Letture di uno scenario di violenza
Si sono date interpretazioni diverse della vicenda di Peschiera sul Garda, che, il 2 giugno, ha visto sei ragazze tra i 16 e i 17 anni pesantemente molestate, su un treno regionale, da una banda di giovani nordafricani. In tutte è stato tenuto presente l’evidente collegamento con quella della notte di Capodanno, in piazza Duomo, a Milano, dove una decina di altre ragazze sono state oggetto di analoghe violenze, anche qui da parte di immigrati di seconda generazione di origine nordafricana.
Qualcuno, come la senatrice Dem Valeria Fedeli, ha anche esteso il quadro includendovi le molestie sessuali verificatesi durante il raduno degli alpini a Rimini, l’11 maggio scorso e vi ha letto un episodio di «violenza di genere». In questa prospettiva Michela Marzano ha parlato di una «cultura dello stupro» comune ai tre episodi. Dove la preoccupazione evidente è stata di evitare che i fatti di Peschiera venissero considerati in chiave politica per rinnovare le polemiche contro l’immigrazione.
Come ha fatto, peraltro, la stampa di destra, sottolineando che gli aggressori di Peschiera ripetevano frasi come «le donne bianche non salgono su questo treno». Da qui la conclusione: «È stato un assalto etnico da parte di una comunità omogenea» (Pietro Senaldi, «Libero», 8 giugno 202). Entrambe le letture contengono elementi di verità, ma appaiono insufficienti. Non si può semplicemente omologare ciò che è accaduto sul treno di Peschiera alla vicenda di Rimini, l’11 maggio scorso. Diverso, sia per età che per origine, il tipo di aggressori. E diverso il contesto.
Quelli sul treno di Peschiera erano reduci da un raduno non autorizzato di 2.500 ragazzini, tenutosi lo stesso 2 giugno sul lungolago, dal titolo “L’Africa a Peschiera del Garda” . Un’ammucchiata convocata con un invito virale su TikTok, trasformatasi in un rave party al grido «Comanda l’Africa» e degenerata, alla fine, in una maxi-rissa. Su questa scia l’episodio del treno.
Anche l’interpretazione di «Libero», però, dimentica un aspetto fondamentale, che è quello dell’età e della composizione del gruppo dei molestatori di Peschiera, quasi tutti minorenni e solo «per la maggior parte nordafricani». Come in piazza del Duomo.
Se si guardano le cose tenendo conto di questi fattori, si è costretti a andare più a fondo nella comprensione di ciò che è accaduto. Probabilmente, che dei figli di immigrati, pur godendo ormai della cittadinanza italiana, si trovino a celebrare l’Africa da cui i loro padri sono fuggiti a rischio della vita, non rivela tanto una volontà di conquista da parte di un gruppo etnico, ma un disagio profondo, di cui questi ragazzi sono prima di tutto vittime. Un disagio culturale, innanzi tutto.
Figli di un mondo in cui essi ormai non si possono più riconoscere – si pensi al modo di concepire la vita familiare e il rapporto tra i sessi – e rispetto al quale vivono ogni giorno in conflitto con i loro genitori, ancora in qualche modo appartenenti ad esso, questi giovani non si ritrovano neppure nei modi di pensare e di vivere della nostra società. Sono, nel senso più profondo, spaesati.
A questo malessere radicale si aggiunge, solitamente, quello economico. Questi ragazzi crescono in desolate periferie – sono state ricordate, a loro proposito, le banlieue francesi, in cui pure sono scoppiati fuochi di rivolta negli ambienti degli immigrati di seconda generazione – , stentano a trovare lavoro, ad avere luoghi di svago, a condurre la vita che forse i loro padri, venendo in Italia, avevano sperato per loro.
Per questo, paradossalmente, sognano un’Africa immaginaria. Per questo si scatenano in gesti di gratuita e provocatoria violenza contro una società che non li accoglie, interpretando la sessualità in chiave di rivendicazione di potere nei confronti degli elementi più vulnerabili di questa società.
La protesta violenta degli “scarti”
Quello che non si dice, nell’analisi politically correct della sinistra che in quella tendenzialmente razzista della destra, è che il vero problema evidenziato dagli episodi di Milano e di Peschiera del Garda è quello del diffondersi della violenza giovanile.
Secondo l’Osservatorio Nazionale sull’adolescenza, istituito presso il Ministero per la famiglia, il 6,5% dei minorenni fa parte di una banda, il 16% ha commesso atti vandalici, mentre tre ragazzi su dieci hanno partecipato a una rissa. A Napoli, a Roma, a Milano, adolescenti senza studi e senza lavoro cercano nel branco della baby-gang l’orgoglio dell’appartenenza e, spesso, la voglia di riscatto e la fuga da un presente senza prospettive.
«Alla base di tutto» – secondo don Gino Rigoldi, storico cappellano dell’istituto penale per minori “Beccaria” – «c’è l’esibizione violenta, per affermarsi, per mostrare di esistere vessando il più debole». C’è un malessere profondo del mondo giovanile, di cui le violenze sono solo manifestazioni. È di questo malessere che bisogna prendere coscienza. Se ci apriamo a questa prospettiva, il quadro si dilata ben oltre la discriminazione degli immigrati di seconda generazione e include larghe fasce di giovani di origine “italianissima” che non sono meno sradicati ed emarginati dei loro coetanei nordafricani.
Si tratta di ragazzi che spesso hanno alle spalle famiglie sfasciate o comunque incapaci di dar loro un orientamento etico, che con la scuola mantengono un rapporto precario o addirittura saltuario – reso ancora più problematico dal Covid e da una DAD che richiedeva agli studenti una forte motivazione – , che non frequentano la parrocchia né vengono cercati da essa. Direbbe papa Francesco, “scarti” che la società non degna della sua attenzione e che rispondono con la loro rabbia all’indifferenza delle istituzioni.
L’emergere dei singoli
Ma si sarebbe fuori strada se si credesse di poter tracciare un netto confine tra questi ragazzi “sbandati” e quelli delle famiglie “bene”. In realtà il malessere giovanile a cui alludevamo prima non è ristretto alle fasce sociali più svantaggiate. Prima di essere sociale, la crisi è umana e culturale e non risparmia i figli di papà, anche se è più raro (ma non escluso) che compiano gesti di esplicita violenza o facciano parte di una banda criminale. Anch’essi, però, vivono spesso un “analfabetismo emotivo” che rende loro problematico un buon rapporto con se stessi e con gli altri.
La verità è che il venir meno, in questi ultimi decenni, dei vecchi quadri valoriali che, anche a costo di un certo margine di ipocrisia, tenevano insieme le comunità – la famiglia, la società politica, la stessa Chiesa – ha determinato una situazione radicalmente nuova, che ha i suoi aspetti positivi, ma anche un prezzo.
I primi si possono individuare facilmente in una maggiore valorizzazione dei singoli, con la loro identità, le loro esigenze, i loro diritti, spesso soffocati, in un passato non molto remoto, e ora invece posti in primo piano. I giovani sono i primi ad essersi avvantaggiati di questa nuova situazione. Non sono più sottomessi a un padre-padrone, godono di una libertà sconosciuta ai loro nonni e in parte anche ai loro genitori, tendono ad interpretare la loro vita come una esperienza di fioritura, piuttosto che di imposizioni esterne e di doveri.
Il prezzo di tutto questo è stato però lo sfasciarsi, o almeno l’indebolirsi, delle strutture che permettevano alle persone, e in primo luogo ai più giovani, di crescere in un contesto dove avevano dei saldi punti di riferimento. Oggi siamo consapevoli che ogni singolo deve poter definire, in un processo incessante, la propria storia. Ma questo comporta una inevitabile svalutazione dei ruoli precostituiti.
Così, i giovani da un lato sono precocissimi nello sviluppare le loro inclinazioni e la loro autonomia di giudizio e di azione rispetto agli adulti, dall’altro vivono una insicurezza e una fragilità senza precedenti. Sono costretti a dimostrare, a se stessi e agli altri, di esistere davvero. Per questo compiono atti a volte inconsulti. Per questo postano su Internet i video con le loro gesta, quasi che l’essere visibili in rete garantisse alle loro esperienze una verità che in sé non avrebbero.
Anche qui, in modo diverso che per i figli degli immigrati, c’è uno “spaesamento”, che assume forme e sfumature molto diverse – anche di creatività e di arricchimento (“trasgressione” deriva dal latino trans gredire, “andare oltre”), di cui la violenza è una possibile conseguenza.
Prenderne coscienza è la condizione per poter in qualche modo far fronte al problema, non certo con la pretesa di risolverlo, ma senza essere sviati da analisi parziali e faziose. Si può fare qualcosa per i giovani solo se si smette di criticarli e si riprende coscienza delle responsabilità degli adulti verso di loro. Il mondo che stiamo loro offrendo non è quello di cui avevano bisogno e ce lo fanno sapere con gesti a volte inconsulti, ma significativi.
Bisogna ristabilire un’alleanza non solo tra le agenzie educative, ma innanzi tutto con loro. Il primo passo, per gli adulti, è mettersi in ascolto. Il secondo, rimettersi in discussione. Il terzo, far emergere dei valori comuni sulla cui base intendersi. Non è una ricetta. Non esistono ricette. Ma sono dei primi passi da fare, se si vuole costruire un futuro diverso.
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