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“La partecipazione è l’anima della democrazia” – Intervista a Giovanni Grandi

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I cattolici in Italia tornano ad occuparsi di democrazia attraverso la 50ͣ Settimana Sociale. Il percorso di avvicinamento all’evento e la manifestazione che si terrà a Trieste tra il 3 e il 7 luglio del 2024 saranno incentrati sul tema della partecipazione alla vita democratica del Paese. Con questa scelta il Comitato Scientifico delle Settimane Sociali evidenzia che quello odierno è il tempo per prendersi cura della nostra democrazia al di là delle diffuse strumentalizzazioni ideologiche e delle semplificazioni demagogiche. Il percorso verso la prossima Settimana Sociale è iniziato con la pubblicazione del documento preparatorio intitolato Al cuore della democrazia. Partecipare tra storia e futuro che servirà da base di riflessione per i cammini diocesani. Di questo tema discutiamo con Giovanni Grandi. Professore associato di Filosofia Morale all’Università degli Studi di Trieste, Grandi è membro del Comitato Scientifico delle Settimane Sociali dei Cattolici Italiani. Tra i fondatori dell’iniziativa “Parole O_Stili” per la promozione di stili di comunicazione non violenti online (paroleostili.it), è autore di numerosi studi scientifici e saggi divulgativi in antropologia e filosofia morale.

– Professore Grandi, perché i cattolici italiani, attraverso le Settimane Sociali, tornano ad occuparsi di democrazia?

I cattolici non hanno mai smesso di occuparsi di democrazia, in fondo la celebrazione della cinquantesima edizione delle Settimane Sociali, dopo più di un secolo di storia, richiama proprio questa attenzione costante, sia dal punto di vista della riflessione sia soprattutto da quello della partecipazione attiva alla vita civile e del servizio nelle Istituzioni.

Negli ultimi anni però è cresciuta la consapevolezza di una fragilità diffusa nella cura della democrazia: c’è un’Italia impegnata, che vive generosamente quella dedizione al “progresso materiale o spirituale della società” a cui l’articolo 4 della Costituzione richiama tutti, ma cresce anche in volume un’Italia disaffezionata alla prospettiva di un futuro comune, un’Italia alle volte cinicamente disincantata, più spesso arrabbiata, certamente delusa, che per ragioni diverse sente di essere esclusa dai processi di individuazione delle priorità politiche.

L’astensionismo al voto è solo uno dei sintomi di questo malessere, che era ormai urgente mettere a tema, non certo per intonare una sorta di “de profundis” della democrazia, ma per svilupparne una diagnosi corale: partendo da qui è possibile prendere maggiormente coscienza delle risorse di ripresa e di rilancio che ci sono, e, allo stesso tempo, individuare azioni comuni e magari coordinate tra tanti attori, per intensificare la cura per il bene comune e sollecitare tutti a farlo.

– Spesso nella vita politica del nostro Paese si registra l’assenza di una sorta di “anima” dei processi democratici che in una società plurale come la nostra coincide con i valori costituzionali della libertà, della giustizia, della solidarietà e della sussidiarietà. Siamo chiamati, allora, a ristabilire il legame tra democrazia e valori?

Il più solido legame tra democrazia e valori è quello che si può coltivare nella coscienza dei cittadini e che, in radice, si concretizza in qualcosa di molto semplice a dirsi ma difficile da realizzare: la lotta costante, in se stessi, contro la tendenza all’autoaffermazione.

Platone la chiamava “philautia”, un amore eccessivo per se stessi – e, a caduta, per il proprio gruppo, per la propria “parte” sociale o politica –, una patologia dell’anima che si esprime parassitando tutti i valori appena citati: bene la libertà, se non la si intende come indiscutibilità dei propri desideri; bene la giustizia, se non la si vive sempre come vittime, mai come responsabili; bene la solidarietà, se non rimane qualcosa di invocato per sé e non di offerto, con i sacrifici che comporta …

Quel che dovremmo considerare più attentamente è che non siamo affatto vivendo una crisi dei valori, ma piuttosto uno sbilanciamento diffuso (ed è questo il vero problema) nella prospettiva di accesso ai valori, che è di tipo rivendicativo: li traduciamo prevalentemente nel lessico dei “nostri” diritti e poco e malvolentieri in quello dei “nostri” doveri.

La democrazia è invece un equilibrio interattivo tra offerta di disponibilità e richieste, tra il contribuire e l’essere soccorsi. Questo equilibrio, se da un lato ha bisogno di una buona architettura istituzionale e di politiche attente, dall’altro ha bisogno di una certa cura dell’interiorità, per non lasciarsi catturare dalle dinamiche di autoreferenzialità che già preoccupavano Platone.

Anche per questo, nei lavori della Cinquantesima Settimana, vorremmo provare a evidenziare come la democrazia abbia bisogno di “manutenzione” ordinaria e di costante attivazione a più livelli: personale, sociale e istituzionale.

– Il tema centrale della 50ͣ Settimana Sociale è quello della partecipazione che per il documento preparatorio è un «elemento trainante, potente energetico, che rinforza l’unità, o – meglio – partecipando, esponendosi, ascoltandosi, ci fa riscoprire fratelli, più uniti e un po’ più coraggiosi». Possiamo dire che senza partecipazione non c’è democrazia?

La partecipazione è il presupposto e l’anima della democrazia, ed è chiaro che non si esprime solo nell’andare alle urne o nella forma istituzionale di governo: sempre di più ci stiamo anzi accorgendo che è ben possibile indebolire la democrazia pur conservandone le forme; anche nel linguaggio comune ora circolano termini come “democratura” o “autocrazia”, che segnalano queste derive.

La partecipazione che mantiene in salute le forme e le istituzioni è però quella che si realizza ogni giorno nel calcare i sentieri – belli ma insieme faticosi, senza dubbio – che favoriscono l’incontro, l’ascolto, la riflessione non frettolosa, il dialogo, la condivisione.

Il frutto più importante dell’incontrarsi non è però l’unanimità né tantomeno l’uniformità, quanto piuttosto il riconoscersi più profondamente prossimi: partecipare significa mettersi nelle condizioni di avvertire l’umanità delle altre persone, percepirsi “sulla stessa barca” ma non – come è accaduto nella pandemia – solo perché minacciati da un male comune, quanto piuttosto perché portatori dello stesso desiderio di bene, di vita, di reciproco sostegno, di fraternità per cui spendersi.

Jacques Maritain diceva che la democrazia è il fragile vascello a cui sono affidate le speranze terrene dell’umanità, e credo che avesse in mente proprio questo: un modo di vivere insieme che, con tutti i suoi limiti, ci forza benevolmente a stringerci gli uni agli altri, consentendoci così di scoprire anche quel che ci accomuna profondamente e che – appunto – chiamiamo “umanità”.

– Quale apporto, a suo parere, i cattolici possono offrire al fine di superare l’attuale crisi della democrazia? La stagione dei partiti d’ispirazione cristiana è ormai alle spalle?

L’apporto dei cattolici – come del resto di tutti i cittadini – è multiforme, e si esprime in modo diverso in ambito sociopolitico. Certamente la presenza nel “sociale” rimane più semplice da elaborare “da cristiani” – come avrebbe detto ancora Maritain in Umanesimo Integrale o “da cattolici”, secondo la trascrizione di Giuseppe Lazzati –, perché qui l’impegno si può declinare anzitutto secondo le capacità specifiche e la vocazione di ciascuno, non è a tema la ricerca del consenso, né ci si propone come portatori di una visione unitaria (la prospettiva dell’“in quanto” cristiani o cattolici).

Il tema della ispirazione cristiana nell’impegno politico è invece oggi un campo di riflessione aperto, specialmente per quanto riguarda il rapporto con la forma partito, dunque con la questione del consenso e del dar voce a una sensibilità sociale articolata, che non può esaurirsi in questo o quel tema particolare. Giustamente, gli studiosi attenti al dettato costituzionale ci mettono in guardia dall’antipartitismo, perché queste formazioni rappresentano uno snodo cruciale per la partecipazione, quantomeno per come la prevede la nostra Carta fondamentale.

È illusorio pensare di declinare l’impegno per il bene comune senza passare attraverso i partiti, a meno di non rinunciare a elaborare politiche per il sistema Paese e a candidarsi anche per assumere la responsabilità delle Istituzioni. Detto questo, oggi il problema più rilevante è forse proprio l’occasionalità, quando non l’assenza, del dibattito diffuso e di base nei partiti stessi: l’ispirazione cristiana non è un prontuario di ricette, è una visione integrale (ma non integralista), una visione “ecologica”, che poi si declina proprio attraverso il confronto, l’approfondimento, la mediazione con i limiti delle situazioni contingenti… Se manca il dibattito, l’ispirazione rischia sempre di convertirsi in parola d’ordine, in un ricorso ostentato ai simboli, e questo può accadere tanto in una formazione pluralista, quanto in una programmaticamente “ispirata” all’insegnamento sociale della Chiesa.

Da questo punto di vista, l’esigenza avvertita da molti cattolici di una interlocuzione non occasionale né di tipo lobbistico tra i luoghi del sociale e quelli del politico mi pare che inviti tutti, e non solo i cattolici, a riflettere anzitutto sui modi e i percorsi del dibattito pubblico e nei partiti, specie in un tempo in cui molto, probabilmente troppo, è affidato all’immediatezza dei social media.

– Sin dall’Evangelii gaudium del 2013, papa Francesco ci invita a «non possedere spazi ma a iniziare processi». In concreto cosa può significare questa espressione per una nazione, come quella italiana, che è stata governata per cinquant’anni da un partito d’ispirazione cristiana?

L’espressione è molto suggestiva e richiama quella prospettiva che segnalavo all’inizio: la “cosa pubblica” non è un possesso privato o di gruppo, e il potere stesso è affidato ad alcuni ma per il bene di tutti: mantenersi nella prospettiva del servizio e non scadere in quella del possesso è una questione anzitutto morale e spirituale, e non c’è secolo della tradizione cristiana in cui questa coscienza non sia stata ripresa e ribadita. E, aggiungiamo, non c’è secolo in cui questa prospettiva non sia stata incarnata in modo esemplare e, allo stesso tempo, tradita nei modi più eclatanti dagli stessi cristiani. Il papa ha legato un “non” – riferito appunto al possesso – a una prospettiva alternativa: all’insediarsi con fare auto-conservativo raccomanda di preferire un avviarsi con fare esplorativo, questo significa “iniziare processi”.

Giustamente ci si può chiedere se non sia paradossale aspettarsi qualcosa di nuovo da quella componente del popolo italiano che ha nel bene e nel male fatto gran parte della storia del secondo dopoguerra. Tuttavia, non dobbiamo dimenticare che oggi sono diventate adulte nuove generazioni, le più recenti che si sono affacciate al voto sono nate e cresciute nel “berlusconismo”: se c’è un “post” da elaborare riguarda ormai questa lunga e controversa stagione, non certo più quella del partito di ispirazione cristiana. Non è detto però che quel che è più datato sia per questo superato e che non meriti di essere riscoperto anche dal punto di vista dello spirito, dello slancio, della lungimiranza.

Quanti italiani saprebbero oggi dire ad esempio chi sono e che cosa hanno in comune Laura Bianchini, Elisabetta Conci, Maria De Unterrichter Iervolino, Filomena delli Castelli, Maria Federici Agamben, Angela Gotelli, Angela Maria Guidi Cingolani, Maria Nicotra Verzotto e Vittoria Titomanlio? Sono – come ricordano in un libro freschissimo Angela Iantosca e Romano Cappelletto – le Madri costituenti provenienti dalla Democrazia Cristiana.

A loro dobbiamo molto proprio perché all’epoca hanno saputo precisamente avviare processi per il riconoscimento della dignità di tutti e di tutte, che si sarebbero compiuti solo anni dopo, ma grazie alle premesse che, insieme ad altre (poche) donne – 21 in tutto – hanno innestato nella Costituzione. C’è allora bisogno di riabilitare uno sguardo lungo: occorre pensare l’Italia sociopolitica tra 20 anni, la democrazia e la partecipazione di cui il Paese avrà bisogno in un mondo in vorticoso movimento, e iniziare a gettare seme buono fin da ora, senza la fretta di raccogliere.

La cinquantesima Settimana Sociale vorrebbe essere un’occasione per coltivare e far emergere questo sguardo, che i cattolici hanno dato e certo possono continuare ad offrire al Paese.

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