In merito alla rilevanza della pietà popolare, assai importante nei riti della settimana santa che ci avviamo a celebrare, abbiamo intervistato don Massimo Naro. Presbitero della diocesi di Caltanissetta, Naro è direttore del Centro Studi sulla Cooperazione “Arcangelo Cammarata” e docente di Teologia sistematica presso la Facoltà Teologica di Sicilia.
Don Naro, quali sono le caratteristiche principali della religione popolare?
Quando parliamo di religione popolare dobbiamo pensare a un insieme non solo di credenze ma anche di riti, di gesti, di segni, che si reiterano e si tramandano lungo il tempo. È qualcosa di storicamente formatosi, che si sperimenta nella trasmissione da una generazione all’altra e che, comunque, si vive nel rapporto con gli altri, individualmente e comunitariamente.
La religione popolare è, di fatto, possibile sulla base o sullo sfondo dell’esistenza storica di un cristianesimo popolare, cioè di un cristianesimo storicamente maggioritario o che addirittura raccoglie o ha raccolto nel passato l’adesione unanime della popolazione e che è profondamente penetrato nella cultura diffusa e, anzi, ha contribuito in maniera decisiva a plasmarla. Un tale cristianesimo popolare, radicato nella storia siciliana, è l’esito di una presenza di annunzio del vangelo e di azione pastorale della Chiesa lungo i secoli che si è confrontata con le culture esistenti assumendole e influenzandole.
Non si può parlare, dunque, di contrapposizione tra Chiesa e religione popolare, anche se c’è stata, particolarmente a partire dalla riforma tridentina, la tendenza della gerarchia ecclesiastica a purificare la religione popolare da ciò che era ritenuto abuso e limite. Nella religione popolare rientrano infatti le devozioni promosse da personalità credenti esemplari e da correnti della spiritualità che si sono radicate nella consuetudine religiosa delle comunità ecclesiali, intrecciandosi spesso con istanze e tradizioni religiose locali.
E, ancora, non si può parlare – in epoca moderna post-tridentina – di contrapposizione ma di intreccio e perfino di continuità, pur nella distinzione, tra religione popolare e liturgia o culto ufficiale della Chiesa: si pensi, per esempio, alla predicazione sulle ultime parole di Gesù in croce, spesso inclusa nella liturgia del venerdì santo, a testimoniare che una prassi devozionale può ben avere una funzione non alternativa o suppletiva bensì integrativa nei confronti della liturgia. La religione popolare, insomma, si è formata storicamente, nell’intreccio tra azione pastorale e inculturazione del cristianesimo.
All’interno della religione popolare, molto radicata in Sicilia, affiora il mondo delle devozioni tradizionali. Perché simile realtà è importante per la Chiesa cattolica?
Negli anni dell’immediato postconcilio non si è prestata molta attenzione alla religione popolare. Si continuava ad averne cura. Ma in una buona parte del clero – specialmente quello più giovane e maggiormente aperto alle novità conciliari – c’era il sentimento talvolta confuso eppure robusto di un certo carattere residuale della religione popolare.
La riforma liturgica significava per loro la riscoperta della centralità del culto liturgico e superamento del dualismo tra liturgia e devozione popolare: il popolo di Dio avrebbe dovuto ritrovare la sua unità e il suo centro attorno all’altare nella liturgia e non più disperdersi nelle tante devozioni. Era la posizione che nel 1976 esprimeva con forza uno dei maggiori teologi liturgisti dell’epoca, Salvatore Marsili. Tuttavia, in quello stesso 1976, Paolo VI incoraggiava un’inversione di tendenza: nella sua esortazione apostolica Evangelii nuntiandi egli recepiva positivamente quella che chiamava più correttamente la “pietà popolare”, considerandola un fattore di liberazione e di promozione umana, lì dove e quando essa si lasciava ispirare dal vangelo e dalle sue esigenze etiche.
A partire da Paolo VI i vescovi e i parroci adottarono un atteggiamento pastorale di tolleranza verso la religione popolare. Più che prolungare con convinzione il dualismo cultuale lamentato da Marsili, si garantì una sorta di “ospitalità” nella prassi ordinaria ecclesiale alla pietà popolare. Ultimamente, al contrario, diventano sempre più frequenti gli interventi disciplinari, spesso di timbro punitivo, in funzione purificatrice della religione popolare, specialmente lì dove questa appare inficiata da infiltrazioni malavitose e addirittura mafiose. Non mi pare, nel complesso, che siano state le maniere più corrette e più efficaci di operare.
Mi pare invece giusto che alcuni teologi abbiano nel corso di questi ultimi anni raffinato l’importante intuizione che la questione della religione popolare non consiste solo nel recupero delle devozioni ereditate dal passato in un nuovo quadro pastorale, ma anche nel tentare la creazione di nuovi modelli di pietà in cui sia centrale il riferimento alla Scrittura e la celebrazione dei segni sacramentali secondo la lezione del Vaticano II.
Per riuscire in quest’impresa, c’è però una consapevolezza da acquisire: le antiche forme della religione popolare erano state introdotte o almeno sostenute dalla pastorale della Chiesa in un tempo e in un clima di cristianità, cioè di coincidenza tra comunità civile e comunità credente. Oggi invece le linee riformatrici del Vaticano Il sono da attuarsi in un contesto assai diverso, in cui la vita ecclesiale di svolge in una società secolarizzata.
Spesso nel Sud Italia, la religione popolare rischia di confluire nel grande contenitore del folklore. È un problema sul quale la Chiesa deve vigilare?
Per quanto riguarda lo snaturamento della religione popolare in prospettiva culturale e turistico-commerciale, bisogna registrare lo slittamento dalla pietà popolare al folklore, vale a dire – come dice il termine coniato nel 1846 dallo scrittore inglese William John Thomps: folk-lore – il passaggio da un’espressione di “fede ecclesiale” a un’espressione di “sapere popolare”. Questo passaggio fu motivato, a metà Ottocento, da interessi scientifici: era l’epoca in cui si affermavano ovunque – anche qui in Sicilia con Giuseppe Pitré – le ricerche di antropologia culturale e gli studi etnografici, demoscopici, sociologici.
È un fenomeno che in molte parti di Sicilia e per diverse manifestazioni della religione popolare si riscontrerà solo a partire dagli anni settanta del Novecento, allorché le amministrazioni locali cominciano a valorizzare turisticamente le tradizioni religiose, finanziandone lo svolgimento e decidendone la programmazione, al fine di esaltarne i risvolti spettacolari, magari recuperando tradizioni ormai dismesse da molti decenni o persino inventandone di nuove.
Da un punto di vista interno all’orizzonte ecclesiale, non c’è da scandalizzarsene. Semmai dovrebbe destare una certa perplessità il fatto che, talvolta, in ambito peculiarmente liturgico si finisce per recepire acriticamente le superfetazioni coreografiche rappresentate da pittoreschi cortei in costume che si innestano abusivamente nell’azione liturgica in occasioni solenni come la messa di Natale (pensate ai figuranti vestiti da pastori con al seguito qualche pecora belante) o come la messa dell’Epifania (pensate ai figuranti vestiti da magi che irrompono fino ai piedi dell’altare portando i doni dell’offertorio).
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