di Luciano Sesta
Non si può negare l’impressione che la parola “misericordia” non goda oggi di buona stampa, né negli ambienti laici, per i quali essa è sinonimo di debolezza, lì dove solo chi non guarda in faccia a nessuno e non si fa intenerire è considerato capace di affermarsi; né in alcuni ambienti ecclesiali, in cui si avanza il sospetto che l’insistenza sulla misericordia abbia lo scopo di minimizzare la gravità del peccato o, addirittura, di rivoluzionare le norme morali tradizionalmente insegnate dalla Chiesa cattolica. Proprio per questo, tuttavia, è urgente tornare a riflettere, da cristiani, sul mistero della misericordia di Dio. Non è mai stato facile, infatti, capire come mai Dio, l’Eterno Creatore di cielo e terra, possa avere misericordia dell’uomo, nonostante la sua evidente miseria. Anche il salmista se lo domanda perplesso: «Signore, che cos’è un uomo perché te ne curi?Un figlio d’uomo perché te ne dia pensiero?» (Sal 143, 3). In realtà proprio la “miseria” dell’uomo diventa, qui, l’oggetto della speciale attenzione di Dio. La parola “misericordia”, infatti, richiama l’atteggiamento di chi ha il proprio cuore (cor) vicino ai poveri (miseri). Dobbiamo dunque subito convertire il nostro ragionamento, e dire che Dio ha misericordia dell’uomo non nonostante la sua miseria, ma a causa di essa. Ed è questo che noi non riusciamo ad accettare e a capire. Siamo infatti convinti che il cuore di Dio lo si debba conquistare “facendo i bravi”, e, dunque, riscattandoci dalla nostra miseria, non certo accettandola. Non si tratta, naturalmente, di compiacersi della propria miseria, fisica, economica, morale o spirituale che sia, ma di riconoscere che nonostante tutto il nostro impegno – che non dovrebbe mai mancare – un fondo di miseria, nelle nostre vite, rimane comunque.
Ce n’è abbastanza, se le cose stanno così, per capire come mai, quest’anno, papa Francesco abbia indetto un Giubileo straordinario della Misericordia, che avrà inizio l’8 dicembre 2015 e che si concluderà il 20 novembre 2016, giorno della solennità di Cristo Re. Anche la prossima Giornata Mondiale della Gioventù, che avrà luogo a Cracovia, si concentrerà sul tema della beatitudine della Misericordia. Proprio papa Francesco, in effetti, ha scosso il mondo e la Chiesa con il suo atteggiamento semplice e deciso, caratterizzato da una grande apertura nei confronti di tutti, divenendo così, in qualche modo, un simbolo della misericordia di Dio. Facendolo si è attirato anche molte critiche, soprattutto in taluni ambienti cattolici, timorosi che la sua benevolenza possa essere interpretata come accettazione di qualunque stato di vita, anche di quelli che la Chiesa, tradizionalmente, considera oggettivamente incompatibili con la fede in Gesù Cristo. Si pensi ad affermazioni come “chi sono io per giudicare?”, in risposta a un giornalista che gli domandava cosa pensasse degli omosessuali credenti, o alla precisazione che i divorziati risposati sono pienamente inseriti nella Chiesa e, dunque, non sono, tecnicamente, “scomunicati”, anche se non possono accostarsi al sacramento dell’Eucaristia. Queste affermazioni, in verità, non introducono alcuna novità nella tradizionale dottrina della Chiesa, in cui è sempre stata chiara la distinzione fra “peccato” e “peccatore”. La fermezza con cui la Chiesa condanna il peccato si accompagna sempre alla misericordia nei confronti del peccatore. Imitando il Dio che l’ha voluta, si potrebbe dire che la Chiesa odia il peccato perché ama il peccatore. Se infatti il peccato fa male, e non bene, a colui che lo commette, allora condannare il peccato significa avere a cuore il bene del peccatore.
Le cose, tuttavia, non sono così semplici. Nella storia del cristianesimo, e anche nella Chiesa attuale, troviamo infatti cristiani che insistono sulla condanna del peccato, accusando chi enfatizza la misericordia di essere “buonista”, e cristiani che insistono al contrario sulla misericordia, accusando chi accentua la condanna del peccato di essere come i “farisei”, troppo impegnati a denunciare la “pagliuzza” che è nell’occhio del fratello per accorgersi della “trave” che è nel proprio. Insomma: viene prima la condanna del peccato o l’amore per il peccatore?
La Bibbia e la tradizione della Chiesa, rivelandoci un Dio misericordioso, ci dicono che l’amore per il peccatore è più importante della condanna del suo peccato. Come scrive san Paolo, infatti, «Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm, 5, 7-8). Se non si mostra amore per il peccatore mentre è ancora peccatore, insomma, non si potrà mai condannarne il peccato senza dargli l’impressione, così facendo, di condannare anche lui. Questo atteggiamento, in cui la misericordia precede il giudizio e gli dà il giusto tono, è esemplarmente incarnato da Gesù di fronte all’adultera, alla quale egli si rivolge con queste parole: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più» (Gv, 8, 11). L’invito a non peccare, come si vede, viene dopo l’abbraccio misericordioso di Dio, non prima. Misericordia significa allora questo: l’amore di Dio non detta condizioni. Peraltro, solo se la misericordia di Dio mi raggiunge mentre sono ancora peccatore, l’invito a non peccare più riceve lo slancio che gli consente di essere accolto. Se fosse il contrario, se cioè l’ammonimento a non peccare e la capacità di ascoltarlo fossero la premessa, piuttosto che la conseguenza, del perdono divino, allora il cristianesimo non sarebbe un’esperienza di salvezza, ma un “contratto”, in cui si stabilisce che se l’uomo si comporta bene, Dio lo premierà, se invece si comporta male, Dio lo punirà. Al Dio misericordioso si sostituirebbe un Dio “notaio”, che distribuisce pene e ricompense. Le cose, fortunatamente, non vanno così. Dio non chiede la conversione per dare la salvezza, ma, al contrario, dona in anticipo la salvezza per suscitare la conversione. Un pensiero della mistica musulmana Rābi ‘a lo esprime con disarmante chiarezza:«Un uomo disse a Rābi ‘a: “Ho commesso molti peccati e molte trasgressioni: ma se mi pento, Dio mi perdonerà?”. Disse: “No. Tu ti pentirai se egli ti perdona”» (I detti di Rābi ‘a, a cura di Valdrè, Adelphi, Milano 2001, p. 37).
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