Recensione a “Socrate. Alla scoperta della sapienza umana” di Giovanni Reale.
Ed. La nave di Teseo, Milano 2019
Socrate l’incanto della parola
Una fascinosa ambiguità emana, ancora oggi, dalla persona di Socrate: esteriormente brutto, naso prominente, occhi sporgenti, labbra tumefatte, basso di statura; ma capace, come la torpedine marina di accendere luci riposte nelle anime di molti,; simile al Satiro Marzia, è però abile nel incantare l’uditorio non con la magia del flauto, ma con quella della parola breve e tagliente. Paragonato a un tafano, pungola il pigro destriero ateniese nel passaggio, tutto interno alla cultura orale e pur capace di annunciare quella scritta, da una dimensione poetico – mimetica, a una concettuale e dialettica del sapere.
Profondamente avvinto alla terra, eppure, proprio per questo suo legame ancestrale con la Polis, latore del messaggio di un Dio che vive nella conoscenza di se stessi, la sola accessibile all’uomo, intesa come sapere circa la Psyché – anima – fonte di intelligenza razionale, in una cultura intrisa di indagini cosmologiche e naturalistiche. Con il suo “Socrate. Alla scoperta della sapienza umana”, Giovanni Reale, uno dei massimi studiosi del pensiero antico, ci dona una nuova familiarità con questo filosofo, capace, pur senza lasciare testimonianze scritte, di imprimere una svolta alla riflessione occidentale, dopo la quale nulla sarebbe più stato come prima.
L’uomo non il cosmo o la vita “ultraterrena” sarebbe divenuto l’oggetto della filosofia in grado di ricordare, alla sofistica democraticista di ogni tempo, che vero dialettico non è chi vuole per forza avere ragione, ma chi sa soppesare le singole argomentazioni, vagliandone l’intrinseca coerenza. I suoi stessi discorsi, per come li riportano le diverse fonti, non sfuggono a questa feconda dualità: esteriormente parrebbero ripetitivi e banali, vi si parla di asini, di conciapelli, di artigiani in genere, sembra che si dicano sempre le medesime cose, sviscerando all’infinito ogni argomento fecondato dal seme della domanda; ma se li si penetra con la luce del intelletto accesa dalla comune ricerca, si scopre il loro contenuto più intimo e profondo.
Un contenuto che non è riducibile a una generica virtù etica pur presente, talora, come nel Socrate di Senofonte, dominante, ma si disvela nella prefigurazione del metodo ironico, fusione di vita e filosofia proprio di un uomo stravagante e per sua stessa ammissione.
Una domanda fondamentale: Socrate chi sei?
A travalicare i secoli è una medesima, martellante domanda: Socrate chi sei? Interrogativo che divise già le fonti, coeve e successive, suscitando un dibattito sul Socrate storico che dura fino ai nostri giorni tra chi ritiene impossibile conoscere qualcosa di certo sul filosofo; chi in un difficile concordismo cerca di far coincidere le varie testimonianze; e chi, come Reale, se ne serve senza farne prevalere nessuna, guidato da una suggestione evocativa che è opportuno richiamare.
Riflesse dagli specchi le luci più intense fendono lo spazio: dilatano alcuni particolari, lasciandone altri in ombra, ma, anche quando amplificano un dettaglio, ci aiutano a vederlo meglio. Oltre l’artificiale concordismo, sono le dissonanze a farci capire, nei limiti del possibile, chi fu Socrate, riflettendo valutazioni e sensibilità diverse nel recepimento e conseguentemente nella trasmissione di un messaggio oggettivamente rivoluzionario e quindi, per sua natura, divisivo.
Il nuovo sapere di Socrate: l’uomo è la sua anima
Proprio per la presenza di una narrazione polifonica e polimorfa, – ad avviso di Reale – alcune asserzioni possono essere ormai considerate come pacifiche, prima fra tutte questa: Socrate si presenta come l’amante, il mendicante, il cercatore di una sapienza che non parrebbe possedere; poi però approfondendo, si scopre che egli è l’amato, il ricercato, ma che la sua saggezza è assai particolare risiedendo nell’apparente ignoranza.
Resa fertile da una visione ironica del mondo e dello stesso uomo questa forma di conoscenza, diversamente dall’acqua, è incapace di passare spontaneamente da un recipiente pieno a uno vuoto: solo la filosofia, comune inesausta ricerca, può partorire un simile sapere.
Così l’ironia si fonde con la maieutica, arte di far generare non i corpi, ma le anime, se gravide di bellezza. Dissolta l’armonia greca intesa come esteriore proporzionalità tra le parti e delle singole sezioni con il tutto, il brutto Socrate può divenire l’amato, e i bei giovani sono amanti, perché, giova ripeterlo, ciò che rende migliori non è il corpo, ma l’anima: questa infatti può, se coltivata, porre rimedio alle infermità fisiche, mentre una forza solo esteriore non giova in alcun modo al perfezionamento interiore.
Il paradigma interpretativo di Reale e la questione del Socrate storico
Dal punto di vista delle fonti quello che Reale propone è un paradigma interpretativo alternativo al unilaterale privileggiamento del Socrate platonico proprio della visione tradizionale. Pur non misconoscendone il valore, soprattutto nel considerare l’apologia e la parte finale del simposio come testimonianze autentiche del Socrate storico, il filosofo cattolico valorizza anche le altre fonti: da Aristofane per cui come vedremo la maschera comica non può rappresentare un velo capace di ottundere completamente una possibile lettura ermeneutica; ad Aristotele che trasforma Socrate nello scopritore del concetto; fino a Senofonte con la sua lettura etica, e agli stessi socratici minori, capaci di illuminare aspetti particolari ma non irrilevanti.
Un dibattito tra le possibili letture del socratismo di cui converrà riassumere le linee fondamentali almeno degli ultimi due secoli. Al metodo storico- filologico di schietta matrice positivistica che rischia di rinserrarsi in una dimensione meramente documentale inadatta al carattere genetico del sapere filosofico, Reale preferisce quello storico- ermeneutico, capace di inquadrare ogni fonte nel suo contesto.
E sarà proprio il contesto in cui si muove Socrate, cioè quello del passaggio da un’oralità declinante ma ancora presente, alla cultura scritta, ad illuminare molte asserzioni circa il suo stesso pensiero. Alieno dall’idolatria del fatto è anche l’approccio teoretico prediletto dai filosofi che non si lascia guidare nella lettura socratica da un singolo evento o dalla molteplicità delle sue letture,ma da una storia delle idee capace di rintracciare alcuni elementi nodali del pensiero del autore esaminato, giungendo per questa via alla sua ricostruzione. Qui il rischio di cui essere avvertiti è quello che l’interpretante prenda il sopravvento sul filosofo di cui si sta discorrendo, un pericolo antitetico ma non meno insidioso del idolatria del fatto isolato in cui cadeva il filologismo, divoratore, nei suoi eccessi, della stessa storia delle idee.
Uno dei pregi più notevoli del testo di Reale è quello di restituire a ciascuna fonte la sua dignità interpretativa, cogliendo così l’aspetto positivo del metodo storico-ermeneutico. Operazione questa tanto più utile quanto più l’autore esaminato è sottovalutato dall’esegesi tradizionale.
Socrate nelle commedie di Aristofane: oltre la maschera
E’ questo il caso di Aristofane, un commediografo che mette in scena il filosofo in tre opere: le nuvole, le rane e gli uccelli. La maschera artistica ha tradizionalmente portato a far ritenere gli interpreti che quello preso di mira dal rappresentante dell’oralità poetico – mimetica, per sua natura araldo di quel sistema di valori che il protagonista del apologia voleva scardinare, fosse l’ideale del “filosofo illuminista”, e non la figura storica del maestro di Platone. Invece più che un mediocre amico, proprio questo grande avversario può dirci su Socrate qualcosa di decisivo: la cultura tradizionale mostra di aver subito l’urto del suo messaggio tanto da reagire con una violenta opposizione.
Identificare l’uomo con la sua anima e questa con l’intelligenza, significava per Aristofane ridurre ogni persona a una vana ombra che, servendosi delle parole, educava a confondere la ragione con il torto. Il mondo conservatore rappresentato dall’autore comico, mentre accomunava Socrate ai sofisti scorgendo in entrambi un sovvertimento dei valori tradizionali, coglieva un tratto del protagonista dell’apologia che il pensiero platonico era invece interessato a occultare, proprio per i suoi esiti metafisici ed ontologici.
Le altre fonti: Platone, Senofonte e Aristotele
La fonte Platonica ha rappresentato per secoli il punto di vista privilegiato per comprendere il nostro filosofo: i primi dialoghi, detti aporetici, in cui il maestro ha una funzione assai rilevante, paiono concordare, sia con la testimonianza più tarda di Aristotele, sia con quella di Senofonte.
Proprio partendo da questo accordo, possiamo ricostruire alcuni aspetti del Socrate storico che però possono essere rinvenuti anche in scritti più tardi, primo fra tutti il simposio. Se si eccettuano l’apologia e i primi dialoghi, quello che compare in opere posteriori è l’archetipo del vero dialettico: il filosofo che , secondo la narrazione platonica, scoprirà la dottrina delle idee o quella dell’anima tripartita, è già ben oltre il pensiero del maestro, rappresentando una sorta di maschera filosofica da cui però talora baluginano squarci di storicità.
Anche la veridicità storica dell’autore del anabasi – dal punto di vista che qui ci interessa- ha suscitato un vivace dibattito: alcuni pensatori tra cui Russell accreditano Senofonte come attendibile proprio perché, scarsamente dotato di originalità filosofica, non avrebbe potuto inventare ciò che ha scritto; altri, per la medesima ragione ne squalificano l’apporto.
Non meno vivace è la discussione su Aristotele che è stato usato da alcuni studiosi come fonte per discriminare quanto nell’insegnamento socratico appartenesse in realtà a Platone, ma i detrattori di questa tesi obbiettano non infondatamente che, non essendo contemporaneo del protagonista del apologia, lo Stagirita non sarebbe attendibile.
La questione delle fonti, oltre alla scelta, su cui torneremo, di non scrivere nulla, delimitano, per quanto possibile, il profilo del Socrate storico, resta inevasa la domanda sul filosofo, ed anche qui, ermeneuticamente è il contesto,ad aiutarci nella ricerca di una risposta necessariamente polimorfa. Si tratta, come abbiamo visto, nel rapporto tra il pensatore apparso ne le nuvole e quello protagonista dei dialoghi platonici, di far interagire le due prospettive, essendo consapevoli del fatto che, pur se quantitativamente e qualitativamente diverse fra loro, rivelano aspetti complementari.
Una possibile lettura del Socrate filosofo. la conoscenza di se stessi ed il primato dell’anima
Se per filosofia si intende un sistema codificato tramite la scrittura, organico e formale come quello affermatosi con la cultura moderna, allora si può ben dire che Socrate non sia un filosofo, riducendone l’insegnamento a una sorta di saggezza pratica.
Ma una simile asserzione non tiene conto della simbiosi che gli antichi istituivano tra vita e pensiero in cui la prima invera il secondo, giungendo, proprio nella figura di Socrate, alla testimonianza suprema con la condanna a morte e il rifiuto di una possibile fuga. Il protagonista del apologia non discuteva di questioni naturalistiche ne lo interessavano congetture su realtà estranee alla vita terrena: gli bastava conoscere se stesso, come aveva vaticinato l’Oracolo di Delphi. E questo paradossale sapere, il più arduo da conquistare e da mantenere, rientrava proprio nell’orizzonte, tipico del apologia platonica, di un “vivere filosofando” che allude icasticamente alla circolarità tra riflessione e dimensione biografica.
Non si trattava, infatti di un ripiegamento solipsistico ma di acquisire una tensione etico- politica- , in cui , proprio la conoscenza di noi stessi, ci rende attenti ai bisogni degli altri. L’immagine platonica della pupilla, capace di riconoscersi solo guardando un altro occhio perché simile a se, alla stregua dell’anima che intuisce in lei stessa il divino, è certo storicamente oltre Socrate, ma mentre allude alla dimensione intersoggettiva della filosofia, non si contrappone necessariamente al messaggio del maieuta.
Condannato a morte, il protagonista del apologia avrebbe potuto salvarsi, a condizione che non avesse filosofato più. Ma il pensatore si rifiuta di farlo perché per lui filosofia e vita coincidono, tanto che un’esistenza senza ricerca non sarebbe degna di essere vissuta, perché ricerca è la vita stessa.
La sapienza umana ha poco valore, perché solo saggio è il Dio: tra i mortali, non sfugga l’ironia di questa affermazione, sapiente è solo colui che, come Socrate, sa di non sapere, mentre stolto è colui che credendo di conoscere in realtà ignora anche ciò di cui si dice esperto. Il continuo, incessante domandare del filosofo travolge con la dialettica la presunta scienza dei poeti – possessori di ispirazione più che di scienza -; dei politici – trovandoli manchevoli-; degli artigiani che, pur se esperti in un certo campo tendono ad estendere ad altri ambiti la loro perizia, fallendo miseramente.
Il nuovo pensiero maieutico e il passaggio dall’oralità poetica a quella dialettica
Anche per questa via il nuovo pensare maieutico si colloca al centro di un ideale arco, in cui si inscrive la stupenda avventura dell’Ellade, cercatrice e amante della sapienza. È questo arco che occorre interamente esplorare, per comprendere la stessa scelta socratica di non scrivere nulla senza derubricarla ,come ha fatto Nietzsche, a conseguenza del suo non sapere.
Ci si addentra così , in un circolo ermeneutico, uscendo da quel primato della parola scritta che connoterà il sapere filosofico occidentale: nell’Atene socratica, la voce era il luogo di elaborazione e di trasmissione della cultura, tanto che le stesse opere venivano declamate. Un arco, si diceva ,alla cui prima estremità si colloca l’oralità poetico – mimetica -: suo strumento è il verso formulare che favorisce sia la conservazione mnesica, sia, conseguentemente la trasmissione collettiva di una cultura statica con gesta di dei ed eroi quasi sottratte al tempo e allo spazio eppure paradossalmente capaci di abitarlo.
Declamate da aedi e rapsodi fin dai tempi dei poemi omerici, queste gesta erano la voce della civiltà stessa: le si sentiva in famiglia dagli anziani ma anche nelle occasioni pubbliche facendo leva sull’immedesimazione e quindi sull’imitazione. Alcuni filosofi naturalistici primo fra tutti Democrito – contemporaneo di Socrate- affidavano ancora alla poesia e conseguentemente all’oralità il loro pensiero; lo stesso Parmenide – anteriore al Maieuta – benché avesse riflettuto per primo sulla radicale disgiunzione tra essere e non essere, con tutte le sue implicazioni teoretiche, compose un poema.
La transizione verso una cultura scritta, suoi riverberi in una società ancora caratterizzata dall’oralità
La scrittura inizierà a imporsi a partire dal IV secolo a.C. conservando però quale genere filosofico il dialogo cioè il meno lontano dalla cultura orale tanto da rendere ancora possibile la declamazione delle opere che infatti, parallelamente al lento diffondersi della parola fissata su tavolette d’argilla, proseguirà per secoli. Lo stesso Socrate,- nato attorno al 470 a.C -. pur assistendo nella seconda parte della sua vita alla graduale introduzione della grafia , svolse la sua attività in una dimensione orale: suo strumento non erano i materiali diversi su cui incidere lettere, ma la piazza del mercato e le botteghe degli artigiani, in cui pullulava un confronto incessante.
Eppure proprio la rivoluzione socratica che fa sorgere l’oralità concettuale e dialettica, più adatta a riferire il dipanarsi dell’argomentazione, preparerà la diffusione della scrittura che, dopo di lui, sarebbe divenuta il mezzo di conservazione delle sue stesse idee. Si tratterà di un processo assai lento che, secondo quanto affermano gli studiosi della comunicazione in età antica potrà dirsi completato solo in ambito neoplatonico, circa 300 anni dopo la morte di Socrate, avvenuta nel 399 a.C.
Si colloca qui, cioè in un contesto cronologicamente ed idealmente lontano da quello che stiamo esaminando, la seconda estremità dell’arco cui si è accennato configurando così una centralità socratica non solo dal punto di vista diacronico, ma anche da quello dei contenuti.
Il nascere all’interno della stessa cultura orale, di un pensiero concettuale ed astratto, ha provocato la crisi del linguaggio poetico basato sull’immagine: nella parola tramandata grazie alla memoria ogni termine era unito al soggetto; mentre nel pensiero concettuale- vera innovazione socratica- ciascun lemma assume un significato autonomo che la scrittura si incaricherà di fissare.
L’oralità dialettica mostra l’insufficienza di una definizione, destando il linguaggio dal sogno poetico: se penso ad Achille, non necessariamente mi identifico con lui, anzi, me ne debbo separare, individuandomi come colui che riflette su qualcuno considerato come altro da se. Anche dal punto di vista formale questo mutamento di paradigma implica alcune conseguenze: l’oralità dialettica e concettuale mostra l’inidoneità dei costrutti paratattici, valorizzando invece la sintassi, più idonea a individuare le inferenze logiche, mentre alle fascinose descrizioni di cose – lo scudo di Achille – ed eventi- l’inganno del cavallo che consentirà agli Achei di entrare a Troia – si sostituiscono le loro categorizzazioni definitorie – cosa è un cavallo?- miranti cioè ad attingerne la natura propria, oltre esemplificazioni particolari, quindi insufficienti.
Si tratta di un rilevantissimo guadagno teoretico che risiede nel passaggio dalla molteplicità all’unità capace di sussumere più esperienze particolari in una definizione generale: la dialettica – intesa come metodo- implica un modo di pensare autonomo, fondato sulla cosa stessa e proprio da tale autarchia del pensare discenderà la scienza intesa come generalizzazione, naturalmente con tutti i necessari mutamenti di paradigma che condurranno progressivamente a questa concezione.
L’identità tra virtù e scienza
Nonostante questa notevole acquisizione teoretica, occorre non perdere di vista il contesto dell’Ellade classica in cui Socrate operò. Il nostro concetto di scienza è assai lontano dalla mentalità dell’Atene del V secolo a C. è proprio l’identità etica tra episteme- scienza- e aretè – virtù- può palesare tale distanza.
L’uomo – lo abbiamo più volte sottolineato- è la sua anima, ma esiste una parte più bella della psiche il cui ruolo , successivamente tematizzato in Platone, inizia a profilarsi già nel Socrate storico: si tratta di quella sezione che esplicitamente mira a conoscere la virtù, condizione necessaria e sufficiente per la sua effettiva realizzazione. Con questa tesi ci collochiamo nel cuore del messaggio socratico, in seguito, soprattutto da parte di autori cristiani, accusato di intellettualismo, in quanto misconoscerebbe il ruolo della volontà nell’agire morale.
Il filosofo, infatti postula da un lato l’identità tra virtù e scienza, dall’altro quella, logicamente derivata, tra vizio e ignoranza. Nessuno, secondo questo paradigma, commetterebbe il male in modo volontario, ma unicamente per un difetto di conoscenza del vero bene. Al netto di lievi differenze, le fonti paiono concordare su questo punto che va però compreso ermeneuticamente, anche perché parrebbe collidere con la mentalità dell’uomo moderno che quotidianamente si imbatte in episodi, amplificati nei mille riverberi delle cronache, in cui il male parrebbe scelto, nonostante se ne conosca perfettamente la natura.
Per capire la paradossale affermazione socratica occorre svellerci dal nostro modo abituale di giudicare al fine di attingere il senso che alle parole scienza e virtù attribuiva l’uomo della grecità classica. In un simile orizzonte culturale il ruolo delle singole facoltà e componenti dell’agire umano non era ancora ben distinto, essendo proprio con Socrate, che inizia il lungo processo genetico e teoretico che porterà alla scoperta dell’uomo morale. Ancora ai suoi tempi da un lato non si valutavano, i moventi arazionali delle azioni e dall’altro si possedeva una diversa nozione di scienza. La scienza con cui la virtù coincide, non è una qualunque tecnica che si acquisisce sperimentando per prove ed errori, ma una facoltà che, guidando l’animo umano, rende buone le sue azioni.
Nel nostro orizzonte ermeneutico, invece, la conoscenza del bene è condizione necessaria ma non sufficiente per operare moralmente , proprio per il ruolo della volontà e più in generale per una diversa valutazione dei fattori alogici implicati nelle azioni umane: si pensi, solo per fare un esempio ,a tutti i moventi legati alla sfera delle emozioni, il cui ruolo è tradizionalmente sottovalutato dal pensiero antico e medioevale. Ma per acquisire nuove categorie sarà necessaria la rivoluzione cristiana che, tematizzando il concetto di peccato, porterà alla scoperta della volontà e quindi a una conseguente riduzione del peso della ragione quale movente dell’azione morale.
Il Daimon: una strana voce che suggerisce cosa non fare
Il primato dell’azione morale si configura in Socrate come uno dei plessi più rilevanti del mondo umano, su cui la filosofia deve concentrare la sua attenzione teoretica. In questa avventura il protagonista dell’ apologia non è però solo: narra infatti, proprio nell’opera in cui si difende dalle accuse dei suoi concittadini, di aver udito, fin dalla sua giovinezza una voce che definisce daimon. Variamente interpretata dai diversi studiosi, anche a seconda della loro appartenenza culturale, questa voce lo dissuadeva dal compiere un’azione che il filosofo era in procinto di fare, senza mai però impartire ordini in positivo, lasciando così impregiudicato lo spazio della libertà morale.
Quella stessa libertà che, accusato ingiustamente di ateismo egli affermerà preferendo morire obbedendo alle leggi che vivere violandole. Il daimon, se non è certamente un essere personale, può tuttavia rappresentare un segno del Dio, capace di offrirsi agli uomini come provvedenti. Una provvidenza che il filosofo vede nel aver dotato l’individuo del linguaggio grazie al quale ogni acquisizione diviene comunicabile, o dell’aver provvisto per lui cibi, non solo necessari, ma anche dilettevoli. La voce, non interviene tuttavia mai nell’ambito della sapienza umana in cui resta sovrana quella filosofia, intesa alla stregua di una comune ricerca, che il maestro di Platone amò più della vita stessa.
Il messaggio di Socrate è una sorta di vangelo terreno, le cui buone notizie sono addirittura due: la prima è che il dio non premia e non castiga, trovando il giusto la sua ricompensa già su questa terra; la seconda è che all’uomo virtuoso non accadrà niente di male, se persino la stessa morte può essere concepita come una sorta di viaggio verso un luogo migliore di questo, in cui interrogare per sempre eroi e poeti sulle loro imprese.
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