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Dopo la “Repubblica delle banane”

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“Migrants picked up by HMS Bulwark’s LCU” – Royal Navy Media Archive su Flickr

La crisi con la Francia e le scelte del nuovo governo

La crisi diplomatica che in questi giorni vede duramente contrapposte Francia ed Italia, e che è esplosa nel contesto dell’annosa questione delle politiche migratorie, può essere letta da diversi punti di vista. Uno di questi è la volontà del nuovo governo di evidenziare la sua discontinuità, sia nella politica interna che in quella internazionale, rispetto a quelli l’hanno preceduto.

Si erano avvicendati, in passato altri governi di centro-destra, ma a guidarli era stato il centro. Ora i ruoli si sono invertiti. A trainare, per la prima volta nella storia repubblicana, è quella che una volta veniva chiama “estrema destra”, sicuramente più legata a una tradizione che è diventato comune definire “sovranista”, perché privilegia, all’interno, l’autorità dello Stato e, a livello internazionale, gli interessi della Nazione.

Espressioni colorite come «E’ finita la pacchia» o ««L’Italia non è più la Repubblica delle banane», spesso risuonate, nelle scorse settimane, sulla bocca di Giorgia Meloni e di Matteo Salvini, costituivano un esplicito monito a chiunque, dentro o fuori i nostri confini, finora avesse approfittato di quella che a loro avviso era stata la debolezza dello Stato italiano. Si può condividere o meno, naturalmente, questo progetto politico.

Quale che sia, però, la propria opinione su di esso, è possibile interrogarsi su ciò che sta accadendo ora che il governo in carica lo sta attuando. È presto, evidentemente, per dare un giudizio definitivo. Non lo è, però, per prendere atto del risultato dei primi passi compiuti dall’esecutivo su questa strada.

Il decreto anti-rave

Il primo atto che, sul piano normativo, ne ha segnato l’avvio è stato il cosiddetto “decreto anti-rave”. La fattispecie prevista è «l’invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici o privati, commessa da un numero di persone superiore a cinquanta, allo scopo di organizzare un raduno, quando dallo stesso può derivare un pericolo per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica». La pena prevista per gli organizzatori è la reclusione da 3 a 6 anni. 

La prima sorpresa, in questo testo, è che il reato di «invasione arbitraria» di terreni o edifici era già presente nel nostro Codice Penale (articolo 633). L’unica differenza è che questo reato è punito, se compiuto da più di cinque persone, con una pena da due a quattro anni. La vera novità, dunque, non sta nella «invasione arbitraria», ma nel fatto che essa venga compiuta «da più di cinquanta persone, allo scopo di organizzare un
raduno». Dove, visto che la norma non parla specificamente di rave party, ma si applica a qualunque «raduno», il rischio immediatamente rilevato non solo dall’opposizione, che ha parlato di «norma liberticida», ma anche da eminenti costituzionalisti, è che, in base a questa innovazione (unica possibile ragione del decreto), vengano puniti anche i partecipanti a una manifestazione di natura sociale o politica.

Anche perché la clausola «quando dallo stesso può derivare un pericolo per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica» è così generica e suscettibile di interpretazioni soggettive da non costituire una garanzia. Ciliegina sulla torta, la pena prevista (6 anni!) appare sproporzionata rispetto a quella di reati assai più gravi e, per di più, rende possibile il ricorso da parte degli inquirenti di registrazioni telefoniche (permesse per i reati la cui pena supera i 5 anni). Che non è certo una prospettiva rassicurante per chi organizza raduni politici o di protesta sociale.

Davanti al coro di critiche, alcune sicuramente esasperate da un atteggiamento polemico, ma molte altre fondate sulle semplici osservazioni appena esposte, il governo si è visto costretto, già all’indomani dell’emanazione del decreto, a demandare al parlamento le modifiche necessarie per disinnescarne i punti più critici. Anche se è dubbio che, eliminando quelli, resti nella norma qualcosa di diverso da ciò che già è previsto nell’art. 633 del codice penale.

Se questo è stato – come appare abbastanza evidente – un “biglietto da visita” che intendeva sottolineare la svolta del nuovo governo, rispetto a un andazzo che effettivamente, nel nostro Paese, vede spesso calpestata la legalità, non si può evitare l’impressione che si sia trattato di una “uscita a vuoto”, di cui l’imbarazzata marcia indietro di esponenti dello stesso governo è stata la conferma. Il rispetto della legge è un valore importante ed è giusto rivendicarlo. Ma non sembra che, rispetto ai governi precedenti, quello che il nuovo ha fatto sia servito a consolidarlo.

Il braccio di ferro sui migranti

Una difficoltà analoga sembra incontrare l’esecutivo su un fronte che era stato un suo cavallo di battaglia nella campagna elettorale, quello dei migranti. Su questo terreno si erano moltiplicate, negli ultimi mesi, gli attacchi della destra al governo Draghi, in particolare al ministro degli Interni Lamorgese, accusata di colpevole debolezza nei confronti dell’aumento degli sbarchi di migranti sulle nostre coste. Da qui, all’indomani delle ultime elezioni, il ritorno degli slogan citati all’inizio, con la compiaciuta constatazione che “la pacchia” era finita e che l’Italia non sarebbe più stata “la Repubblica delle banane”. 

E da qui, ovviamente, il primo atto del nuovo ministro degli Interni, Piantedosi, che è stato quello di diffidare le tre navi in viaggio verso i nostri porti – la «Geo Barents» della Ong Medici Senza Frontiere, la «Humanity One» della Ong Sos Humanity e la «Ocean Viking», della Ong Sos Mediterranée – dall’entrare nelle nostre acque territoriali, perché la loro condotta non era «in linea con lo spirito delle norme europee ed italiane in materia di sicurezza e controllo delle frontiere e di contrasto all’immigrazione illegale».

Sono note le vicende che hanno portato le prime due navi, dopo una estenuante attesa ad attraccare nel porto di Catania – in base al diritto della navigazione, che prevede lo sbarco di naufraghi salvati in mare «nel primo porto sicuro» – , dove hanno potuto far sbarcare subito decine di donne, tra cui molte incinte, e di minori. Il governo ha tentato egualmente di tenere fermo il principio della fermezza, tante volte sbandierato in campagna elettorale, distinguendo tra soggetti «fragili», a cui veniva concesso lo sbarco, e il «carico residuale» (espressione che ha suscitato molte polemiche), costituito da coloro che non presentassero i segni di detta fragilità.

Questi ultimi avrebbero dovuto essere riportati indietro, fuori delle acque territoriali italiane, dalle stesse navi che li avevano raccolti in mare. Solo che i comandanti si sono rifiutati e, nel frattempo, anche le autorità sanitarie, a cui era demandato il compito di operare questa selezione, hanno riconosciuto segni di fragilità in tutti i soggetti presenti sulle navi, a causa dei traumi subìti da quasi tutti loro nei lager libici da cui provenivano, e ne hanno perciò autorizzato lo sbarco senza eccezioni.

Una decisione di fronte a cui Giorgia Meloni non ha nascosto il suo disappunto, sottolineando che essa aveva aggirato le scelte dell’esecutivo: «Sui giornali ho letto stamattina titoli surreali, distanti dalla realtà», aggiunge la premier. «Ad esempio non è dipesa dal governo la decisione dell’autorità sanitaria di far sbarcare tutti i migranti presenti sulle navi Ong, dichiarandoli fragili sulla base di possibili rischi di problemi psicologici. Scelta, quella dell’autorità sanitaria, che abbiamo trovato bizzarra».  E in effetti si è trattato di un altro smacco per una destra che nel suo programma elettorale aveva promesso la «difesa dei confini nazionali ed europei (…) con controllo delle frontiere e blocco degli sbarchi» (n.6). Un’altra uscita a vuoto, dopo quella del decreto anti-rave, in questa frettolosa corsa a esibire la propria identità rispetto ai governi passati.

Lo scontro con il governo francese

Un parziale successo però sembrava venire dal fatto che almeno la terza nave, la Ocean Viking, dopo giorni di estenuante vagabondaggio, si stava dirigendo verso Tolone, dove il governo francese era disposto ad accoglierla per redistribuire i migranti che trasportava. Un premio, sembrava, alla linea politica indicata (anche se non attuata) da Giorgia Meloni, che infatti si era affrettata a ringraziare il presidente francese. E invece è successo un putiferio.

Macron – che pure era stato il primo premier straniero a incontrare la Meloni, a Roma e poi in Egitto, in colloqui definiti da entrambi cordialissimi – ha dichiarato che «Giorgia Meloni si è comportata male». Ancora più dure le reazioni di altri membri del governo francese. «È a titolo eccezionale che accogliamo questa nave (l’«Ocean Viking»), tenuto conto dei quindici giorni di attesa in mare che le autorità italiane hanno fatto subire ai passeggeri», ha spiegato il ministro dell’Interno Gérald Darmanin, aggiungendo
che «è chiaro che ci saranno conseguenze estremamente gravi per le nostre relazioni bilaterali».

A fronte di questo «comportamento inaccettabile» la Francia ha deciso di sospendere l’accoglienza di 3.500 rifugiati al momento in Italia previsti dal “Meccanismo volontario di solidarietà”, un accordo sottoscritto da 19 Paesi Ue lo scorso 10 giugno in Lussemburgo, e ha invitato «tutti gli altri partecipanti» al meccanismo di ricollocamento europeo dei migranti, «in particolare la Germania», a sospendere l’accoglienza dei profughi attualmente in Italia. Insomma, un disastro. Soprattutto tenendo conto dell’estremo bisogno che il nostro Paese ha in questo momento della solidarietà e dei fondi europei. Ne valeva va la pena? 

Certo, si può ben comprendere la costernazione di Giorgia Meloni e del ministro Piantedosi, che hanno definito questa reazione «sproporzionata». E sicuramente lo è, se si prescinde dal contesto delle motivazioni che possono averla motivata dal punto di vista degli equilibri interni francesi. Ma la politica deve saper fare i conti anche con queste variabili e la Meloni lo dovrà imparare a sue spese. Sicuramente sta cominciando a rendersi contro che è più facile condannare le scelte degli altri, stando all’opposizione, che farne di giuste governando. E forse un po’ si pente, in cuor suo, di aver definito «Repubblica delle banane», l’Italia che Draghi le ha consegnato.

 

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