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Cancellare il passato aiuta a vivere il presente?

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Photo by Michael Dziedzic on Unsplash

Dal pluralismo democratico alla società dell’omologazione

In un’epoca in cui tutto sembra andare storto e ogni nostra certezza messa in discussione, pare che le risposte non debbano più pervenire dal pensiero critico o dal genio creativo. L’egemonia culturale sembra sia, infatti, prevalentemente preoccupata dalla necessità di una omologazione che arriva persino a giustificare la cancellazione e la rimozione di tutto ciò che non sia conforme al pensiero dominante.

Così, dinanzi alle questioni irrisolte e ai problemi emergenti, l’uomo di oggi, più che mettersi alla ricerca di soluzioni che tengano conto dell’esperienza del passato, dovrebbe limitarsi a “cancellare” e “rimuovere” tutto ciò che egli stesso reputi sia andato storto.

La tendenza, infatti, è quella di scrollarsi di dosso ogni responsabilità di eventuali rigurgiti del passato, rinunciando alla comprensione delle cause, alla ricerca della verità storica, se mai sbrigativamente rimpiazzate da ormai sterili giornate celebrative.

La cancel culture si presenta, infatti, come un modo comodo e rassicurante di fare cultura, nella misura in cui sembra dispensare dalla fatica di una seria analisi del contesto storico. Per scongiurare la possibilità che gli errori del passato possano ripetersi, non è più necessario analizzarli e rintracciarne le cause: basta esprimere simbolicamente il proprio dissenso, ad esempio imbrattando monumenti o abbattendo statue e in tal modo si sarebbe già preso distanza da un passato che, in fondo, più che comprendere si intende ignorare.

Una nuova forma di iconoclastia diviene lo strumento di questa presunta pacificazione con il passato, come se il nostro tempo non fosse più nemmeno in grado di tenere distinto il valore estetico e artistico di un’opera d’arte, dall’evento storico che con essa si intende rappresentare.

Il presentismo di un uomo senza passato e senza futuro

Si tratta di un’operazione apparentemente banale che però, sembra volerci portare in una direzione ben diversa da quella della ricerca della verità storica. L’idea è che non serva più ascoltare il passato per capire il presente e che l’unico modo per comprendere un evento storico sia quello di decontestualizzarlo e di reinterpretarlo alla luce di ben precise categorie del presente.

Il presente diviene così l’unico parametro di riferimento in base al quale stabilire cosa del passato “meriti” di essere salvato. Tutto il resto è destinato a perdere inesorabilmente rilevanza storica, ad essere misconosciuto se non appunto cancellato, attraverso un’opera di rimozione che, per quanto simbolica e fittizia, pretende di assolvere da ogni senso di colpa e da ogni possibile responsabilità presente e futura.

Insomma, la cancellazione sarebbe l’unica via per emendare gli errori del passato e per deresponsabilizzarsi da un loro eventuale ritorno. Non è più il passato che rende possibile la comprensione del presente, ma al contrario il presente che diviene la chiave di lettura del passato. Il passato – non più spazio logico-temporale che rende possibile l’esperienza, fonte prima di conoscenza – lascia così il posto a un presente che, pur privo di comprensione storica, viene legittimato a “setacciare” il passato per salvarne solo ciò che di esso appaia congruente il presente.

Una sorta di damnatio memoriae è lo strumento per rimuovere dalla memoria collettiva tutto ciò che si discosti dal pensiero dominante o che osi metterlo in discussione. In tal modo la “cultura della cancellazione” assolverebbe ad una funzione taumaturgica e salvifica votata al riscatto della storia dell’umanità.

Ma è proprio così? In realtà, solo uno storicismo ingenuo può pensare di riscrivere la storia a partire da un’assolutizzazione di determinate categorie del presente che, se mai, ci riconsegnerebbe una riscrittura parziale e riduttiva della storia, inevitabilmente strumentalizzata in funzione di una determinata ideologia.

Cancel culture e politically correct: la cancellazione dello spazio del pensiero critico

Non a caso è il politically correct l’altra faccia della medaglia della cancel culture. Il politicamente corretto, infatti, servendosi della cancellazione per imporre la sua egemonia, mostra in realtà la sua incapacità di capire che ogni epoca ha i propri parametri e che non può esistere un giudice finale e definitivo di ogni epoca e cultura, a meno che non si sia disposti a barattare i giudizi storici con i pregiudizi.

Accanto alla cancellazione intesa come revisionismo storico, vi è inoltre una cancellazione in senso stretto, che non guarda al passato ma al presente e che mira a stigmatizzare persone o cose. La cancellazione in questo caso si manifesta come messa al bando, isolamento, screditamento e boicottaggio. Recentissimo il caso della russofobia che si è tradotta in un vero e proprio ostracismo nei confronti di ogni forma ed espressione della cultura russa, improvvisamente divenuta un tabù.

Dal caviale alla vodka, dai corsi di letteratura russa ai direttori d’orchestra, dagli atleti ai musicisti, non c’è ambito in cui non sia giunta la furia discriminatoria di un potere che sembra puntare tutto sull’odio sociale e che banalmente ritiene che basti essere russi per meritare l’esclusione da ogni dove.

Davanti a questo delirio, rimane da chiedersi se davvero sia possibile definire culturale un progetto che, se mai, della cultura si occupa solo per rimuoverla. La cultura della cancellazione si rivela infatti più che come cultura, come progetto di cancellazione delle culture, in vista della preservazione dell’unica cultura possibile, quella dell’omologazione incondizionata. Non esiste altra via d’uscita: o ci si conforma al pensiero dominante o si viene etichettati come complottisti.

Per queste ragioni, la cultura della cancellazione costituisce di fatto una grave minaccia per una società libera e democratica. Ciò che di fatto viene cancellato non è infatti certo l’errore storico, ma quello spazio intermedio tra conformismo e complottismo, che è lo spazio della libertà di espressione e del pensiero critico.

La paideia dell’errore e il recupero del suo modello educativo

La rimozione simbolica dell’errore non solo non serve a cancellare l’errore storico, ma priva inoltre l’umanità della memoria storica degli errori stessi, ossia della valenza pedagogica della memoria dell’esperienza dell’errore. Non è un caso che anche la psicanalisi abbia individuato nella rimozione, il primo vero ostacolo all’elaborazione del trauma. Se tutto ciò è vero, allora non possiamo non considerare un simile progetto incompatibile con un modello educativo che voglia servirsi della paideia dell’errore.

Fino a non molto tempo fa, infatti, sarebbe stato inimmaginabile un progetto educativo che prescindesse dal riconoscimento dell’errore, come passaggio fondamentale dell’apprendimento attraverso l’esperienza. Oggi invece si fa leva proprio sull’ignoranza del passato che, oltre a privare le nuove generazioni di una paideia, li predispone a quella crisi identitaria che favorisce omologazione adattiva e conformismo.

L’idea di poter fare a meno di precisi riferimenti culturali della nostra storia del passato, di rinunciare ai simboli e alle nostre tradizioni, sta di fatto progressivamente causando quel vuoto identitario che è premessa prima del nichilismo. La mancata elaborazione del passato non solo spesso rende incomprensibile il presente, ma si pone come ostacolo alla progettazione del futuro. È difficile, infatti prefigurarsi il futuro, quando si è privi della memoria del passato.

Quando la storia non è più maestra, risulta infatti difficile, se non impossibile ricordarci chi siamo e a cosa apparteniamo. Il presente diviene così l’unica dimensione temporale possibile. Un presente che non ha più nulla a che fare con la presenza e la consapevolezza, ma che è l’unico spazio possibile per un individuo che non ha radici, né deve mettersi alla ricerca di esse. Una propaganda martellante, scandita dai continui slogan, incita a vivere solo in questa dimensione: “Vivi il presente”, “Life is now”, “Non esiste altro tempo che questo meraviglioso istante!”.

È giunto dunque il momento di comprendere il pericolo di considerare “cultura” un progetto che di fatto di culturale ha ben poco, se non niente e di rilanciare la conoscenza della storia contro l’ignoranza del passato che priva della possibilità del futuro. Un vero progetto culturale oggi non può che contrapporre alla rimozione, il rilancio di una nuova consapevolezza di ciò che siamo, della nostra identità culturale, perché da questa dipende il riconoscimento dell’appartenenza e il rilancio del valore della comunità. In un paese antico come l’Italia, che non si distingue certo come potenza economica, tecnologica o militare, la vera ricchezza è legata proprio ai lasciti della sua storia, alle sue grandi imprese, al genio creativo dei grandi che l’hanno
segnata.

È necessario far capire i giovani che se cancelliamo tutto questo, cancelliamo noi stessi e che per liberarsi dagli errori non basta cancellarne la memoria. Occorre recuperare un progetto educativo che sappia educarli alla vita come processo storico e tornare all’insegnamento di Vico, secondo cui ogni ricorso comprende e al tempo stesso supera in sé il corso precedente, perché ne è completamento e sviluppo.

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