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Recensione a “Platone. Alla ricerca della sapienza segreta” di Giovanni Reale

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Recensione a “Platone. Alla ricerca della sapienza segreta” – Ed. La Nave di Teseo, 2019

appunti-sul-timeo-di-platone_890a0bb023b8eab92d920dab5d8fe2cf.jpgPlatone: un piccolo cigno cantore di un’umanità rinnovata.

Un piccolo cigno, nato nello stesso giorno di Apollo, solca i cieli dell’Ellade: è un Platone ancora implume che, lasciate le ospitali ginocchia del maestro Socrate, avvertirà la vocazione a riplasmare l’educazione dei fanciulli e conseguentemente la stessa politica, in una nuova dimensione della Polis attica, finalmente figlia dell’oralità dialettica.

Lo accoglierà un’Atene certo rinnovata, ma non immemore del lascito, criticamente rielaborato, di un passato contrassegnato da una verbalità mimetica e aedica che sopravvive nelle forme del mito e della poesia, finalmente congiunte al sapere concettuale.

Il Socrate che discorre nel “fedro” affida anche alla potenza evocatrice del racconto, non scevro da accenti lirici, la sua dottrina dell’anima, simile a un carro con due cavalli, simboli delle sue opposte tendenze guidato da un auriga che rappresenta la ragione. Non dunque il mito e la poesia sono condannati dal filosofo, ma unicamente la loro versione omerica cui, mentre è ancora in corso un rilevante mutamento di paradigma, si concede l’onore delle armi.

A soppiantarla non sarà unicamente una ragione inferenziale, ma un pensiero polare che -come vedremo oltre- comprende da un lato la dialettica, capace di ragionare tramite i concetti, dall’altro lo stesso mito, assimilato da un punto di vista formale a un riflettere per immagini, e contenutisticamente plasmato per alludere più efficacemente a realtà escatologiche, o a temi eticamente rilevanti come il destino dell’uomo.

Appare quindi almeno unilaterale la parabola del pensiero moderno che ha descritto la filosofia alla stregua di una progressiva emancipazione dal mito, mentre oggi, proprio il carattere penultimo di alcune verità scientifiche, ripropone l’attenzione su questo genere letterario dotato di un’inarrivabile forza narrativa.

Come il lento incedere della parola scritta non abbatte l’oralità, ma sostituisce al pensare tramite immagini quello concettuale; così la ragione argomentativa, pur prediligendo la prosa dialogica,  non svelle dal suo orizzonte il mito e la poesia omerica nonostante li valuti negativamente. Anzi il nuovo pensare concettuale preferisce volgere a suo vantaggio la stessa potenza evocatrice del racconto mitopoietico.

Un classico attuale riletto dal filosofo Giovanni Reale

Anche per queste vie impervie e affascinanti, il classico Platone, oltre a mettere in luce l’importanza dell’educazione, vera maieuta di ogni riforma umana – quindi  anche politica -; insegna, soprattutto alle odierne culture dell’abrasione, che il passato non si cancella, ma va rielaborato criticamente.

Nella visione di Giovanni Reale è questa la “sapienza segreta” di cui l’autore del “Fedro” è latore, secondo una lettura che, proseguendo quella della scuola di Tubinga, privilegia le così dette dottrine non scritte nell’ermeneutica platonica.

Scrittura e oralità: una lettura pedagogica della “repubblica”

Secondo tale interpretazione esistono delle “cose di maggior valore” che, non potendo essere fissate in caratteri, vanno incise nelle anime degli uomini in quell’indescrivibile magia che è l’esperienza di ogni autentico insegnamento, temprato dalla vita e dalla ricerca comuni.

Una lettura, quella di Reale, che propone l’affascinante fatica di ripensare opere come la “Repubblica” da leggersi, senza farsi fuorviare dal suo stesso titolo, in chiave pedagogica più che politica. In questa avvincente visione il primato di un’educazione rinnovata fonda, oltre ogni pur presente atteggiamento utopistico una città salda come autorevoli interpreti del nostro filosofo, primi fra tutti Vico e Rousseau, avevano intravisto.

E se una tale costruzione non può realizzarsi nella dimensione storica, deve comunque temprare l’anima del filosofo, chiamato a dirigere la polis.

Platone fu mitologo e poeta perché filosofo

Platone a differenza di Socrate, che compare come protagonista di molti suoi dialoghi, scelse di scrivere, ma non gli sfuggivano i rischi esiziali, proprio per quel nuovo pensare concettuale, che egli voleva diffondere, di una socialità basata anche su grafemi.

Fu poeta di inarrivabile grandezza, pur se conscio delle manchevolezze del mondo epico, capace, al pari della tragedia, di corrompere i giovani; fu mitologo tanto da considerare una delle sue opere maggiori la “Repubblica” alla stregua di un grande racconto, ma non gli sfuggirono i limiti dell’antropomorfismo omerico, limiti acuiti da un contesto irripetibile in cui si incontravano la declinante oralità poetica, una ragione dialettica che si stava gradualmente affermando, parallelamente al lento incedere della scrittura.

Oltre una filologia intrisa di positivismo Reale ci guida nella lettura di un contesto unico

Un simile meticciato culturale, riconosce Reale, è magistralmente delineato nel libro ”Cultura orale e Civiltà della scrittura, da Omero a Platone” del filologo inglese Ellis Havelock che però, facendo proprio un riduzionismo di matrice positivistica, attribuisce al sorgere della scrittura e non a un progressivo mutamento interno al paradigma dell’oralità, la stessa rivoluzione platonica.

Introdotta a partire dal VIII secolo a.C., la grafia fu a lungo usata unicamente per scopi pratici, coesistendo con la cultura orale: in una società in cui la mimesi poetica composta e trasmessa mnesicamente mediante il verso formulare, rappresentava ancora quel sostrato di valori essenziali alla coesione educativa della stessa civiltà ellenica.

Per questo l’attenzione dei filologi, secondo Reale, non può centrarsi solo sul reperimento di documenti scritti, ma deve necessariamente tenere conto che il lento passaggio da una cultura analfabetica a un alfabetismo di corporazione, non ha consentito, almeno fino alla seconda metà del IV secolo a. C., la nascita di quel pubblico di lettori che solo può garantire l’autonoma circolazione di un’opera fissata in caratteri.

Nato nel 428 a. C.e morto nel 348 a. C., Platone si colloca, non solo cronologicamente ma anche idealmente, al centro di questo crocevia. Un climax culturale che è stato necessario delineare pur se succintamente, per comprendere il contesto in cui operò questo pensatore e conseguentemente il suo anfibolico rapporto con la parola scritta, permanentemente bisognosa del soccorso di un pensare critico, dialettico e dialogico, affidato all’oralità.

Il cuore pulsante della lettura di Reale: il “fedro” e la “VII lettera”

Leggere il “Fedro” significa entrare in questa situazione ancipite in cui, tramite un dialogo in forma scritta, il Socrate platonico, dopo aver mostrato come vero autore di discorsi sia il filosofo e non il celeberrimo oratore Lisia – capace al più di puntare sugli incantamenti della parola – si sofferma sui limiti della scrittura, servendosi dialetticamente di una nuova forma di mito.

L’ermeneutica di Giovanni Reale ha un cuore pulsante che è rappresentato dalla lettura sinottica da un lato del mito di Theuth e dall’altro della “VII lettera” in cui Platone riferisce le ragioni che hanno portato al deterioramento del suo rapporto con il Tiranno Dionigi di Siracusa.

Questo pessimo politico, dopo aver ascoltato una sola lezione del filosofo, pretendeva di scrivere le dottrine platoniche proprio su quelle “cose di maggior valore” che unicamente l’insegnamento dialettico può imprimere nelle anime degli uomini. Di qui la drastica reazione del nostro pensatore secondo cui su tali cose un suo scritto non ci è mai stato e non ci sarà mai.

Noi però possiamo ricostruire queste dottrine, dette per questo non scritte, sia grazie ad accenni , disseminati nel “Fedone” dallo stesso Platone, sia in virtù di successive rielaborazioni dei suoi discepoli: nulla di esoterico o di magico, si tratta di riflessioni, attorno al bene e all’essere che non sarebbe stato conveniente fissare in caratteri come il mito di Theuth mostra con inarrivabile potenza a un tempo narratologica e dialettica.

Il mito di Theuth

Nella città egiziana di Tebe regnava Thamus, desideroso, come ogni sovrano, di accrescere la sua potenza. Si presentò a lui il Dio Theuth, inventore di molte arti, da quella dei numeri all’astronomia di cui illustrava i vantaggi, soffermandosi sul modo in cui ciascuna di queste tecniche potesse accrescere la sapienza dei tebani e quindi il prestigio del Regno.

Giunse così alla più mirabile di queste scoperte: la scrittura che definì come potente farmaco in grado di corroborare la memoria, lodandone anche la capacità di generare sapienza. Il Dio illustrò al monarca il funzionamento dell’alfabeto, ma questi, con sua grande sorpresa, si rifiutò di introdurlo, ritenendo che lungi dal potenziare le facoltà mnesiche avrebbe favorito la dimenticanza perché gli uomini sarebbero divenuti capaci non di apprendere dall’insegnamento, ma unicamente di richiamare alla memoria nozioni imparate per altre vie, ricordandole solo grazie a segni estranei.

Mentre la sofistica e l’oratoria magnificavano la scrittura, Platone, che nel “simposio” mostrerà di essere, in quanto filosofo, anche insigne poeta sia tragico sia comico, imitando alla perfezione gli stili di Agatone ed Aristofane, ne intravvide lucidamente i limiti.

La grafia, sempre secondo il Sovrano, non avrebbe generato sapienza ma opinione, anche perché un testo, incapace di difendersi da solo, raggiunge indifferentemente sia le poche persone che possono servirsene in modo adeguato, sia una congerie di uomini superficiali unicamente capaci di deriderne il contenuto, come aveva mostrato l’esperienza del Tiranno siracusano.

La seconda navigazione

Proprio le dottrine non scritte, soprattutto nelle loro rielaborazioni neoplatoniche- ma anche negli squarci che l’autore della “Repubblica” ha disseminato nel “Fedone”- gettano una luce nuova su una delle più magnifiche scoperte del nostro pensatore che segnerà un vero e proprio spartiacque nella cultura occidentale.

Si tratta della così detta “seconda navigazione” in cui l’uomo, mentre sul mare regna la bonaccia, temibile per chi fende le onde come lo è la tempesta, si spinge, con la sola forza dei remi, oltre le cose sensibili. Mentre l’acqua circonda l’umano vascello, sudore, fatica, la stessa paura dell’ignoto, sono necessarie, in vista di un guadagno teoretico inarrivabile: quello di poter pensare l’essere sovrasensibile, cioè un principio che causi, oltre le aporie in cui erano caduti i fisici pluralisti, l’esistenza del molteplice.

A molti presocratici sfuggiva il fatto che il mondo non potesse trovare la spiegazione in se stesso né in uno dei suoi pur importanti elementi costitutivi. Per Platone si tratterà quindi di raccogliere dialetticamente la varietà delle cose quali appaiono ai sensi, sussumendole in un’idea che sia unitaria senza essere monista.

L’eleatismo, infatti, pur avendo fecondamente pensato la radicale disgiunzione tra essere e non essere, proprio per la negazione del molteplice era caduto in difficoltà insormontabili. Per superarle, l’unità platonica doveva reduplicare, a livello ideale, una feconda dualità, tipica di quel pensare, strutturalmente polare, che fu la cifra dell’uomo ellenico.

La teoria delle idee e dei supremi principi

Da questo punto di vista la speculazione platonica mira a scoprire il bene e il bello in se, di cui ogni cosa buona e bella partecipa in una molteplicità di manifestazioni, certo tra loro diverse, ma riconducibili alla medesima forma, detta appunto idea. Infatti, argomenta l’autore del “Fedone”, se vi è qualcosa di bello oltre al bello in sé questa partecipa, certo in forma difettiva di quel primigenio splendore, la cui luce inonda ogni realtà che qui diciamo armoniosa.

Oltre queste idee in sé , situate nel mondo iperuranico da cui le nostre stesse anime provengono, poiché anche nel mondo sovrasensibile il molteplice tende a tornare, Platone postula l’esistenza dei due supremi principi: l’uno e la diade. Se il cosmo fisico è fondato nell’immutabile presenza delle idee, queste, a loro volta, scaturiscono dai due supremi archetipi la cui esistenza, narrata nella vivente oralità dell’insegnamento, è stata successivamente fissata in forma scritta da discepoli dello stesso filosofo che però ci ha lasciato delle allusioni a tali dottrine, soprattutto descrivendo il carattere non ultimativo della stessa seconda navigazione.

Come a rilevato più di qualche studioso con la dottrina dei supremi principi si entra in contatto, nella sua forma filosoficamente più raffinata, con una struttura tipicamente ellenica che si affida a un pensare polare, in cui realtà, solo apparentemente antitetiche, si coimplicano: una cultura adombrata già nel mito che ci presenta divinità duali , a iniziare da Apollo, raffigurato spesso con l’arco e la lira.

Un illuminante esempio tratto dalla storia della musica

Questi potrebbero parere argomenti complessi e lontani dal vissuto delle persone comuni, ma il genio filosofico di Giovanni Reale, mentre rifugge da attualizzazioni stolide e banali, ci aiuta a comprendere il messaggio di Platone con un illuminante esempio.

Beethoven era già sordo quando compose la IX sinfonia: la musica non si riduce ai puri suoni, ma si riferisce a quel ulteriore metaforico cui le note alludono. Il compositore non avrebbe mai potuto udire la sua stessa opera: ma se ogni suono e ciascuna voce, rappresentano altrettanti tasselli di un preciso disegno intellegibile, anche un sordo, seguendo mentalmente quel disegno, può comporlo.

Si profila così il profondo significato di un’unità duale che, inscritta nella stessa lingua greca tanto da costituire un apposito numero grammaticale, faceva dire all’occhio plastico dell’ellade, una verità sconvolgente: la bellezza di un quadro non risiede nei suoi colori, quella di una statua non alberga nelle sue forme, ma vi è un primo intellegibile che compagina forme e colori in un’asintotica marcia di avvicinamento al bello in se.

Idea: genesi e storia di una parola

Da questo punto di vista può essere utile un sia pur breve ripercorrimento della storia intellettuale del termine idea, progressivamente disancoratosi dal suo senso originario: In greco infatti questo vocabolo che traslitteriamo nella nostra lingua significava forma esemplare: dopo Platone le oscillazioni semantiche di questo lemma lo hanno fatto divenire prima il pensiero di Dio, nelle speculazioni patristico- scolastiche, poi quello dell’uomo nella filosofia moderna.

L’unitaria dualità greca che non è antitesi ma polarismo, per cui ogni estremo ha bisogno del suo opposto ci dice sia che il mondo sensibile rimanda a un’idea paradigmatica sia che, reduplicandosi la molteplicità anche nell’archetipo, è necessario affidare al non scritto i principi primi l’uno e la diade, donde tutto deriva, principi che il pensiero neoplatonico, superando certo, ma non necessariamente fraintendendo il maestro, porterà a profondità speculative ulteriormente gravide di conseguenze.

La seconda navigazione e l’immortalità dell’anima

Il guadagno dell’essere sovrasensibile implica la possibilità di proseguire, finalmente su basi metafisiche, il discorso già adombrato da Socrate sull’anima, provando, unicamente per via razionale, non solo la sua esistenza come principio separato dal corpo, ma anche la sua immortalità.

Si tratta di un’acquisizione rilevantissima, di cui, certo dal suo punto di vista, l’intera Patristica cristiana farà uso e che avrà ricadute non lievi anche dal punto di vista politico, giustificando la concezione secondo cui i filosofi, provvisti di un’approfondita formazione matematica, debbono governare la città. Le idee, argomenta Platone nel “Fedone”, sono causa delle cose, ma quelle contrarie si elidono a vicenda, non potendo sussistere contemporaneamente nella stessa realtà. Questo non vale solo per alcuni archetipi, come, ad esempio, piccolo e grande; ma riguarda anche le così dette idee valore: per questo l’anima, essendo connotata dall’idea di vita, rifugge quella di morte donde si dimostra necessariamente la sua immortalità.

Ancor più pregnante è una seconda prova, presente sempre nello stesso dialogo. L’uomo, ricordando la vita della sua psiche nel mondo iperuranico in cui dimorava con le idee, conosce cose immutabili ed incorruttibili, cogliendole con la sola intelligenza. In altro luogo l’autore della “repubblica” descrive poeticamente la “pianura della verità” in cui il principio metasensibile, era in rapporto con queste realtà archetipali, le cui ombre sbiadite scorgiamo in questo mondo. Ma per attingere tali idee, pure ed incorruttibili forme degli enti, , psiche deve essergli affine, quindi il concetto di morte le è ontologicamente estraneo.

Variamente giudicate nel corso della storia della filosofia queste prove muovono da un dualismo ontologico che considera il corpo alla stregua di una tomba dell’anima in cui questa vive essendone imprigionata. Il platonismo, quindi, anche nelle sue versioni successive, prima fra tutte quella plotiniana, predicherà una resurrezione dal corpo, sussunta in quella dottrina, di derivazione orfico-pitagorica secondo cui il principio vitale interno a ogni uomo deve progressivamente liberarsi dalle colpe commesse, fino a tornare donde è venuto.

Al netto di tutti i non pochi prestiti, e delle dottrine che i Padri greci mutuarono dall’autore della “Repubblica”, occorre affermare che la posizione del Cristianesimo nei confronti del corpo appare assai diversa: il discepolo di Gesù infatti, non risorge dal corpo, ma con il corpo stesso, posizione questa che rende spiegabile il disprezzo cristiano della carne anche con superfetazioni platoniche. Poco importa, da questo punto di vista, se gli autori greci come Basilio e Origene attinsero direttamente agli scritti del filosofo, mentre quelli latini, a iniziare da Agostino, li lessero in traduzione, ignorando l’idioma ellenico.

 Un motto, tratto dall’Agamennone del poeta tragico Eschilo potrebbe riassumere la lezione di Platone: “io volentieri a coloro che sanno parlo, a coloro che non sanno mi nascondo”. Si tratta di una dimensione allusiva, quasi deittica, della verità che in altra forma, troviamo anche nel mito della Caverna contenuto nella “repubblica” vera ricapitolazione dell’intera opera del nostro autore.

Il mito della caverna

Platone immagina uomini che vivono, legati tanto strettamente da non potersi neppure voltare, in una caverna sotterranea, dotata di un ingresso attraverso il quale si sale verso la luce. L’entrata dell’antro è larga quanto l’intera spelonca, in modo che le persone  possono guardare unicamente verso il fondo della grotta, al di fuori della quale si trova un muricciolo su cui passano alcuni individui che portano oggetti. al di sopra dello speco brilla il sole che riflettendo la sua luce, riverbera  sulla parete dell’antro le ombre delle cose portate dai passanti.

I prigionieri capaci di udire, pur se distorte dall’eco, anche le voci  dei pedoni credono che la realtà consista in quelle vane sensazioni sia visive, sia acustiche, gareggiando tra loro su chi identifichi più rapidamente l’ombra del l’oggetto al suo passaggio o la voce di chi lo porta.

 Poniamo che uno dei reclusi – mitologico araldo del sapere filosofico – venga liberato e salendo gradualmente verso la visione del  sole scorga cose dotate di una perfezione ascendente  nella scala dell’essere.

Dovendo abituarsi alla crescente intensità della luce, l’uomo ne risulterebbe dapprima accecato, ma poi acquisirebbe una nozione più adeguata del reale che diverrebbe esaustiva quando, contemplando il sole- metafora nel mondo visibile dell’idea del bene – comprenderebbe l’origine anche di quelle vane ombre proiettate sulla parete della grotta. Allora il filosofo inizierebbe  a provare compassione  per i suoi compagni, ancora incatenati nell’antro, tanto da voler tornare con loro per narrargli quanto ha visto. Risiede in questo ritorno la dimensione politica e comunitaria della filosofia che, già presente in Socrate, si amplificherà nel suo principale discepolo, raggiungendo però la sua dimensione più compiuta solo con Aristotele, in un contesto storico profondamente mutato.

Un ritorno non privo di insidie: ora il filosofo deve abituarsi all’oscurità della caverna dopo che i suoi occhi hanno contemplato la luce: altro parziale accecamento, che rafforza i prigionieri nella loro convinzione secondo cui tutta la realtà risiede  nelle ombre degli oggetti visibili dal fondo dell’antro, oltre che nelle voci degli uomini, pur se distorte dall’eco.

Una convinzione tanto radicata da uccidere il loro ex compagno che diviene così compiutamente l’emblema di Socrate e, dopo di lui, di tutti coloro che hanno accettato di vivere e, se necessario, morire per quelle “cose di maggior valore” la cui ricerca coincide con la stessa esistenza.

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