Gli scandali
La pesante richiesta di una condanna a sette anni e tre mesi, avanzata dal promotore di giustizia vaticano nei confronti dell’ex “uomo forte” della Curia vaticana, il cardinale Angelo Becciu, nel processo per lo scandalo finanziario legato alla compravendita di un palazzo londinese, è solo l’ultimo atto di una serie di vicende che in questi ultimi anni hanno coinvolto figure di primo piano della Chiesa cattolica.
Recentissima è l’espulsione dalla Compagnia di Gesù di Marko Ivan Rupnik, un artista che in questi anni ha impreziosito con i suoi mosaici le chiese di tantissime diocesi. Questa volta l’imputazione è quella di gravi abusi sessuali. La stessa che ha oscurato la memoria di Jean Vanier, una personalità notissima del mondo cattolico per la sua opera di fondatore dell’“Arche” e per i suoi scritti spirituali.
Assai diversa e certamente molto meno grave, ma pur sempre inquietante, è stata la travagliata vicenda che ha portato all’allontanamento dal monastero di Bose del suo fondatore, Enzo Bianchi, accusato di aver esercitato in modo soffocante la sua autorità e di non avervi saputo rinunziare neppure quando, col suo consenso, era stato eletto un nuovo priore.
Questi casi individuali emergono, peraltro, sullo sfondo di una più generale perdita di credibilità dell’istituzione ecclesiastica, in particolare del clero, dopo l’ondata di denunce e di condanne che ha travolto in tutto il mondo cristiano molti suoi rappresentanti, accusati di pedofilia.
Una crisi culturale di fondo
Certamente si tratta di sintomi allarmanti di una situazione di crisi. Sarebbe un’illusione ottica, però, scambiarli per la sua causa. Questo è particolarmente evidente se si guarda il processo di scristianizzazione che ha colpito l’Europa, un tempo culturalmente permeata dalla prospettiva della fede e punto di partenza della sua diffusione missionaria nel resto del mondo.
Per quanto rilevante sia il peso degli scandali morali sull’opinione pubblica, il declino della Chiesa cattolica – e non solo di essa – nel nostro continente affonda le sue radici in una trasformazione culturale che in pochi decenni ha rivoluzionato la mentalità e i costumi.
Al di là delle accuse rivolte ai rappresentanti della comunità cristiana per la loro incoerenza con la visione morale da essi professata a parole, ad essere rifiutata, oggi, è proprio questa visione. Si pensi, per fare solo un esempio, al modo di vedere e di praticare la sessualità.
Quello che prima era percepito come il più importante banco di prova della fedeltà del cristiano, il tema privilegiato della confessione dei peccati, è rimesso radicalmente in discussione. Anche moltissimi cattolici praticano ormai i rapporti sessuali prima – o semplicemente fuori – del matrimonio e ricevono regolarmente l’assoluzione dai ministri della riconciliazione.
Così come è diventato abituale l’uso di metodi contraccettivi per limitare le nascite. E nel Sinodo tedesco una delle richieste è di benedire le unioni di coppie omosessuali. Peraltro, al di là del caso della sessualità, è l’idea stessa di “peccato” ad essere ormai sempre più problematica.
Cambiamenti profondi
È cambiata la società ed è cambiata soprattutto la cultura. E non solo in rapporto ai problemi morali. Più a monte, è cambiato il modo di concepire i rapporti umani. La comunità familiare e quella nazionale, che prima erano in primo piano, ora hanno perduto il loro ruolo decisivo nel definire l’identità delle persone.
Ad essere in primo piano sono gli individui, nella loro singolarità. Sono essi a stabilire, volta per volta, se e con chi relazionarsi. Una percentuale sempre maggiore di famiglie è composta da un single. E in Italia anche le coppie tendono a non generare figli, o ne fanno uno soltanto. Domina ormai una idea di libertà che la concepisce come autonomia, indipendenza da vincoli precostituiti. C’è da stupirsi se anche la comunità ecclesiale è diventata assai meno capace di coinvolgere, nel modo di pensare e di vivere, i suoi membri?
Le principali protagoniste di questa svolta antropologica sono le donne. A cambiare in modo decisivo è stata, in pochi decenni, l’immagine che esse hanno di se stesse e che rivendicano giustamente nella vita sociale. Un astratto riconoscimento dell’uguaglianza tra i sessi e della dignità femminile non aveva impedito che nel nostro cattolicissimo paese, fino al 1946, esse fossero escluse dal voto alle elezioni politiche e fino al 1963 non potessero accedere alla magistratura. Per non parlare del diritto di famiglia, cambiato in senso realmente paritario solo nel 1975.
Ormai nella mentalità e nello stile di vita diffuso le donne hanno davvero gli stessi diritti degli uomini e, quando sono ancora oggetto di discriminazione o di soprusi, fanno sentire la loro voce. Pur risentendo ancora, in pratica, di alcune forme di esclusione, giuridicamente sono del tutto equiparate agli uomini.
A confronto di questo grande fenomeno di emancipazione, i tentativi della Chiesa cattolica di valorizzare la sua componente femminile (peraltro ampiamente maggioritaria) – ammettendola al lettorato e all’accolitato – , appaiono timidi e sostanzialmente ben poco rilevanti.
C’è da stupirsi, ancora una volta, se questa componente – tradizionalmente la più vicina all’istituzione ecclesiastica – oggi se ne va sempre più distaccando? Per non parlare della crisi delle vocazioni alla vita religiosa, dovuta a un immagine tradizionale della “suora” ormai difficilmente compatibile con la sensibilità delle giovani europee.
La rivoluzione tecnologica ha fatto da moltiplicatore di queste trasformazioni antropologiche. Con i nuovi strumenti di comunicazione il raggio dei rapporti umani si è immensamente dilatato, ma si è anche rarefatto, perdendo molto della sua densità comunitaria.
Sulla rete si è potenzialmente in relazione con tutti, ma alla fine si è soli. E il cellulare diventa sempre più una protesi indispensabile che media i nostri rapporti con gli altri e con il mondo, dando loro un taglio fortemente autoreferenziale.
In questo contesto, anche a livello ecclesiale diventa normale, per molti, partecipare alla messa domenicale “assistendo” ad essa in televisione, senza avvertire neppure la differenza tra questo spettacolo e una partecipazione comunitaria che evidentemente non c’era neppure prima.
L’urgenza di un “secondo annuncio”
Ma il problema forse più grave, in questo inizio del nuovo millennio, è quello di una evangelizzazione che non sembra più capace di interessare veramente le persone. Certo, ciò dipende anche dall’insieme di fattori a cui abbiamo appena accennato e che hanno modificato profondamente l’identità e la capacità di ascolto dei destinatari.
Ma non va sottovalutato un cambiamento di prospettiva per cui, mentre fino a pochi decenni fa, era ovvia l’adesione a un insieme di certezze “ereditate” dal passato e trasmesse dalla famiglia, dal catechismo, dall’oratorio, oggi la grande maggioranza dei giovani prende fin dall’adolescenza le distanze dalla parrocchia e dalla pratica cristiana, per situarsi in una “terra di mezzo” che non è un netto rifiuto – anche l’ateismo sarebbe una precisa scelta religiosa – , ma una tendenziale indifferenza. Di Dio, di Cristo, della resurrezione, della salvezza eterna, a molti non sembra più interessare granché.
Per questo si è parlato, in questi ultimi anni, della necessità di un «secondo annuncio», che assuma forme nuove, diverse da quello a cui siamo abituati, partendo da esperienze umane significative invece che da enunciazioni dogmatiche.
Invece di un punto di partenza, la fede si presenterebbe qui come una prospettiva possibile, da scoprire gradualmente attraverso una ricerca che attraversi tutto lo spessore umano della persona. Le domande a questo punto verrebbero prima delle risposte, invertendo l’ordine del catechismo, con il rischio, ma anche con l’autenticità che questo comporta. Ma siamo ancora davanti a tentativi ancora frammentari, non assunti all’interno di un progetto ecclesiale condiviso
Anche perché, a complicare le cose, una frangia consistente di credenti, smarriti davanti a queste trasformazioni, ne attribuisce la responsabilità ai tentativi di rinnovamento fatti in questi anni – ultimamente soprattutto da papa Francesco – per tenerne conto. Confondendo la fedeltà alla tradizione con la gelosa custodia del passato, questi fedeli si scandalizzano di ogni novità, senza rendersi conto che l’immobilismo, da essi sognato per la Chiesa, sarebbe la sua morte.
Non mancano, d’altro canto, neppure da parte dei “novatori” atteggiamenti e prese di posizione che costituiscono solo delle fughe in avanti, senza inserirsi organicamente in una nuova visione ecclesiale.
Quello che è urgente, in questo momento storico, è un grande sforzo di discernimento, che sappia comprendere i germi positivi presenti nel mondo attuale e li valorizzi, in una nuova visione d’insieme. È già accaduto nel corso dei due millenni di storia della Chiesa che essa abbia dovuto e saputo tener conto del diverso clima culturale creatosi nel passaggio da un’epoca all’altra.
La Chiesa delle origini non è quella del Medioevo, e questa, a sua volta, non è quella tridentina, così come quest’ultima non è quella del XX secolo. Un nuovo paradigma culturale si impone oggi, nel XXI. Non bisogna avere paura di cercarlo.
Il Sinodo in corso di svolgimento tradirebbe questa esigenza se si limitasse a prospettare piccoli aggiustamenti. Il Vangelo ci mette in guardia dai rattoppi. È ora di mettere mano, tutti insieme, a una riflessione che, senza tradire la fede, la proietti in una nuova prospettiva culturale.
E questo è anche il più prezioso servizio che la Chiesa può rendere a una società post-cristiana che sembra incapace di trovare la sua stessa identità umana. E che attende dai cristiani un contributo insostituibile per scoprirla.
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