Introduzione alla lectio divina su Lc 17,11-19
13 Ottobre 2013 – XXVIII domenica del Tempo Ordinario
Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samaria e la Galilea. 12Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza 13e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». 14Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati. 15Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, 16e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano. 17Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? 18Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». 19E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».
Guarigione dei dieci lebbrosi
dal Codex Aureus, 1035-1040 ca., Norimberga, Germanisches Nationalmuseum
Gratitudine e “stranierità” sono i fili rossi che legano la I lettura e il Vangelo della prossima domenica.
Una condizione di straniero che va intesa come un fardello pesante, visto che il protagonista della guarigione operata da Gesù proviene dalla terra di Samaria, ai cui abitanti il libro del Siracide lancia un affondo tranciante: “Lo stupido popolo che abita la Samaria non è neppure un popolo” (50,25-26).
Alla luce di questa considerazione razzista, si comprende meglio la sottolineatura geografica di Luca, ossia perché l’evangelista abbia rilevato che Gesù attraversava la Samaria e la Galilea per arrivare a Gerusalemme. Peraltro, se dovessimo prendere alla lettera le sue indicazioni, si tratterebbe di una sorta di itinerario all’incontrario, una cosa insensata, considerata tra l’altro la fatica e la lentezza di un viaggio di 2000 anni fa. La notazione appare, dunque, un modo per focalizzare la scelta consapevole del Signore che prima di arrivare a Gerusalemme, la città santa, scende a sporcarsi le mani, a mischiarsi con la folla, con Samaritani e Galilei, popoli additati appunto come indegni. Alla condizione di straniero dell’uomo che invoca, insieme agli altri nove, la guarigione dal Maestro, si unisce addirittura quella di lebbroso, per il quale ancora una volta la Scrittura ha parole tremende: “Il lebbroso colpito dalla lebbra porterà vesti strappate e il capo scoperto, si coprirà la barba e andrà gridando: Immondo! Immondo! Sarà immondo finché avrà la piaga; e immondo, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento” (Lev 13,45-46).
Ecco perché i dieci lebbrosi che gli si fanno innanzi si fermano a distanza, intoccabili quali sono, mentre Gesù prescrive loro la pratica in vigore al suo tempo: presentarsi al sacerdote del tempio di Gerusalemme perché li riammetta finalmente nel consorzio degli uomini, certificando la loro avvenuta guarigione, che puntualmente arriva mentre stanno ancora camminando.
A questo punto avviene un altro miracolo, un’altra guarigione ancora più profonda. Uno solo dei dieci (numero simbolico a indicare la totalità degli uomini peccatori) si ferma, si vede guarito e torna indietro. Verrebbe da dire “rientra in se stesso”, come un figliol prodigo al rovescio: laddove infatti quel figlio che era stato irriconoscente verso il padre prendeva finalmente coscienza della propria condizione di emarginato, rientrando appunto in se stesso, qui il lebbroso è colto dallo stupore di vedersi risanato e avvia la sua conversione verso Gesù. Il grido che prima era stato una corale, indistinta, richiesta di aiuto (v.13) si fa ora grido singolo di lode e di ringraziamento verso Dio (v.15). La guarigione fisica è divenuta salvezza spirituale; e il salto lo ha operato la fede del lebbroso, come gli dice lo stesso Gesù.
Dell’uomo di fede questo samaritano ha ormai i tratti e le movenze: il prostrarsi a terra, in adorazione e preghiera, e il rendere grazie, ossia il senso di “fare eucarestia”.
La gratitudine si nutre dunque della memoria, è ricordo vivo e commosso del dono ricevuto, anche se talvolta può sopraggiungere tardiva: infatti “spesso ci rendiamo conto solo dopo molto tempo di ciò che dobbiamo a persone che abbiamo incontrato nel nostro passato e che hanno lasciato tracce importanti in noi” (Comunità di Bose, Eucaristia e Parola Anno C, p. 278).
La gratitudine è senso della relazione e voglia di mantenerla forte e viva; è tornare indietro, ripercorrere ciò che è avvenuto, fermarsi e riguardarsi, con stupore, appunto, grato.
“La gratitudine è difficile e richiede la messa a morte del proprio narcisismo per entrare nel novero di coloro che si sanno graziati” (Eucaristia e Parola, cit.).
Quanto a Gesù, la sua grazia abbonda sulle spiagge dell’esclusione, della marginalità, della sofferenza. Su quelle spiagge di desolazione l’escluso diventa l’eletto, l’amato da Dio.
Valentina Chinnici
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