di Giuseppe Savagnone
Infuria la polemica sulla natura intrinseca dell’Islam. Ai giornali della nostra destra la strage di Parigi è servita come occasione per sbandierare la loro avversione verso i musulmani, indicati in blocco come responsabili dell’accaduto. Nell’improvvisata teologia che sta dietro queste accuse, le si fonda su una pretesa vocazione alla violenza propria di questa religione. Si sente spesso ripetere che nel Corano ci sono frasi che incitano alla «guerra santa», il tristemente famoso jihād. Per esempio: «Combattete coloro che non credono in Allah e nell’Ultimo Giorno, che non vietano quello che Allah e il Suo Messaggero hanno vietato, e quelli, tra la gente della Scrittura, che non scelgono la religione della verità, finché non versino umilmente il tributo, e siano soggiogati» (Sura IX, 29).
Eppure questo non ha impedito che l’Islam, in certe epoche, sia stato assai più tollerante della cristianità. Storicamente, nel medio evo, la conquista islamica non coincise affatto, per i regni cristiani sottomessi, in una fase di persecuzione e di cieca intolleranza. I dominatori si accontentavano di evidenziare la superiorità della loro fede, dimostrata con le armi, esigendo una tassa che gli “infedeli” dovevano versare proprio perché tali. Non fu così in molte regioni, dominate invece dai cristiani. Nella cattolicissima Spagna ebrei e musulmani furono duramente perseguitati e alla fine addirittura espulsi!
Anche nella Bibbia, peraltro, ci sono testi raccapriccianti che esaltano la violenza in nome di Dio. Si pensi a quello, terribile, che dice: «Figlia di Babilonia devastatrice, beato chi ti renderà quanto ci hai fatto. Beato chi afferrerà i tuoi piccoli e li sfracellerà contro la pietra» (Sal 137, 8-9).
Il punto è che nella visione cristiana questi testi sono stati riletti e interpretati alla luce del messaggio di Gesù, consentendo così che, accanto a forme deteriori (si pensi alle stragi compiute durante le crociate), sono state possibili e alla fine hanno prevalso letture ispirate all’amore che si deve perfino ai nemici. Così come nella tradizione musulmana quelli coranici sono serviti da base per lo sviluppo di forme altissime di spiritualità, ma anche di umanità e di civiltà.
Lasciamo dunque ai fanatici di demonizzare l’Islam e, se mai, chiediamo anche per i cristiani lo stesso rispetto che oggi, giustamente, viene invocato da alcuni nei suoi confronti. Nessuno è «bastardo» perché è credente! Insulti come quello lanciato da Maurizio Belpietro su «Libero» contro i musulmani sono, oltre che prova di rozzezza culturale, un favore reso a chi si serve delle religioni per altri interessi, che di religioso non hanno nulla, perché misconoscono e indeboliscono la posizione di una larga maggioranza di credenti islamici che con la violenza non hanno nulla a che fare. Identificare l’Islam con la sua frangia più intollerante ed estremista sarebbe come identificare il cristianesimo con le idee della Lega, assumendola come sua unica rappresentante.
Resta il problema di cosa fare. Molti oggi sono per una risposta ferma sul piano militare. Altri – soprattutto nel mondo cattolico – sono convinti che la guerra sia sempre un male. Confesso che vedo le ragioni di ambedue ma che, per quanto mi riguarda, sono colpito da un altro problema, a mio avviso molto più radicale. Che è quello della silenziosa complicità che da troppo tempo lega l’Occidente alle rappresentanze peggiori del mondo islamico e che rende ipocrite le grandi dichiarazioni di principio contro le sue tristi imprese.
Parliamo di ciò che abbiamo più vicino: «L’Italia, assieme alla Francia, è tra i maggiori esportatori di armi da guerra nelle regioni arabe, nonostante ci sia nel nostro Paese una legge del 1990 che vieterebbe la vendita di armi a Paesi in guerra. I politici che piangono, magari sinceramente, e dichiarano lotta senza quartiere al terrorismo, sono gli stessi che non fanno nulla per ridurre l’export di armi, e che difendono queste industrie nazionali che muovono grosse quote di Pil e centinaia di migliaia di posti di lavoro» (Luigino Bruni, in «Avvenire» del 17 novembre 2015).
Alcuni fatti. Dal 2005 al 2012 l’Italia ha fornito armi per 375,5 milioni di euro alla Libia. Dal 2012 al 2014 abbiamo venduto armi al Kuwait per 17 milioni di euro. E tra pochi giorni, grazie alla mediazione del governo italiano, verrà firmato il contratto con cui un consorzio europeo in cui Finmeccanica pesa per quasi la metà, avrà la più grossa commessa mai ottenuta dalla nostra azienda, la fornitura di 28 caccia Eurofighter, per ben 8 miliardi di euro, sempre al Kuwait. Proprio pochi giorni fa da Cagliari sono partiti missili verso la Siria, prodotti e venduti da imprese italiane. Secondo lo «Stockholm International Peace Research Institute», l’Italia è stata la maggior esportatrice di armi in Siria nell’ultimo decennio, per l’importo di 131 milioni di euro (S. Pasta, in «Il Fatto quotidiano» del 17 novembre 2015).
A me sembra che le parole decisive, in questo momento, siano quelle che Luigino Bruni ha scritto su «Avvenire»: «Non si può nutrire il male che si vuol combattere. Noi lo stiamo facendo, e da molti anni. Non ce ne accorgiamo finché qualche scheggia di quelle guerre non arriva dentro le nostre case e uccide i nostri figli. In realtà sappiamo che finché l’economia e il profitto saranno le parole ultime delle scelte politiche, poteri così forti che nessuna politica riesce a frenare, continueremo a piangere per lutti che contribuiamo a provocare».
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