Il disprezzo verso le “società aperte”
Tra le ragioni che hanno spinto la quasi totalità degli esponenti politici e degli osservatori occidentali a schierarsi senza esitazione dalla parte di Israele, nella crisi scatenata dall’attacco di Hamas contro lo Stato ebraico, una di quelle più spesso sottolineate è che siamo davanti allo scontro fra una democrazia e un gruppo fondamentalista, che ignora, anzi rifiuta, le più elementari conquiste legate ad una prospettiva politica democratica.
Lo hanno continuamente ripetuto i quotidiani della destra, col loro inconfondibile stile, ma questa è stata la linea anche di opinionisti seri e autorevoli, come Sergio Fabrini, che, sul «Sole24ore» del 15 ottobre scorso – anticipando quasi alla lettera quanto avrebbe detto, qualche giorno dopo, il presidente americano Biden nel suo messaggio alla nazione – ha messo in rapporto l’aggressione all’Ucraina da parte di Putin e quella ad Israele da parte di Yahya Sinwar (il leader operativo di Hamas a Gaza).
Secondo lui, il vero obiettivo di entrambi non è, per il primo, la protezione dei russofoni del Donbass e, per il secondo, la creazione di uno Stato palestinese, ma l’eliminazione di due democrazie che li sfidano proprio ai loro confini.
«Putin e Siwar», nota Fabrini, «condividono il disprezzo per le società aperte, dove gli individui sono protetti da diritti inalienabili rispetto a chi detiene il potere (secolare e religioso) (..). Ucraina e Israele sono democrazie, seppure imperfette, che sono l’opposto dei regimi autocratici (sia secolari che religiosi) che quei leader rappresentano».
Da qui la conclusione: «Se la democrazia è la posta in gioco delle due aggressioni militari, allora è evidente che le altre democrazie non possono che sostenere Kiev e Tel Aviv».
Non c’è dubbio che in questa analisi ci sono molti elementi di verità. Il gruppo armato che dal 2006 ha il controllo della Striscia di Gaza, pur avendo conseguito questo risultato con libere elezioni, ha dei caratteri che lo rendono molto diverso da qualunque partito politico occidentale, se non altro per il ruolo che hanno in esso la dimensione militare e il fanatismo religioso. Due fattori la cui fusione è alla base di uno stile di violenza, che ha avuto la sua manifestazione più estrema ed atroce nel massacro e nel rapimento di inermi civili durante l’attacco dello scorso 7 ottobre.
Anche nella gestione dei territori di cui legittimamente ha assunto il governo nel 2006 (senza peraltro indire, dopo allora, libere elezioni), Hamas ha mostrato di condividere lo stile tipico del fondamentalismo islamico nei confronti degli oppositori interni – a cominciare dai sostenitori dell’Autorità nazionale palestinese, espulsi con la violenza da Gaza dopo le elezioni – e delle donne, costrette a subire (come in Iran e in Afghanistan) una discriminazione che le mette al margine della società.
Da questo punto di vista, è evidente perché sia Israele che l’Occidente abbiano sempre considerato unico interlocutore affidabile il movimento laico dell’OLP (Organizzazione per la liberazione della Palestina), con cui sono stati stretti nel 1993 gli accordi di Oslo tra Yasser Arafat e Yitzhak Rabin, che portarono al riconoscimento, da parte del governo di Tel Aviv, dell’Autorità nazionale palestinese. E a quest’ultima, infatti, nel 2005, il leader israeliano Ariel Sharon aveva consegnato la striscia di Gaza, precedentemente occupata dall’esercito israeliano.
La crisi di un progetto moderato
Ma il progetto moderato è stato frustrato irrimediabilmente dalla inaspettata vittoria elettorale di Hamas, l’anno dopo, e dalla decadenza dell’Autorità palestinese, la quale, rimasta al potere nel territorio della Cisgiordania, sotto la presidenza di Abu Mazen è stata sempre più screditata dalla corruzione ed è apparsa – come riconosce Fabrini – «preoccupata della propria sopravvivenza e non di quella dei palestinesi». Da qui la paralisi dei negoziati per arrivare alla realizzazione di uno Stato palestinese, accanto a quello di Israele, in ottemperanza alla risoluzione dell’ONU del 1947.
Secondo l’opinionista, è frutto di unilaterale pregiudizio dare la colpa di tutto questo a Israele, che pure sicuramente, al suo interno, sconta «la crescita della destra radicale» e «la degenerazione personalistica del Likud, divenuto ostaggio di un leader (Benjamin Netaniahu) preoccupato del proprio potere e non della sicurezza di Israele», ma che rimane comunque il baluardo della democrazia, sulla cui sopravvivenza «si gioca il futuro delle nostre società aperte. Società piene di difetti ma dotate della libertà per correggerli».
Il “muro”
Ho voluto citare ampiamente questo editoriale per la stima che nutro nei confronti del suo autore e per la sua chiarezza, rispetto a tanti altri interventi che dicono, con meno lucidità, cose analoghe. Tuttavia, il quadro che emerge dalla narrazione di Fabrini mi sembra vero solo a metà. Lo è quando illustra i motivi di critica radicale nei confronti di Hamas, molto meno quando propone Israele come modello su cui «si gioca il futuro delle nostre società aperte».
«Aperta» verso chi? Se c’è un elemento costante nella politica del governo israeliano, è stato, da moltissimi anni, la “chiusura”. L’esempio più clamoroso è stata la costruzione, a partire dalla primavera del 2002, del muro – la «Barriera» – lungo 730 km e alto 8 metri che ha spaccato il territorio, le famiglie (arabe), l’intero tessuto sociale, inglobando tra l’altro nella parte israeliana la quasi totalità dei pozzi d’acqua. In un rapporto dell’Onu del 2005 si legge: «E’ difficile esagerare l’impatto umanitario della Barriera. Il percorso dentro la Cisgiordania separa comunità, l’accesso delle persone ai servizi, mezzi di sostentamento e servizi religiosi e culturali».
Per quanto riguarda l’aspetto giuridico, il 9 luglio 2004, la Corte internazionale di giustizia, investita della questione dall’Assemblea generale dell’ONU, ha emesso il suo parere: «L’edificazione del Muro che Israele, potenza occupante, è in procinto di costruire nel territorio palestinese occupato, ivi compreso l’interno e intorno a Gerusalemme Est, e il regime che gli è associato, sono contrari al diritto internazionale».
Nella decisione si precisa anche che gli Stati «sono ugualmente obbligati a non prestare aiuto o assistenza al mantenimento della situazione creata da questa costruzione»
Gli israeliani hanno semplicemente ignorato la sentenza. Motivi di sicurezza, hanno spiegato. E non risulta che i loro alleati occidentali – in particolare i più importanti e fedeli, gli Stati Uniti – abbiano fatto nulla per convincerli a modificare minimamente il loro progetto. Siamo sicuri che sia questa la «società aperta» che la democrazia propone?
Gerusalemme e gli insediamenti di coloni israeliani in Cisgiordania
Analoga situazione si è creata per quanto riguarda Gerusalemme. La risoluzione dell’ONU del 1947, prendendo atto che questa è la “città santa” per ebrei, cristiani e musulmani, e deve dunque restare “aperta” a tutte queste componenti, la poneva sotto il controllo internazionale.
Ma nel 1980 una «legge fondamentale» del parlamento israeliano ha proclamato Gerusalemme capitale «unita e indivisibile» dello Stato di Israele, escludendo cristiani e musulmani dal controllo di essa e dei loro rispettivi luoghi santi. Inoltre, ai circa 300 mila palestinesi che abitano nella città non è riconosciuta la cittadinanza israeliana, ma solo uno status di «residenti permanenti».
Non è servito a nulla un nuovo pronunciamento di condanna dell’ONU. E la città è stata riconosciuta nel dicembre del 2017 come capitale di Israele dagli Stati Uniti, che hanno spostato lì la loro ambasciata. Siamo sicuri che sia questa la «società aperta» che la democrazia propone?
Infine, in questi anni si è sempre più diffuso il fenomeno degli insediamenti abusivi di coloni israeliani, col consenso del governo, sui territori della Cisgiordania che la risoluzione dell’ONU assegnava ai palestinesi e che dovrebbero essere il cuore del loro futuro Stato. Oggi 500.000 coloni ebrei si sono installati su queste terre, costruendo cittadine e villaggi.
Proprio poco prima dell’attacco di Hamas del 7 ottobre, Netanyahu aveva annunciato una nuova ondata di questi insediamenti, suscitando questa volta perfino la reazione negativa di Biden, che gli ha chiesto – ma senza alcun esito – di sospendere. Siamo sicuri che sia questa la «società aperta» che la democrazia propone?
Anche la reazione di Israele all’attacco di Hamas ha avuto una connotazione inquietante. C’è modo e modo di difendersi. C’è anche modo e modo di vendicarsi. Farlo togliendo elettricità, acqua e cibo a due milioni e mezzo di persone che – secondo gli stessi israeliani – non sono colpevoli di quanto è accaduto, è stato disumano. E forse ancora più disumano è stato dare un ultimatum perentorio che costringeva più di un milione di persone ad abbandonare, entro 24 ore, le loro case – perché questa terra è la loro! – , col solo diritto che viene dall’essere più forti.
Per non parlare delle centinaia di palazzi distrutti dai raid israeliani- secondo l’ONU, il 25% delle abitazioni civili – e dell’uccisione dei loro inermi abitanti, di cui 500 bambini. Siamo sicuri che sia questa la «società aperta» che la democrazia propone?
Israele ha il diritto di esistere e questo diritto deve essere difeso, contro la cieca furia distruttiva di Hamas, per cui vale tutto quel che si è detto prima. Ma, se si continua ad ammonire lo Stato ebraico di non superare i limiti – come hanno fatto e fanno in questi giorni coloro che lo appoggiano -, si nasconde il fatto che da troppo tempo li ha già superati e ci si rende complici delle sue continue violazioni dei diritti umani e delle regole internazionali.
No, questa non è la democrazia. Con una caduta di stile che, come suo estimatore, mi è dispiaciuta, anche Fabrini ripete due volte nel stesso articolo quello che si sente oggi spesso si sente dire, e cioè che chi non è d’accordo con il sostegno incondizionato ad Israele, “senza se e senza ma”, «è ignorante o è in malafede». Lascio al lettore il compito di stabilire in quale delle due categorie collocarmi. Perché io non sono d’accordo.
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