La vera impresa di Berlusconi
Quando muore un uomo, il solo commento rispettoso sarebbe il silenzio. Se però quest’uomo è anche un personaggio pubblico, come nel caso di Silvio Berlusconi, ci si trova di fronte a un diluvio di parole che esigono, in qualche modo, una risposta.
Lasciando intatto il mistero del singolo, su cui il Vangelo ci invita a non pronunziare giudizi inevitabilmente superficiali e ingiusti, è del personaggio che siamo in qualche modo costretti a parlare. Tanto più che, così come nel corso della sua vita, anche nella sua morte esso, con la proclamazione della giornata di lutto nazionale e le bandiere a mezz’asta in tutto il paese, trasborda dai limiti del suo ruolo di leader di un partito e si impone all’immaginario collettivo come icona dell’Italia intera.
È quello che ha notato, acutamente, sul «Corriere della Sera», Aldo Cazzullo in un commento intitolato «Sedusse un paese»: «La vera impresa di Berlusconi non fu fondare le TV private o un partito che in tre mesi divenne il primo d’Italia. Quella fu se mai la conseguenza. La vera impresa di Berlusconi fu far sì che la maggioranza degli italiani si identificasse in lui».
Questa è stata un’operazione che va molto al di là degli aspetti strettamente imprenditoriali e politici dell’attività e dei successi del “cavaliere”. Un’operazione propriamente culturale e, in un certo senso, “educativa”.
Berlusconi non è stato solo un manager di eccezionali capacità imprenditoriali, non è stato solo per buona parte del corso della Seconda Repubblica, il capo indiscusso della destra, governando più a lungo di qualunque altro premier: è stato un maestro. Buono o cattivo, questo è da vedere, ma sicuramente efficacissimo. E oggi il clima che si respira nel nostro paese è in buona parte il risultato della sua pedagogia. Sulle cui modalità e sui cui contenuti vale dunque la pena di fermarsi a riflettere.
L’avvento della televisione commerciale
La prima cosa che colpisce è il carattere non convenzionale dei canali attraverso cui l’influenza culturale del “cavaliere” è stata trasmessa. Non sono state le agenzie educative tradizionali – la famiglia, la scuola, la Chiesa – a operare in questo senso, ma una perfetta combinazione fra la nuova formula della Tv commerciale, introdotta da Berlusconi per la prima volta in Italia, e una disinvolta gestione della sua immagine pubblica.
Fino all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso la televisione era gestita dallo Stato e, pur sottoposta a qualche inopportuna censura, svolgeva una funzione davvero “pedagogica”, nel senso migliore del termine. È stato grazie ad essa che il grande pubblico ha potuto conoscere splendide opere teatrali, come i drammi di Pirandello e di Cechov, o riduzioni della grande letteratura mondiale, come «Il mulino del Po», di Bacchelli e «L’idiota» di Dostoevskij, trasmessi in prima serata.
Ed è stato grazie ad essa che la conoscenza media della lingua italiana si è diffusa anche a larghe frange di popolazione prima legata quasi esclusivamente al proprio dialetto. Era una TV che sapeva anche divertire – famosi alcuni spettacoli di varietà come «Domenica è sempre domenica» o «Un due tre» – ma senza mai scadere nella volgarità.
La TV introdotta da Berlusconi era invece privata e mirava esplicitamente a conquistare, per mantenersi e garantire dei profitti, fette sempre maggiori di pubblicità. Doveva perciò intercettare non le esigenze più profonde del pubblico, ma i suoi gusti immediati, le sue pulsioni.
Con la TV commerciale è stato assunto come motto quello in cui Karl Popper, nel suo libro «Cattiva maestra televisione», individua il gravissimo pericolo di questo mezzo di comunicazione: «Dare al pubblico quello che il pubblico desidera». Dove per “desiderio” non si intendono certo le più nobili aspirazioni all’elevazione dello spirito, ma le pulsioni superficiali e impellenti che covano dentro ciascuno e che lo schermo televisivo, con la sua efficacia rappresentativa, si prestava benissimo a soddisfare.
È stato così che si è innescato un circuito perverso tra il progressivo scadimento dei programmi – che ha portato alla esclusione dalla prima serata di tutto ciò che fosse in qualche modo impegnativo, a favore di spettacoli come «Il Grande Fratello» o le trasmissioni di Maria De Filippi – e un progressivo imbarbarimento dei gusti degli spettatori.
A essere vittima di questo graduale deterioramento è stato innanzi tutto il senso del pudore. Non solo e non tanto di quello che vela i corpi, ma di quello che dovrebbe custodire gelosamente le anime delle persone.
Tutto – sentimenti, vicende intime, perfino idee (le poche che rimanevano) – è diventato spettacolo per la curiosità vorace dei telespettatori, oggetto da esibire per conquistare qualche punto in più di gradimento, da far valere nelle contrattazioni con le agenzie della pubblicità.
E anche la televisione pubblica ha finito per doversi uniformare a questo stile, perseguito in Italia con una coerenza che la TV commerciale in altri paesi, dove pure era presente da prima che da noi, non ha mai avuto.
La cancellazione del confine tra privato e pubblico
La distruzione del pudore ha caratterizzato anche lo stile personale di Berlusconi. A livello privato come a quello pubblico. In realtà, nella sua storia il confine tra queste due sfere è stato cancellato.
Ciò che avrebbe dovuto costituire la sua storia personale, da difendere accuratamente di fronte allo sguardo indiscreto dei cronisti e delle telecamere, è stato usato disinvoltamente come immagine sbandierata per abbagliare il grande pubblico e per attirare consensi elettorali.
È stato così che il successo di una ascesa imprenditoriale tutt’altro che lineare – stando alla condanna definitiva del “cavaliere” per truffa – è stato sfoggiato come garanzia di una pretesa capacità di governo della cosa pubblica; che la ricchezza e il lusso di un tenore di vita sconosciuto alla stragrande maggioranza sono stati ostentati per suscitare l’ammirata invidia di chi poteva solo sognarseli; che un comportamento sessuale sfrenatamente vorace è diventato il marchio di identificazione del personaggio Berlusconi.
Dove, per quanto riguarda quest’ultimo punto, va precisato che non si è trattato, come ormai in tanti paesi europei, del trionfo del libero amore. Il “cavaliere” le donne le seduceva o le comprava – con i suoi regali e a volte direttamente con i suoi soldi – , in un rapporto che non aveva nulla della reciprocità necessaria a garantire la dignità di entrambi i partner.
Sta di fatto che tutto questo, come scrive Cazzullo, ha spinto gli italiani a identificarsi con questa figura, in cui vedevano proiettati i loro sogni segreti, finalmente sdoganati dalle vecchie remore della morale tradizionale e in cui potevano riconoscersi senza alcun pudore. Al di là dell’uomo in carne ed ossa, il personaggio Berlusconi è diventato in qualche modo una specie di “ologramma” rappresentativo di tutto questo.
Certo, c’è da chiedersi quale autenticità avesse l’adesione della gente alle regole di una morale cattolica ormai spesso ridotta a una forma vuota. Come dice l’etimo del verbo “educare” (dal latino e-ducere, trarre fuori), Berlusconi non ha dovuto inventare il vuoto e il fango che sono venuti alla superficie: li ha solo sollecitati ed evocati. Il resto l’abbiamo fatto noi.
Il tramonto del bene comune e della verità
In questa spudoratezza sono apparsi irrilevanti anche i grandi temi della politica, come quello del bene comune, ormai polverizzato nel gioco degli interessi privati. In questa logica si capisce anche l’incessante polemica contro le tasse – identificate come un «mettere le mani nelle tasche degli italiani» – , omettendo di ricordare che nessuno “si fa da sé” e che chi è più ricco lo è anche grazie all’insieme di servizi e di opportunità che la società gli offre. E che ridurre le imposte a chi sovrabbonda del superfluo – come Berlusconi ha fatto da governante – riduce le risorse da destinare per aiutare chi non ha il necessario.
Ma ad essere travolto, in questa grande opera educativa, è stato anche il pudore che dovrebbe trattenere dal falsificare troppo apertamente la realtà più evidente.
È accaduto così che gli italiani – compresa una parte consistente del parlamento – hanno potuto avallare la tesi che il “cavaliere” aveva davvero fatto rilasciare (abusivamente) una sua escort marocchina perché la credeva la figlia del presidente egiziano Mubarak; che la dimostrata connivenza con la mafia del suo braccio destro Dell’Utri – condannato in via definitiva – non lo riguardasse minimamente; e che la tempesta di procedimenti giudiziari a suo carico – molti dei quali elusi solo grazie alla prescrizione – derivasse solo dall’accanimento di magistrati “comunisti”.
L’Italia della Seconda Repubblica ora è finalmente “libera” dal pudore. Non solo grazie a Berlusconi, certo, ma in buona parte grazie a lui, che ne è stato la figura più rappresentativa e in qualche modo il simbolo. Perciò in fondo è giusto che l’attuale governo, frutto di questa storia, lo onori con una giornata di lutto nazionale.
Anche se noi abbiamo ancora il diritto di sperare che, dalle macerie di un’etica sia privata che pubblica evaporata in questi trent’anni, sia di nuovo possibile partire per ricostruire una convivenza civile degna di questo nome.
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