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Lavorare sulle motivazioni

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di Maurizio Muraglia

 

Gli insegnanti hanno molto a cuore il tema della motivazione. Nelle prassi discorsive professionali esso si presenta costantemente, soprattutto quando si tratta di valutare il rendimento degli alunni all’interno dei consigli di classe o quando si discute con i genitori. Di fronte allo scarso rendimento di un allievo cui si riconoscono buone capacità, non è infrequente il ricorso a diagnosi motivazionali, che afferiscono ad una sfera, in qualche modo, extradidattica, come se invocare la demotivazione possa rappresentare una via d’accesso privilegiata per la comprensione dell’insuccesso scolastico. Se l’alunno non rende pur avendo le doti per rendere, il problema consiste nella sua demotivazione.

Dal punto di vista di chi insegna, la fenomenologia dell’alunno demotivato sta dentro un campo semantico popolato da atteggiamenti quali disinteresse, distrazione, apatia, evitamento. Questi possono essere definiti atteggiamenti-spia della demotivazione scolastica, che in alcuni contesti possono anche degenerare in comportamenti devianti, segnati da indisciplina o da esplicita ribellione verso gli insegnanti. Sul piano valutativo, il compito per i docenti risulta alquanto difficile. Alle volte si vorrebbe riconoscere il talento dell’alunno, ma di fronte alla motivazione e alla forza di volontà di un compagno magari meno attrezzato sul piano cognitivo si teme di esprimere una valutazione ingiusta, finendo per premiare aspetti innati, che ben poco hanno a che fare con la volontà dell’allievo.

 

Opportunamente Boscolo ha attirato l’attenzione sulla necessità di superare alcuni luoghi comuni sulla motivazione scolastica[1]. Qui è interessante chiamare in causa il concetto di motivazione “distribuita”, secondo cui l’idea che la motivazione appartenga sic et simpliciter all’allievo va superata a favore di un coinvolgimento delle altre variabili che incidono sull’orientamento motivazionale del giovane, dalla famiglia all’ambiente sociale di riferimento e al gruppo dei pari. Di questa responsabilità diffusa appaiono consapevoli in buona misura anche gli insegnanti, che però, soprattutto nelle scuole del secondo ciclo, tendono in genere a non considerare la scuola un potente fattore motivazionale. 

Purtuttavia sulla motivazione allo studio l’influenza della scuola, in positivo e in negativo, è di grande importanza, e sarebbe bene studiarla a partire da un concetto-chiave, che è quello di interesse, cui gli studi sulla motivazione danno grande rilievo. Poiché la nota etimologia del termine rimanda alla possibilità di un coinvolgimento cognitivo ed emotivo dell’allievo nell’esperienza di apprendimento, diventa necessario interrogarsi sul modo in cui la scuola, attraverso le sue pratiche didattiche, possa influire sull’orientamento motivazionale degli studenti. La domanda fondamentale, sul piano professionale, diventa allora questa: di quali risorse dispongono gli insegnanti per influire positivamente sulla motivazione “distribuita” che segna il vissuto degli allievi?

Possiamo individuare risorse riconducibili a tre focus di attenzione: la risorsa culturale, la risorsa metodologica e la risorsa relazionale. Altrove[2] ho argomentato la necessità professionale di integrare, nella pratica di insegnamento, aspetti culturali, metodologici e relazionali perché l’esperienza mostra che l’influenza reciproca tra queste componenti – che sostanzia la progettazione curricolare come dispositivo di organizzazione dell’esperienza didattica – è in grado di non ridurre l’ambiente di apprendimento a mero erogatore di contenuti o a generico contenitore di espedienti metodologici o a piacevole contesto di relazioni empatiche. L’insegnante può incidere sulla motivazione degli allievi nella misura in cui coltiva i tre ambiti in modo non separato e crea le condizioni perché essi finiscano per non potersi più distinguere nella prassi didattica.

La risorsa culturale ha a che fare con il sapere insegnato e la sfida consiste nel suscitare interesse attraverso gli argomenti trattati a scuola. Su questo gli insegnanti concordano, ma concordano anche sul fatto che l’attivazione dell’interesse è legata al modo in cui gli argomenti scolastici vengono trattati nelle aule scolastiche. Nell’idea di modo osserviamo la presenza degli altri due focus di attenzione, quello metodologico e quello relazionale, senza che però la questione “modale” offuschi la questione culturale. La precisazione è necessaria per sfatare qualche altro luogo comune della scuola, secondo il quale ogni cosa, anche la più astratta, la più lontana dall’esperienza dei ragazzi, può essere insegnata suscitando interesse se l’insegnante è abile dal punto di vista metodologico e relazionale. Pur non volendo considerare senza fondamento e senza riscontri empirici questa valutazione, essa può risultare rischiosa nella misura in cui tende ad incoraggiare una certa pigrizia intellettuale nella selezione dei contenuti da proporre agli studenti. Invece si è dell’avviso che un interesse davvero autentico possa essere attivato dalla possibilità che i temi trattati in classe incrocino lo spazio di significatività dei ragazzi, inteso come spazio abitato dalla loro esperienza e dalla loro esistenza. La sfida professionale consiste in altri termini nel tenere insieme vincoli culturali e vincoli psicologici quando si individuano le conoscenze da proporre. 

La risorsa metodologica è altrettanto essenziale in ordine all’attivazione dell’interesse e della “voglia di studiare”, e lo è non soltanto per la sua attitudine a “veicolare un contenuto”, ma anche perché essa stessa, in qualche modo, finisce per essere un “contenuto”. Pensiamo alla didattica laboratoriale, spesso chiamata in causa soprattutto quando si ragiona di competenze scolastiche[3]. Si tratta indubbiamente di un modo di insegnare le cose, ma la laboratorialità può essere considerata anche una modalità di costruzione dell’ambiente di apprendimento capace di insegnare la cooperazione, la capacità di porre affrontare e risolvere problemi, lo spirito di decostruzione e ricostruzione dei saperi. La didattica laboratoriale, in altri termini, pur concepita al servizio di specifici apprendimenti, è capace di indurre “deuteroapprendimenti”[4], intesi come abiti cognitivi e atteggiamenti di lavoro in grado di valorizzare i talenti diversificati dei ragazzi, con positive ricadute sull’autostima. Da questo punto di vista è sommamente auspicabile l’integrazione tra la risorsa culturale e la risorsa metodologica in funzione dell’attivazione dell’interesse degli allievi quale fattore chiave del loro orientamento motivazionale.

Anche l’essenzialità della risorsa relazionale va sottolineata con forza se non si vuole ridurre a mera “tecnica” tutto ciò che si  è detto fin qui. L’esperienza mostra che la motivazione allo studio dei ragazzi trae grande beneficio da un atteggiamento di cura, di empatia, di incoraggiamento. Se l’insegnante non è il primo a “crederci”, è difficile immaginare che possa crederci l’allievo. Solo in contesti socioculturali di un certo tipo, altamente attrezzati sul piano culturale e gratificanti dal punto di vista emotivo, è possibile pensare che i ragazzi possano fare a meno dell’apporto relazionale degli insegnanti. D’altra parte va notato che la cura nella scelta di contenuti significativi e nella predisposizione di ambienti di apprendimento coinvolgenti contiene già in sé forti valenze relazionali, perché è difficile che un gruppo di allievi non “leghi” con un insegnante che spende a questo livello le proprie risorse professionali.

Ma a quali condizioni professionali è possibile attivare tali risorse? Non è possibile addentrarsi qui nella complessa questione della professionalità docente e nell’orientamento motivazionale degli stessi insegnanti. Ci fermiamo su un solo aspetto che ci sembra cruciale. Si tratta del rapporto che ogni insegnante istituisce con il proprio sapere[5]. L’ipotesi è che la qualità di questo rapporto influisca in misura non marginale sul rapporto tra il sapere e gli alunni, finendo per condizionare positivamente (o negativamente) il loro orientamento motivazionale. Volendo schematizzare, gli insegnanti possono istituire con il proprio sapere – o con parti del proprio sapere – una relazione convenzionale o originale. Nel primo caso potremmo anche parlare di relazione estrinseca, nel secondo caso di relazione intrinseca.

 Gli alunni percepiscono alquanto facilmente dove si situano i loro insegnanti. In generale si potrebbe dire che essi li vedono entrare in classe con qualcosa che appartiene loro. Ogni docente insegna la “sua” materia. Ma in che modo essa può ritenersi “sua”? L’esperienza mostra, soprattutto nella scuola secondaria, che della materia insegnata una parte (talora cospicua) è oggettivata nel libro di testo. Un’altra, pur presente nel libro, vive nella mente dell’insegnante in una forma personalizzata e disponibile a farsi contaminare dal sapere informale e non formale portato dagli studenti. Quanto più quest’ultimo sapere magmatico e tumultuoso è diffuso tra i banchi, tanto più risulta necessario che si allarghino i confini di quella quota di materia, per così dire, vivente nella testa (e nel cuore) dell’insegnante. Si deve dire che in genere l’attenzione dell’insegnante ai processi di apprendimento e alla vita emozionale degli studenti è inversamente proporzionale alla ampiezza della parte di materia codificata nel libro di testo. Curiosamente questa parte della “materia”, non rielaborata e vissuta personalmente dall’insegnante e pertanto sostanzialmente estranea al suo mondo di significati, finisce per rivelarsi indisponibile ad essere condivisa con le altre materie ad essere negoziata col mondo di significati degli studenti[6]. Questa parte, cioè, nozionistica della materia, finisce per diventare tanto più la “mia” materia quanto meno, di fatto, lo è. Come dire che soltanto chi è disposto a perdere il possesso rigido della propria materia ne è veramente il proprietario. Soltanto chi è capace di smarrire confini e di accogliere feconde contaminazioni è colui che è profondamente abitato dal sapere che insegna.  

Quando la relazione dell’insegnante con la propria materia non è convenzionale, ma originale, è alquanto probabile che i ragazzi siano “motivati” a studiare quella materia perché è il loro rapporto con quel sapere che si colora emotivamente. E questo può avvenire perché l’insegnante ha “trattato” il sapere in modo da fargli compiere una sorta di itinerario epistemologico: da oggetto di riflessione personale a oggetto di insegnamento a oggetto di apprendimento. Un simile percorso, che potrebbe essere parafrasato come percorso di trasformazione di un sapere colto in cultura degli studenti, riesce a tenere insieme aspetti culturali, metodologici e relazionali, facendo dell’insegnante non un portavoce, ma una “voce”. In tal modo, forse, è possibile pensare ad un incidenza positiva del ruolo degli insegnanti sull’attivazione dell’interesse, e quindi sull’orientamento motivazionale degli studenti. Il tema della motivazione, pertanto, lungi dal restare confinato alla sfera psicologica o sociologica, può accogliere anche la sfida culturale, che è quella più consona al background professionale degli insegnanti. In ultima analisi si può dire che la motivazione ad apprendere degli studenti ha a che fare col rapporto tra esperienza e cultura che la scuola è chiamata ad istituire, e la creatività di un insegnante consiste proprio nella sua capacità di presentare la cultura come elemento di chiarificazione dell’esperienza[7]. Tutto ciò richiama un campo di ricerca non nuovo, di ascendenza bruneriana, che riguarda la dimensione formativa delle discipline scolastiche. Ma questo è un altro capitolo.



[1] P.Boscolo, La fatica e il piacere di imparare, Utet 2012. Si suggerisce la lettura del testo per una visione completa delle questioni legate alla ricerca motivazionale.

[2] M. Muraglia, Curricolo, Tecnodid 2011.

[3] S. Fioretti, Laboratorio e competenze, Francoangeli 2010.

[4] L’idea di deuteroapprendimento, riconducibile a Bateson, struttura la teoria del curricolo in M. Baldacci, Curricolo e competenze, Mondadori 2010.

[5] Questione affrontata da E. Damiano, Il sapere dell’insegnare, Francoangeli 2007, pp.56-69.

[6] La dialettica tra livello emozionale e livello istituzionale all’interno di una classe è ben illustrata da D.Novara, La gestione del gruppo-classe, in “Rivista dell’istruzione” 4/2009, pp.41-44.

[7] Così M. Polito, Guida allo studio: la motivazione, Muzzio 1997, volume di taglio divulgativo che fornisce spunti preziosi sul tema.

 

pubblicato in Rivista dell’istruzione 1/2013

 

 

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