazione. Addebito insidioso cui il Vescovo risponde con la celebre, anche se spesso fraintesa, dottrina delle due città e, soprattutto della loro commistione.
L’opera scritta tra il 412 e il 427 delinea le caratteristiche della città celeste che, mentre non si identifica con nessuna metropoli terrena, non è neppure un luogo immaginario, come quello delineato da Platone nella repubblica: è già e non ancora, invischiata nella città degli uomini, corre con lei lungo tutta la storia, se ne separerà solo alla fine dei tempi, quando all’oscurità orante della fede, subentrerà la diafana chiarezza della visione.
“La città di Dio”, quindi, non è neppure la Chiesa, come l’agostinismo medioevale e con lui molta manualistica anche recente hanno sostenuto: è invece già e non ancora, presenza assente ma non idealizzata nelle chimere del utopismo politico che, dal millenarismo al pensiero rinascimentale, costruirà immaginifiche plaghe, per fuggire oltre le deludenti vicende della contingenza storica. Al contrario le due città agostiniane che, a ben guardare, convivono in ciascuno di noi, sono già presenti nel pensiero pagano: ne parla lo stesso Cicerone, fonte filosofica primaria per l’autore delle “confessioni”.
La città divina, adombrata nell’esilio babilonese del popolo eletto, non è del mondo ma è inviata nel mondo, proprio come i Cristiani, secondo quanto afferma “l’epistola a Diogneto”, che hanno per il cosmo la stessa funzione posseduta dall’anima nei riguardi del corpo. Dottrina complessa, per cui i seguaci di cristo, che con la loro vita superano le leggi, concepiscono ogni terra straniera come loro patria, e ogni patria come terra straniera, essendo la loro vera cittadinanza in cielo.
Più semplice, ma anche enormemente più dannoso, appiattire la città di Dio sulla chiesa, creando le condizioni per un clericalismo, non raramente dispotico, ma alieno dalle originarie intenzioni dell’Ipponate.
Il testo della Bettetini si chiude con una dettagliatissima cronologia che consente sia di ricostruire minuziosamente la vita del Vescovo di Ippona, sia di collocarla nel suo contesto storico, oltre che nel vivacissimo dibattito teologico di quel periodo. Non manca un’interessante sezione di critica agostiniana, capace di scandagliare la poliforme eredità di questo pensatore, soprattutto nei filosofi del secolo passato.
La stessa bibliografia, essenziale ma molto accurata, permette di incontrare alcune tematiche cruciali, rimandando a specifici studi per gli approfondimenti.
La poliedricità dei suoi interessi e, più ancora, quella delle interpretazioni del suo pensiero, oltre alla sterminata mole di opere tramandateci a suo nome, rendono imprescindibile la lettura di un testo come questo, per chi voglia conoscere meglio Agostino, e, oltre le non poche biografie romanzate, comprendere quanto ingente sia il debito che tutti e ciascuno, anche chi lo critica, abbiamo contratto con questo affascinante uomo di ricerca e di pensiero. Egli, infatti, anche dopo la conversione, non smise di interrogarsi, fondendo platonismo, retorica, estetica, pensiero politico, riflessione teologica: ciascuna epoca, , ciascun filosofo attingeranno a questo caleidoscopio di luce, lo spazio di un inesausto ed inesauribile pensare.
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