Un clima di irresponsabilità
La politica è sempre esposta al rischio di ridursi a un gioco di slogan senza contenuto. Ma forse mai come in queste elezioni è stato evidente lo scollamento dalla realtà dei partiti che si contendono il consenso dei cittadini, confidando nella loro smemoratezza e nel loro scarso senso critico.
È già significativo che – alla vigilia di una crisi economica che chiaramente si profilava e che puntualmente in questi giorni si sta evidenziando in tutta la sua gravità – si sia fatto cadere, per giochi di potere e calcoli elettorali, un governo che godeva di un indiscusso prestigio internazionale e che garantiva al nostro Paese una guida certo non infallibile, ma sicuramente più affidabile, sul piano della competenza di quella dei personaggi che aspirano a sostituirlo.
Il bello è che, di fronte all’emergenza – peraltro prevedibilissima – che si è creata, con il balzo in alto dei costi produttivi e in generale delle bollette, c’è una corsa a scaricare sul premier uscente, ormai costretto dalla correttezza istituzionale a gestire solo gli affari ordinari, il compito di risolvere la situazione.
Tragicomico, a questo proposito, che in uno dei giorni scorsi, il 30 agosto, due quotidiani espressione di due partiti che avevano determinato la caduta del governo – «Il Giornale» e «Il Fatto quotidiano» – abbiano potuto titolare in prima pagina, rispettivamente, «Draghi torni a bordo» e «Draghi salga a bordo!», dimenticando che a gettare fuori bordo il capitano della nave erano state proprio le forze politiche da essi rappresentate.
È solo un piccolo esempio del clima di irresponsabilità – letteralmente, di rifiuto di rispondere di ciò che si dice e di ciò che si fa – da cui sembra caratterizzata questa fase della vita politica italiana e nel cui contesto si sta svolgendo la campagna elettorale.
Il programma della sinistra e la scuola
Ne sono un esempio i programmi sia della sinistra che della destra, contenenti in buona parte progetti evidentemente irrealizzabili. Un esempio potrebbe essere, in quello del Partito Democratico, il punto che riguarda «la scuola come motore del Paese», in cui si parla di «restituire al mestiere dell’insegnante la dignità e centralità che merita, garantendo una formazione adeguata e continua e allineando, entro i prossimi cinque anni, gli stipendi alla media europea».
Guardiamo i fatti. Nel maggio scorso il governo uscente, sostenuto, come quello precedente, dal PD, ha previsto, per il rinnovo del contratto nazionale della scuola relativo al triennio 2019-2021 (era bloccato da allora!), un aumento del 3,78% rispetto agli stipendi percepiti quattro anni fa, una crescita nettamente inferiore a quella di un’inflazione che nel 2022 è cresciuta del 6,3% e che corrisponde, nella busta paga di un docente ad inizio carriera, a 50 euro lordi mensili in più (per un insegnante della scuola secondaria con 10 anni di anzianità a 62 euro).
Queste, al di là delle parole, le scelte concrete fatte per la scuola, quando il partito era al governo, in un momento in cui la crisi energetica e l’inflazione non erano ancora esplose in tutta la loro forza dirompente e non si invocava l’emergenza, come ora invece inevitabilmente si dovrà fare…
Il programma della destra e la flat tax
Ma passiamo ad una proposta che invece è il cavallo di battaglia del centro- destra, il taglio delle tasse e che si concretizza, nel programma elettorale di questi partiti, nella cosiddetta “flat tax”, “tassa piatta”. Nell’abolizione, cioè del sistema di progressività per cui chi guadagna di più è tassato in percentuali più alte rispetto a chi guadagna di meno. La riforma ha formulazioni diverse da parte dei tre leader.
In quella del suo più deciso sostenitore, Matteo Salvini, consisterebbe nell’estendere a tutti i redditi l’imposta del 15%, come oggi già avviene solo per i contribuenti con partita Iva fino a 65.000 euro. Insomma, mentre nel sistema attuale chi guadagna di più paga di più non solo in assoluto, ma anche in percentuale, con la flat tax avremmo un appiattimento delle tasse, per cui i redditi maggiori sarebbero tassati nella stessa percentuale di quelli più bassi.
Il vantaggio sarebbe una semplificazione del sistema fiscale e una probabile maggiore disponibilità di chi oggi evade le tasse a pagarle. Ci sono, certo, delle difficoltà. Si può obiettare che, così, in un Paese dove le disuguaglianze economiche sono già paurose – dove ci sono 5 milioni e mezzo di persone in condizione di povertà assoluta e dove i 40 cittadini più ricchi posseggono oggi l’equivalente della ricchezza netta del 30% di quelli più poveri – si avrebbe in concreto un alleggerimento del carico fiscale proprio sui redditi dei più abbienti e, inevitabilmente, una diminuzione di servizi a favore dei più poveri.
Ci si può anche chiedere se una simile misura sia compatibile con l’art 53 della Costituzione italiana, dove si legge che «tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività».
Ma, dal punto di vista che qui stiamo adottando, il problema è un altro e riguarda non la giustizia o la costituzionalità del progetto, ma semplicemente la sua realizzabilità. Secondo le stime degli esperti, come riporta il «Sole 24 Ore» (giornale della Confindustria) i costi della flat tax, in termini di minori redditi per le finanze pubbliche, sarebbero pari a 50 miliardi di euro l’anno.
Ha senso proporre una simile spesa in questo momento? Di fronte a queste promesse elettorali, sia della sinistra che della destra, non possono non venire alle mente le parole di un autorevole opinionista, riferite proprio ad esse: «Non misurare il costo di ciò che si promette è il peggiore degli inganni» (Ferruccio de Bortoli, su «Corriere della Sera», 15 agosto).
La lotta contro la casta del Movimento 5 Stelle
Quanto al Movimento 5 Stelle, colpisce l’esordio del suo programma elettorale: «Il Movimento 5 Stelle è l’unica forza politica che in questa legislatura ha realizzato l’80% degli impegni presi nel 2018 con gli elettori». Parole che ricordano tanto quelle di Berlusconi, quando esultava per aver mantenuto gli impegni presi nel “contratto con gli italiani”.
O quelle di Di Maio, allora leader dei pentastellati, quando, nel marzo 2018, durante i faticosi negoziati per formare il governo, con la Lega, dichiarò: «Per la prima volta nella storia si porta avanti una trattativa che mette al centro i temi che rappresentano tutte le esigenze degli italiani e questo ci rende ancora più orgogliosi».
Per una valutazione di queste pretese, ci si potrebbe semplicemente rifare al giudizio degli elettori che, nel 2018, diedero ai 5stelle il 32% dei voti e oggi, nei sondaggi, non gliene garantiscono neppure il 15%. Ma soprattutto è sotto gli occhi di tutti il fallimento del progetto populista che voleva distruggere la logica della casta per garantire un reale contatto di tutti con il governo del Paese e che è riuscito soltanto a far rientrare nella casta alcuni suoi dirigenti.
Non sappiamo se e come, in un’eventuale ascesa al governo dopo queste nuove elezioni, si muoverebbero i pentastellati. Sappiamo però che le loro promesse non sono più convincenti e realistiche di quelle dei loro concorrenti di sinistra e di destra.
Miraggi
E allora che cosa faranno, dopo le elezioni, questi partiti? Non si può, ovviamente, pretendere di prevederlo con sicurezza. Ma già da ora si intravede su che cosa in realtà insisteranno, per mascherare la loro difficoltà di realizzare le riforme strutturali che promettono.
Il PD continuerà a mettere in primo piano, come ha fatto in questi anni, il tema dei diritti individuali, che già sono nel suo programma, ma che l’alleanza con la Bonino contribuirà a valorizzare. Invece di fare “la sinistra”, battendosi strenuamente contro le ingiustizie e le disuguaglianze sociali, punterà sul matrimonio omosessuale, su una educazione che diffonda la teoria del gender nelle scuole e sull’eutanasia.
Da parte sua, la destra si getterà a corpo morto sul problema dell’immigrazione e della sicurezza. Già adesso è vivo il dibattito, tra Lega e Fratelli d’Italia, se il modo migliore di bloccare i migranti sia il ripristino dei “decreti- sicurezza”, voluti da Salvini quando era ministro degli Interni nel primo governo Conte, o il “blocco navale”, indicato dalla Meloni come un sistema più sicuro per «difendere le frontiere», magari accordandosi con il governo libico perché, dietro lauto compenso, trattenga i profughi nei suoi campi di concentramento.
Per ciò che riguarda i 5stelle, continueranno probabilmente a perseguire la piena realizzazione del loro progetto, sostanzialmente assistenziale, del reddito di cittadinanza, difendendolo dai sempre più numerosi attacchi che lo insidiano, dopo gli scandali che hanno rivelato gli abusi a cui a dato luogo.
In realtà non sono questi i veri problemi del nostro Paese, ma l’esperienza dice che, giocando su questi miraggi, è facile calamitare l’opinione pubblica.
Che fare di fronte a questa “fiera delle vanità”? La politica è lo specchio di una società. È su quest’ultima, su coloro che sono chiamati ad esprimere il consenso, che bisogna operare, se si vogliono cambiare le cose. La sola via per uscire da questo gioco di illusioni è un’educazione critica dei cittadini che li renda capaci di discernere ciò che davvero serve al bene comune.
Non sarà certo nei pochi giorni che ci separano dalle elezioni che questo si potrà realizzare. Ma si può affrontarle ad occhi aperti. E, partendo da questa consapevolezza, operare fin da ora perché nella prossima legislatura maturi una politica alternativa a quella oggi dominante.
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