Le tende contro il mercato
Il moltiplicarsi delle tende impiantate dagli studenti davanti alle sedi universitarie è diventato il simbolo di una protesta che immediatamente riguarda il costo eccessivo degli affitti e che ha, però, anche altri significati su cui vale la pena di soffermarsi.
Ma cominciamo dal livello più immediato, quello logistico. Il caro-affitti, nelle città universitarie, ha raggiunto livelli insostenibili (si calcola che nel giro di due anni l’aumento sia stato del 20%). E colpisce la fascia più vulnerabile degli studenti, quelli fuori-sede. Ragazzi le cui famiglie fanno già grandi sacrifici per mantenerli agli studi accollandosi, oltre il costo delle tasse universitarie, anche quello del mantenimento in una città diversa dalla propria.
Ragazzi, bisogna aggiungere, che vivono loro stessi una condizione problematica, lontani come sono dal luogo dove sono cresciuti e dove, oltre a poter contare sulla famiglia, hanno una rete di amicizie, a volte anche legami sentimentali, che tentano disperatamente di mantenere malgrado la distanza materiale, attraverso Whatsapp o Skype, sperimentando però sulla loro pelle la differenza tra i rapporti “veri” e quelli solo virtuali.
La maggior parte proviene dal Sud, che ormai da diversi anni conosce un esodo di cervelli e di competenze a favore delle università del Nord. Un fenomeno disastroso per il Meridione, che risulta così sempre più desertificato, spogliato com’è delle sue risorse umane più qualificate. Dove il problema non è tanto il livello dei docenti – ce ne sono di ottimi anche negli atenei meridionali – ma le diverse opportunità che si aprono a livello lavorativo, già prima della laurea, a uno studente che esce da una università di Milano o di Bologna e uno che acquisisce lo stesso titolo in quella di Palermo.
Sono questi giovani “migranti” che le cosiddette “leggi del mercato” costringono a vivere, nelle città dove studiano, accampati in alloggi spesso squallidi, condivisi con estranei, pagati a prezzi esorbitanti, sfruttando il bisogno assoluto che essi hanno di trovare comunque un tetto. Ennesimo esempio di come la società neocapitalista sia organizzata in modo da penalizzare i più deboli, al di fuori di ogni criterio di umanità.
Risposte inadeguate
Questa situazione ha radici remote e non può certo essere imputata a un governo in carica da pochi mesi che ora, davanti al montare del malcontento, sta cercando di tamponare, sbloccando 660 milioni destinati ad attenuare, se non a risolvere, il disagio.
Ciò che può essere imputata alla destra al governo, invece, è la rozzezza della risposta che alcuni dei suoi membri ha ritenuto di dare alla protesta dei ragazzi. Spicca quella del ministro della Pubblica Istruzione, Valditara, che non perde occasione per mostrare la sua difficoltà culturale a sintonizzarsi con le istanze educative a cui il suo ministero dovrebbe rispondere.
Aveva già dato prova di sé stigmatizzando pubblicamente la bella lettera in cui una preside di Firenze aveva richiamato gli studenti del suo liceo a ribellarsi alla cultura dell’indifferenza e a rimanere vigili contro ogni forma di violenza e di chiusura.
Adesso, davanti a una protesta che esprime disperazione, il ministro ha ritenuto opportuno spostare il discorso sul piano della polemica partitica, precisando che la responsabilità della situazione è dei sindaci di sinistra. Una lettura che ha indignato perfino un altro membro del suo stesso governo, Anna Maria Bernini, la responsabile dell’Università, la quale ha sottolineato, in polemica col collega, che il problema va affrontato ben al di là delle beghe di parte.
Altrettanto scoraggiante è stata la reazione di Matteo Savini, ministro delle Infrastrutture, che, nella fretta di sfruttare retoricamente la situazione, ha deprecato che nel suo dicastero non ci sia mai stata «una direzione riservata agli affitti degli studenti, degli impiegati, degli operai» e si è personalmente impegnato a crearla, salvo a scoprire che l’ufficio c’è già e che era lui a non conoscerne l’esistenza. A conferma delle accuse che gli vengono rivolte di dedicarsi più ai giri elettoli nelle piazze che al suo lavoro di ministro.
A queste “uscite a vuoto” fanno eco quelle dei giornali di destra, come «Libero», che ha titolato, in prima pagina: «Fatevi il mazzo non la tenda» e il cui direttore, Vittorio Feltri, nel suo editoriale, scrive che «è ovvio, un’antica abitudine, che le persone poco abbienti (…) pretendano comunque di vivere come i ricchi. Esse non ragionano ma voglio ottenere certi beni (…). Non sanno, o non vogliono sapere, che in tutte le capitali, non solo d’Europa, un monolocale costa un occhio della testa quanto nei pressi della nostrana Madonnina». E si appella al «mercato», contro cui «è assurdo protestare».
Un disagio più profondo
Ma l’immagine di questi ragazzi e ragazze che hanno dovuto trasferirsi nelle tende, per far capire a una società di adulti la loro condizione, evoca un disagio più profondo di quello riguardante il caro-affitti. Il nostro non è un paese per giovani. Basti pensare al problema del lavoro. Il caso di quelli del Sud, che, per sperare di trovarne uno, devono andare a studiare e a vivere lontano dalle loro case, è emblematico.
Ma il problema riguarda le nuove generazioni nel loro complesso. Pochi decenni fa si cominciava a lavorare prima dei venticinque anni. Oggi quasi dieci anni dopo. E l’impiego, che una volta nella maggior parte dei casi era definitivo, ora è quasi sempre a tempo determinato, lasciando aperta l’incognita del futuro. (Proprio nel Consiglio dei ministri del 1 maggio, che voleva simbolicamente evocare la centralità del lavoro agli occhi del governo, si è incrementato il sistema dei voucher, favorendo ulteriormente lo sfruttamento del precariato).
La ricaduta sulla possibilità di questi giovani di mettere su una famiglia è sotto gli occhi di tutti. Ci si sposa sempre più tardi. Nell’attesa si convive. La tanto deprecata diminuzione della natalità è una conseguenza inevitabile sia di questi matrimoni tardivi, rispetto ai tempi di fecondità della coppia, sia dell’incertezza del “tempo determinato”, sia dalla mancanza, soprattutto nel Meridione, di quella rete di supporti e di servizi che in altri paesi rendono possibile alle donne di affrontare la maternità senza dover rinunziare al lavoro.
Se l’essere attendati è un simbolo di provvisorietà e di fragilità, se confrontato con l’abitare in una vera casa, la protesta delle tende esprime bene non solo l’esclusione di questi giovani da appartamenti troppo cari, ma una condizione esistenziale che li tiene ai margini della società e li deruba del futuro.
La nostalgia di una vera “casa”
Vi è, infine, un terzo livello di significato, a cui l’immagine degli studenti accampati nelle nostre piazze fa pensare. Al di là del luogo materiale in ci si può vivere, al di là di un contesto sociale ed economico accogliente in cui essere inseriti, ciò di cui i giovani oggi vivono la mancanza è un orizzonte di valori che consenta loro di dare un senso ai loro problemi e alle loro esperienze. Perché noi adulti, a nostra volta, non abbiamo più certezze e non siamo in grado, perciò, di comunicarle ai nostri figli.
Viviamo in un mondo in cui gli imponenti palazzi delle ideologie sono miseramente crollati. Per certi versi bisogna rallegrarsene, perché queste belle costruzioni facevano pagare la sicurezza con la rinunzia a pensare. Il guaio è che al loro posto è rimasto il vuoto. E anche il vuoto non favorisce la riflessione e la ricerca, perché spinge le persone a riempirlo moltiplicando gli stimoli superficiali e i miraggi illusori che possono fare da surrogato al senso, fino al punto da dimenticare che se ne ha disperatamente bisogno.
È questa la condizione di tanti giovani che al vuoto si sono arresi. Emblematico il caso dei NEET (Not in employment, education or training) – persone che non studiano, non lavorano né cercano lavoro – , che in Italia rappresentano il 25,1% della popolazione compresa tra i 15 e i 34 anni (circa tre milioni di giovani). Ma tanti altri, che pure sono studenti o lavoratori, si sono abituati a questa desertificazione valoriale e l’accettano come normale.
Da questo punto di vista la tenda – riparo, ma provvisorio – può essere il richiamo alla consapevolezza che non ci si può rassegnare a non avere una casa e che quella in cui abitiamo attualmente non lo è.
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