Quello fra cattolici e politica è un tema importante per la storia del nostro Paese. Dal Partito Popolare di Sturzo al Piano B proposto da alcuni intellettuali al recente Meeting di Comunione e liberazione; dalla Democrazia Cristiana di De Gasperi, Fanfani e Moro al “brand di centro” avanzato da Matteo Renzi, l’area cattolica fornisce da sempre visioni e stimoli per ripensare la politica nazionale. Dell’attualità di questa relazione discutiamo con Flavio Felice. Professore ordinario di Storia delle dottrine politiche all’Università del Molise, Felice è presidente del Centro Studi Tocqueville-Acton.
– Professore Felice, a suo parere è superato del tutto il progetto connesso alla rinascita di un partito d’ispirazione cristiana nel nostro Paese?
Non solo non credo che sia superato “del tutto”, ma penso che sia persino urgente. In fondo, in questi anni di “diaspora” abbiamo assistito a tante iniziative, il più delle volte apparse come personali e abbastanza estemporanee, frutto più del desiderio di alcuni personaggi di ben posizionarsi all’interno dell’attuale schema politico, piuttosto che di presentare un’offerta che superi l’attuale. In tal senso, nonostante le buone intenzioni dei proponenti, abbiamo registrato il loro fallimento e, ahimè, il progressivo discredito dell’intera operazione tendente a dar vita ad uno schieramento popolare, di ispirazione cristiana.
È sembrato quasi che l’obiettivo non fosse l’ampliamento dell’offerta politica, giudicata insufficiente dagli stessi elettori che stanno via via disertando le urne, quanto, quello di inserirsi nell’attuale offerta per acquisire posizioni di vantaggio, negoziando posizioni all’interno degli attuali partiti; di fronte ad una simile aspirazione, cosa c’è di meglio che fondare un partitino personale che agevoli il negoziato e favorisca una candidatura? Terminato il negoziato, ovviamente, quel partitino non ha più ragione di esistere.
Un nuovo partito politico invece dovrebbe rispondere ad un’altra esigenza, quella di soddisfare una domanda politica che attualmente appare abbastanza insoddisfatta, altrimenti non si spiega l’astensionismo che sta mutilando la rappresentanza politica della nostra democrazia.
Come ho più volte ripetuto, la presenza organizzata dei cattolici in politica – non si parli di unità dei cattolici in politica perché non c’è mai stata e non si capisce perché dovrebbe esserci – risponde all’esigenza di rappresentare alcune istanze che oggi non trovano risposta nell’attuale offerta politica e richiede un processo di riaggregazione intorno a questioni di merito sulle quali i cattolici hanno da dire qualcosa di originale e anche controcorrente.
Si pensi al tema del lavoro, dell’ambiente, della sanità, delle riforme istituzionali, della salute, della democrazia, solo per fare qualche esempio, su questi temi i cattolici italiani hanno un patrimonio di idee e di buone pratiche che appare del tutto ignorato dagli attuali partiti di destra e di sinistra, sempre più ripiegati su una cultura politica demagogica e urlata.
Se una parte importante degli aventi diritto al voto ha deciso di disertare le urne ci sarà una ragione! E non possiamo neppure credere che dipenda solo dalla incapacità dei singoli interpreti. Io penso che molto dipenda da un’offerta politica inadeguata, in quanto insufficiente. Non mi riferisco ovviamente alle qualità dei singoli interpreti, non mi permetterei mai, ma alla scarsa presenza di culture politiche che possano intercettare la latente domanda politica o anche, più semplicemente, farla emergere.
– Al recente Meeting di Comunione e liberazione svoltosi a Rimini, un gruppo di intellettuali di area cattolica ha firmato e proposto un manifesto – il Piano B – volto ad un impegno dei credenti in politica attraverso la messa in circolo delle competenze personali e dell’efficienza della rete sociale d’ispirazione cristiana. Una sorta di “spartito senza partito” per Marco Damilano. Concorda con quest’impostazione?
Certamente si tratta di uno “spartito senza partito” per stessa ammissione degli “interpreti musicisti” firmatari del manifesto. Molti di coloro che hanno firmato il “Piano B” sono cari amici, nei confronti dei quali nutro grande stima e posso solo dire che trovo il progetto molto interessante in chiave conservativa; mi spiego.
Se riteniamo che l’attuale schema politico sia il migliore possibile, rispetto alle condizioni date, e che meriterebbe solo di essere messo a punto, innestando qualche bravo intellettuale in uno o in più partiti che l’attuale scena politica offre, allora il “Piano B”, oltre ad essere una cosa seria – e lo è – sarebbe anche uno strumento efficace per ampliare l’attuale rappresentanza dentro i singoli partiti.
Se invece riteniamo che il problema è l’attuale schema politico, in quanto le culture politiche in esso presenti non soddisfano la domanda politica, latente e potenziale, che cova nel paese, allora il “Piano B”, resta una cosa seria, ma non sposta di una virgola il problema e rischia di essere percepito come l’ennesimo tentativo di posizionamento, ispirato al più classico neo-gentilonismo che il mondo cattolico conosce bene e dal quale si era affrancato più di cento anni fa grazie all’iniziativa politica di Luigi Sturzo.
Ripeto, è una cosa serissima, forse la più seria tra le tante che sono apparse in questi anni, ma che si inserisce esattamente in quel solco: accettazione dello schema attuale e tentativo di renderlo un po’ meno peggio, candidando alcuni esperti delle singole policy a ricoprire ruoli chiave nel governo o nel sotto-governo. In pratica, rimanendo nella metafora dello “spartito”, si suppone che gli attuali interpreti non siano capaci di leggere e suonare uno spartito così complesso, mentre nel paese ci sarebbero le risorse umane affinché lo “spartito” venga suonato alla perfezione.
Francamente trovo questa analisi superficiale e anche abbastanza logora, è da Platone (ma sicuramente prima) che filosofi e intellettuali di ogni risma presentano loro stessi come gli ottimati ai quali sarebbe stato impresso lo stigma del governo, il quid del potere, il predicato del comando. Un “Piano B” invece sarebbe necessario, ma per essere efficace, oltre che serio, deve prevedere la profonda critica del presente schema politico e mostrare il tentativo, dal basso, di promuovere un’offerta politica che competa con l’attuale proposta e non singole brave persone che si candidano a essere ospitate nelle correnti dei partiti politici; la democrazia è, in primis, un processo competitivo e se ci si candida a governare si deve passare per la porta stretta della ricerca del consenso elettorale, non dell’ospitalità.
– In vista delle prossime elezioni europee, l’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi ha lanciato l’idea del “brand di Centro” per rappresentare l’elettorato moderato. Per la storia del nostro Paese, cosa s’intende con l’espressione “centro politico”? Ha senso parlarne oggi?
Qualche giorno fa, Filippo Ceccarelli, su “La Repubblica” definiva il “centro” un non luogo della politica e credo che avesse perfettamente ragione. Il “centro” non è un luogo, così come non lo sono la “sinistra” e la “destra”. La rappresentazione delle culture politiche mediante riferimenti spaziali è un utile espediente retorico, ma non dice nulla su cosa siano realmente tali culture.
Nel caso del “centro” credo che sia opportuno che lasci parlare colui che ha teorizzato una tale opzione politica: Luigi Sturzo; non un colpo alla botte e un colpo al cerchio, ma una prospettiva che assume il carattere del realismo, in quanto concretezza, storicità, contingenza, gradualismo, fallibilismo, tutte dimensioni del reale politico nelle quali è possibile immaginare la persona libera e responsabile, indisponibile alla deriva utopistica, consapevole del fatto che le istituzioni civili sono sempre la proiezione multipla, simultanea e continuativa delle azioni individuali e che, di conseguenza, scontano tutti i limiti che interessano la costituzione fisica e morale della persona umana. Scrive Sturzo: «Spieghiamo allora cosa intendiamo per centrismo.
Per noi il centrismo è lo stesso che popolarismo, in quanto il nostro programma è un programma temperato e non estremo: – siamo democratici, ma escludiamo le esagerazioni dei demagoghi; – vogliamo la libertà, ma non cediamo alla tentazione di volere la licenza; – ammettiamo l’autorità statale, ma neghiamo la dittatura, anche in nome della nazione; – rispettiamo la proprietà privata, ma ne proclamiamo la funzione sociale; – vogliamo rispettati e sviluppati i fattori di vita nazionale, ma neghiamo l’imperialismo nazionalista; e così via, dal primo all’ultimo punto dei nostro programma ogni affermazione non è mai assoluta ma relativa, non è per sé stante ma condizionata, non arriva agli estremi ma tiene la via del centro.
Questa posizione non è tattica. È programmatica, cioè non deriva da una posizione pratica di adattamento o di opportunità: ma da una posizione teorica di programma e di idealità. E la ragione di questa posizione teorica ha la sua origine in un presupposto che caratterizza la ragione etica della vita quale la vediamo noi al lume del cristianesimo: – noi neghiamo che nella vita presente si possa arrivare ad uno stato perfetto, ad una conquista definitiva ad un assoluto di bene». Non aggiungo altro, se non una domanda che rivolgo a Matteo Renzi: quando parla di “centro” si riferisce a questo e si colloca nella famiglia politica del popolarismo o immagina altro e si colloca altrove?
– Le encicliche sociali di papa Francesco come la Laudato si’ e la Fratelli tutti si configurano come una sorta di invito a vivere politicamente e socialmente il nostro tempo. L’impegno associativo e a sostegno dei poveri è una delle spine dorsali dell’opera dei cattolici italiani a differenza dell’opzione politica dalla quale sembrano allontanarsi sempre di più. Quali sono le motivazioni profonde di questo fenomeno?
Le motivazioni potrebbero essere proprio quelle che ho tentato di presentare poc’anzi. Quando l’offerta politica è percepita come insoddisfacente e si realizza che il semplice voto non è sufficiente a condizionarla, allora si diserta l’impegno politico, se per tale si intende solo la partecipazione alla liturgia elettorale.
L’impegno civile è qualcosa di molto più ampio e ricco dell’impegno politico; dal mio punto di vista, il “politico” è un sottosistema del “civile” e non è posto in posizione egemone rispetto ad altri sottosistemi. Per questa ragione, mi preoccupa la distanza di tante persone – soprattutto dei giovani – dalla partecipazione politica, ma non mi scandalizza, la trovo del tutto fisiologica, almeno rispetto alle condizioni date.
Con riferimento al Magistero di Papa Francesco e alla sua possibile declinazione in termini politici, mantenendo tutte le dovute cautele, credo che tre siano i concetti chiavi: “inclusione”, “ecologia umana integrale”, “fraternità”. Inclusione è un termine oggi abusato, persino più di “resilienza”, e può significare tante cose. Personalmente non la intendo come “coesione sociale”, bensì come la qualità principe della democrazia: una discussione critica su questioni di interesse comune.
La qualità inclusiva della democrazia risiede nell’edificazione di istituzioni che rendano impossibile la formazione di oligarchie, le quali operano in maniera estrattiva e predatoria. L’ecologia umana integrale ci dice che un ambiente sano non può prescindere dalla cura della persona, in tutti i suoi aspetti: materiali, culturali e spirituali; avere cura di ciascuna persona dalla nascita alla morte.
Infine la fraternità, una categoria politica che è stata spesso relegata nell’angolo più recondito della cassetta degli attrezzi della teoria politica; essa ci dice che siamo tutti uguali, ma in maniera diversa; come lo sono i figli per i genitori. In breve, è la categoria che ci aiuta a storicizzare gli ideali di libertà e di uguaglianza in maniera non dogmatica e ideologica, ma attingendo alle risorse che la realtà ci offre.
A questo proposito, per tornare al tema della presenza organizzata dei cattolici anche in più partiti, nel messaggio di Papa Francesco al gruppo parlamentare del Partito Popolare Europeo dello scorso 11 giugno, il Papa fa riferimento al pluralismo che un partito che si estende a livello continentale è necessario che manifesti e al patrimonio ricchissimo a cui un soggetto di ispirazione cristiana è opportuno che attinga, per portare un contributo originale alla politica europea; tale patrimonio è dato dalla dottrina sociale della Chiesa.
Scrive Papa Francesco: «È chiaro che un grande gruppo parlamentare debba prevedere un certo pluralismo interno. Tuttavia, su alcune questioni in cui sono in gioco valori etici primari e punti importanti della dottrina sociale cristiana occorre essere uniti».
– L’ultima iniziativa istituzionale di don Luigi Sturzo fu una proposta di legge presentata al Senato il 16 settembre del 1958 connessa al riconoscimento del ruolo dei partiti politici nella democrazia italiana e delle loro attribuzioni valorizzando le loro potenzialità nel favorire la partecipazione piena e consapevole dei cittadini alla determinazione della politica nazionale e nell’incentivare la diffusione della cultura politica e istituzionale. Una maturazione sulla disciplina dei partiti che, ancora oggi, manca. Concorda?
Totalmente. La proposta di Sturzo del 1958 incrocia un tema classico della teoria politica liberale: la limitazione del potere, un principio che pone l’intera opera teorica e pratica di Sturzo, rispetto alla quale quest’ultima iniziativa parlamentare non rappresenta che un corollario, al cuore della riflessione politica degli ultimi due secoli, accanto a studiosi del calibro di F. A. v. Hayek, W. Röpke, L. Einaudi e tantissimi altri che si sono interrogati sui rapporti tra i poteri dello Stato e, in particolare, al rapporto tra potere legislativo e potere esecutivo.
Sturzo, in estrema sintesi, denunciava la commistione tra interesse e disciplina di partito da un lato e funzione legislativa dall’altro; non è un caso che, intervenendo al Senato l’11 luglio 1958, propone di eliminare la formazione dei gruppi parlamentari, per restituire all’assemblea legislativa la sua indipendenza dalle ingerenze dei partiti, definiti dal sacerdote siciliano una “sovrastruttura partitocratica”, simile ad una “piovra che poco a poco soffoca e stronca”.
Il discorso di Sturzo sul ruolo del partito politico e il ridimensionamento della sua pretesa discrezionalità andrebbe inserito nella più ampia questione relativa alle cosiddette tre “male bestie” della democrazia: lo “statalismo”, lo “spreco del denaro pubblico” e, appunto, la “partitocrazia”, intesa come interferenza irresponsabile e arbitraria dei partiti politici rispetto alla funzione legislativa.
Per Sturzo non si tratterebbe più di partiti politici, ma di “bandiere demagogiche”, che minerebbero la democrazia infettandola con i virus della tirannia, dell’ingiustizia e della disuguaglianza, compromettendo i lavori del parlamento, considerato da Sturzo «l’unico organo costituzionale nel quale i dibattiti sull’andamento governativo hanno significato». In questo quadro, Sturzo definisce lo Stato (scritto rigorosamente con la minuscola) come un «nome astratto atto a indicare l’organizzazione della pubblica amministrazione» e lo identifica, nello svolgersi concreto della vicenda storica, con la «classe di dominio» o «classe politica» ovvero «élite politica».
Ne consegue che la negazione dei limiti giuridici al potere condurrebbe coloro che lo detengono a operare nell’arbitrio, in nome di una violenza legalizzata; non importa se al vertice di tale organizzazione sieda una sola persona, un gruppo di oligarchi ovvero una «folla rivoluzionaria»; anche questo è popolarismo e chi lo interpreta oggi?
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