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Radiografia di una riforma: l’autonomia differenziata

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Una riforma epocale

Il varo, il 2 febbraio scorso, del disegno di legge sull’autonomia differenziata costituisce forse il primo passo veramente significativo che il governo di Giorgia Meloni ha fatto per realizzare gli ambiziosi propositi di cambiamento più volte enunciati alla vigilia delle elezioni. Insieme all’altra grande riforma prevista nel programma della destra – il presidenzialismo – , quella dell’autonomia riguarda, infatti, la struttura stessa dello Stato e, se passasse, comporterebbe una svolta epocale nella storia della nostra nazione.

Con la differenza, rispetto al presidenzialismo, che in questo caso non si tratterebbe di cambiare la nostra Costituzione, ma semplicemente – come viene spesso sottolineato dai fautori della riforma – di applicarla.

La modifica in questo senso del Titolo V della Carta costituzionale fu infatti realizzata già nel 2001, con l’approvazione della legge costituzionale n. 3, per volontà della maggioranza, che allora era di centrosinistra, sotto la presidenza di Giuliano Amato.

L’intento era quello di vanificare le spinte tendenzialmente secessioniste portate avanti dalla Lega, che oggi si appella a questa riforma costituzionale – finora rimasta inapplicata – chiedendone l’attuazione, mentre, paradossalmente, a cercare di bloccarla sono le opposizioni di sinistra.

In ogni caso, al di là delle contrapposizioni tra i partiti, ci sembra che,  dato il rilievo dell’iniziativa del governo, essa meriti un esame approfondito.

Di che cosa si tratta

L’articolo 116, terzo comma della Costituzione, nel testo riformulato del 2001, prevede la possibilità di attribuire forme e condizioni particolari di autonomia alle Regioni a statuto ordinario (c.d. “regionalismo differenziato” o “regionalismo asimmetrico”, in quanto consente ad alcune Regioni di dotarsi di poteri diversi dalle altre).

Nel nuovo testo costituzionale, le materie su cui potranno essere raggiunte le intese tra lo Stato e le Regioni a questo scopo sono elencate all’art. 117 e sono:

«Rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni;

commercio con l’estero;

tutela e sicurezza del lavoro;

istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale;

professioni;

ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi;

tutela della salute;

alimentazione;

ordinamento sportivo;

protezione civile;

governo del territorio;

porti e aeroporti civili;

grandi reti di trasporto e di navigazione;

ordinamento della comunicazione;

produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia;

previdenza complementare e integrativa;

coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario;

valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali;

casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale;

enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale».

Inoltre nello stesso articolo si afferma che «spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato».

In coda si precisa che «nelle materie di sua competenza la Regione può concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali interni ad altro Stato, nei casi e con le forme disciplinati da leggi dello Stato».

Come si vede l’autonomia prevista dalla Costituzione è potenzialmente amplissima. Naturalmente non è detto che le Regioni la chiedano per tutto l’arco di queste materie, ma possono farlo.

Ovviamente, quelle che vorranno avvalersene avranno bisogno di adeguate risorse, che consentano loro di svolgere le nuove funzioni attribuite alla loro competenza e che, secondo il disegno di legge, potranno essere assegnate loro dallo Stato attraverso compartecipazioni al gettito fiscale maturato nel territorio regionale.

Gli aspetti positivi

Dei vantaggi sarebbero indubbi. Il più evidente è che verrebbe definitivamente superata la logica – che ha segnato il nostro Stato fin dalla sua nascita –  di una burocrazia piramidale e pachidermica, valorizzando il rapporto diretto dell’amministrazione regionale col territorio, mettendola in grado di recepire più immediatamente le specifiche esigenze degli abitanti e, al tempo stesso, rendendola maggiormente responsabile nei loro confronti dell’uso delle risorse a disposizione.

In questo senso il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, al termine della Conferenza delle Regioni che ha approvato, a maggioranza (tranne quattro Regioni del centrosinistra), il progetto di legge del ministro Calderoli, ha parlato della riforma come di una «possibilità di valorizzare le tante diversità che esistono nel nostro Paese» e di «rendere risposte più efficienti ai bisogni dei territori e dei cittadini». Motivazioni forti, che hanno spinto Fontana a definire «risibili» quelle delle Regioni che hanno preferito votare contro.

«Il centralismo», ha commentato a sua volta il governatore del Veneto, Luca Zaia, «è l’equa divisione del malessere, l’autonomia è l’equa divisione del benessere». E questo, secondo lui, vale per tutti, comprese le Regioni del Sud: «Questa Italia a due velocità deve finire e le Regioni devono essere tutte messe nelle condizioni di dare servizi e risposte ai loro cittadini; senza lasciare indietro nessuno».

I problemi sul piano tecnico-finanziario

Dei problemi, tuttavia, sono innegabili. Già sul piano meramente finanziario. Un giornale che non è certo sospetto di essere “di sinistra”, come il «Sole24ore», pur apprezzando gli aspetti positivi del disegno di legge, ammette che esso comporterebbe «una crescita del bilancio regionale ed un ridimensionamento di quello statale, per via della diversa allocazione del gettito fiscale».

Da qui l’interrogativo: «Riusciranno i conti a quadrare o lo Stato dovrà giocoforza rinunciare a gran parte delle sue politiche economiche e sociali?» (Francesco Bruno sul «Sole 24ore.com», 15 novembre 2023).

Proprio in rapporto a questa domanda il disegno di legge prevede che l’attuazione della riforma sia subordinata alla determinazione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP) concernenti i diritti civili e sociali di cui tutti i cittadini italiani, in quanto tali, devono poter godere.

Solo che – leggiamo sempre sul «Sole24ore», «lo Stato, per definire e per garantire i LEP in tutta la nazione, dovrà spendere molto. Per farlo, dovrà ridurre la spesa pubblica e/o aumentare le tasse e/o incrementare il debito. Politicamente ciò non è semplice».

I problemi sul piano politico

Al di là del problema strettamte finanziario, ce n’è uno politico che riguarda il bene comune dell’Italia. La tesi del ministro Calderoli e dei governatori  favorevoli è che l’autonomia gioverebbe anche alle Regioni del Sud. È vero?

Secondo l’Istat, in un focus denominato “I divari italiani nel Pnrr”,  nel 2021 il prodotto interno lordo (Pil) pro-capite italiano è stato pari a 33 mila euro circa. Una cifra che scende a 18 mila nel Sud. La Regione italiana con il Pil pro-capite più basso è la Calabria, a quota 17.500 euro, seguita dalla Sicilia a 18.200 euro. Il “gap” tra le due regioni più meridionali d’Italia e la prima in classifica, il Trentino Alto Adige, che sfiora quota 44 mila euro, è di circa 26 mila euro.

Basterebbero questi dati a far dubitare fortemente che il venir meno della redistribuzione di risorse – fino ad oggi possibile –  tra Nord e Sud finisca per avvantaggiare anche le Regioni meridionali.

E questo è tanto più evidente in quanto, secondo il disegno di legge Calderoli approvato dal governo, la ripartizione dei fondi fra le Regioni – che, fino ad oggi, viene effettuata in base ai fondi spesi negli anni precedenti (“spesa storica”) –  dipenderà invece dall’ammontare delle tasse pagate dai cittadini residenti nel loro territorio. Con la conseguenza che il livello dei servizi nella Regione non dipenderebbe dai “bisogni”, che tutto sommato sono simili sia al Nord che al Sud, ma dal “reddito” regionale, cioè dal parametro che, come abbiamo appena visto, più macroscopicamente registra l’abissale divario tra le due aree del paese.

E, se sono realistiche le perplessità sopra esposte nell’articolo del «Sole24ore», neppure l’appello ai LED può costituire una soluzione, perché anche questi non avrebbero nella realtà una possibile copertura da parte dello Stato.

Resta da spiegare come i governatori di Regioni come la Sicilia e la Calabria abbiano approvato anche loro, nella Conferenza delle regioni tenutasi all’inizio di marzo, il progetto di legge Calderoli. Ma forse dovrebbero essere loro a spiegarlo meglio.

Il problema dell’unità nazionale

Ma, al di là della sperequazione tra le Regioni, qualche domanda non può non porsi anche riguardo all’impatto dell’autonomia sull’unità nazionale.  

Sarà ancora un unico paese l’Italia il giorno in cui i sistemi scolastici regionali saranno diversificati strutturalmente e, col tempo, inevitabilmente, anche dal punto di vista dei contenuti (sfruttando sempre più  la libertà che già ora l’autonomia  consente)? Quando il commercio con l’estero di una regione la porterà a legarsi a Stati stranieri che invece non hanno legami con le altre regioni? Quando la ricerca scientifica, la previdenza sociale, il sistema tributario sarà diverso da regione a regione?

Per non dire che è molto probabile che si instaurino fra Nord e Sud gli stessi meccanismi discriminatori che oggi portano a “difendere le frontiere” nei confronti dei migranti provenienti dall’Africa e dall’Asia. Già in passato in qualche bando di concorso al nord si escludevano i laureati di università meridionali.

Non ci sarebbe da stupirsi se gradualmente criteri di selezione o almeno di priorità – “prima i nostri figli!” – cominciassero a scattare anche per l’accesso a posti pubblici, a ospedali, a scuole…

Neppure alle Regioni del nord, però, tutto questo, in ultima istanza, gioverà. Il mondo attuale va verso forme di aggregazione, sempre più necessarie per difendere efficacemente, a livello internazionale, i propri interessi. La Lombardia o il Veneto scopriranno prima o poi, a loro spese, che far parte di un grande Stato unitario aveva i suoi vantaggi.

Il dibattito, ovviamente, rimane aperto a tutte le letture. A patto, naturalmente, che ci si ricordi di tener conto della realtà.

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