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Verso la costruzione di una comunità scientifica vigile e aperta.

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di Sabrina Corsello

 

La ricerca scientifica, oggi più che mai, richiede un ripensamento delle sue modalità sotto molteplici aspetti.

La crisi economica  che ha investito l’Italia non ha certo risparmiato questo settore che, inevitabilmente, ha risentito dei tagli  operati nei confronti della cultura in generale, i cui finanziamenti peraltro storicamente sono stati sempre piuttosto carenti. Viviamo una fase in cui necessariamente si devono fare i conti con una povertà di risorse che, se da un lato ci penalizza nelle aspirazioni, dall’altro ci sta offrendo la preziosa opportunità di fare discernimento tra quelli che possono essere considerati i bisogni reali della nostra società e quelli che invece possono considerarsi indotti. Da questo punto di vista, questo è il momento propizio per fare luce anche su quei meccanismi che, per quanto ormai consolidati, hanno chiaramente influito in modo negativo nel nostro sistema sociale ed economico. Ritengo che, tra questi, la ricerca scientifica, in particolare quella umanistica, sia un ambito al cui interno tali meccanismi siano ancora operanti e causa di distorsioni che, come vedremo, hanno implicazioni sia nell’ambito scientifico che in quello didattico.

 Come è noto, tra i vari  possibili percorsi post lauream, vi è anche quello della ricerca scientifica accademica, cui di solito si accede partecipando ad un concorso per conseguimento del titolo di dottore di ricerca. I cd. dottorandi ben presto si accorgono di dover fare i conti, loro malgrado, con quella che si presenta da subito come una delle preoccupazioni dominanti, ossia riuscire a  trovare il modo di pubblicare.

 

È proprio da questa possibilità che, di fatto, viene a dipendere la possibilità di far circolare le proprie idee e, in ultima analisi, il proseguimento dell’attività di ricerca la quale, peraltro, viene strettamente connessa alla possibilità della carriera accademica. La necessità di pubblicare costringe quindi il giovane studioso ad impiegare parte del suo tempo nel perseguimento di tale obiettivo, sottraendo tempo ed energie a quello che dovrebbe essere il vero fine, ossia quello della propria formazione, dell’individuazione di un ambito di ricerca  e dell’acquisizione di un metodo che possa dirsi scientifico.

A ben vedere, il confronto forzato con la pubblicazione, in realtà, avviene ben prima,  tra i banchi accademici, non appena l’ignaro studente (forse futuro ricercatore) nel prepararsi a sostenere un esame,  si trova costretto a cimentarsi con la cosiddetta monografia del professore di turno. Non di rado infatti, persino le matricole, magari alle prese con una materia che dovrebbe essere propedeutica, sono costrette a misurarsi piuttosto che con i classici del pensiero, con un testo di nicchia che è, o dovrebbe essere, il risultato ultimo di un lungo e articolato percorso di ricerca e che, in quanto tale, non si presta affatto a finalità didattiche.

Per comprendere le motivazioni di questo meccanismo, proviamo brevemente a capire qualcosa in più della natura e delle finalità di questa tanto agognata pubblicazione.

In Italia la ricerca è per lo più legata ai contesti accademici che, a tal fine, dispongono (oggi, in piena crisi economica, decisamente meno che nel passato) dei cosiddetti fondi di ricerca e cioè appunto di fondi che dovrebbero essere destinati a finanziare la ricerca e dunque a sostenerne i costi. Questi ultimi, soprattutto nell’ambito delle discipline umanistiche, purtroppo il più delle volte finiscono con il coincidere del tutto o quasi con quelli della pubblicazione, piuttosto che con quelli volti al sostegno dell’attività di ricerca vera e propria, la quale dovrebbe precedere e giustificare la possibilità stessa della pubblicazione, intesa solamente come fase ultima del processo scientifico. Basta fermarsi dinanzi all’evidente senso etimologico, per comprendere che pubblicare vuol dire rendere pubblico, ossia rendere noto al maggior numero possibile di persone gli esiti di una ricerca, che dunque della pubblicazione è il contenuto.

Ma cosa avviene nella realtà?

La recente riforma del sistema universitario riduce drasticamente l’ambito dei titoli scientifici  valutabili ai fini concorsuali, privilegiando le pubblicazioni delle case editrici ritenute prestigiose, in quanto accreditate dalla presenza del referee (lett. arbitro, giudice) competente ad emettere un responso valutativo, il report. Si dà così per scontato che il parere degli editori e dei loro referenti sia garanzia della validità scientifica dei contenuti. Tuttavia, per quanto rimanga valida l’idea che questi ultimi siano oggetto di previa selezione, passando al vaglio di esperti, l’attuale sistema ha mostrato evidenti carenze, determinate dal fatto che non è mai stato pensato un meccanismo di controllo in grado di garantire la posizione autonoma e neutrale del referee rispetto all’editore. Pertanto, in ultima analisi, sarebbe di fatto la stessa casa editrice il soggetto idoneo a valutare la rilevanza scientifica di un lavoro, nella misura in cui essa stessa diviene il soggetto abilitato a selezionare ciò che, divenendo oggetto di pubblicazione, può circolare all’interno della comunità scientifica.

Di tale sistema che, di fatto, finisce con il rafforzare la privatizzazione della ricerca, le case editrici hanno inevitabilmente tratto profitto; ciò che accade è che anche l’editore più prestigioso raramente si accerti del valore scientifico del testo da pubblicare e che per lo più si limiti a chiedere all’autore se sia in possesso del denaro necessario per sostenere i costi (spesso molto elevati) della pubblicazione. Sempre la logica del profitto porta la casa editrice a imporre non solo la rinuncia al diritto d’autore, ma spesso anche l’adozione della pubblicazione stessa come libro di testo. Ed è proprio qui che ritroviamo il nostro studente, piuttosto confuso e perplesso, davanti a quei grossi libri che dedicano centinaia di pagine ad argomenti che a lui non possono che apparire del tutto secondari e marginali, nell’economia dell’intera materia che dovrebbe studiare.

D’altro canto ciò che consegue inevitabilmente da questo stato di cose è un rafforzamento del sistema oligarchico accademico, dal momento che ogni aspirante ricercatore non può in alcun modo riuscire a dare visibilità agli esiti della sua ricerca, né tanto meno a condividerla, se non mettendosi al seguito di un professore capace di fargli da apripista nel mondo editoriale. Questo sistema, ineluttabilmente, finisce dunque con il favorire e perpetuare i monopoli intellettuali, cui viene demandato sia il potere della selezione di ciò che è da considerarsi scientificamente rilevante, sia il controllo dell’informazione; infatti, si tratta ovviamente di pubblicazioni ad accesso riservato che, in quanto tali, sono fruibili solo dietro il pagamento di un corrispettivo.

Quale l’alternativa dunque alle perversioni di un sistema che mischia le logiche del profitto con quelle della conoscenza e che, per lo più, sembra liquidare le esigenze del sapere con quelle dell’informazione?

Di certo non può essere soluzione ai problemi tracciati quella di assecondare lo status quo, rinvenendo semplicisticamente nuove fonti di finanziamento o nuovi fondi di ricerca, specie a fronte della crisi economica che attraversa il Paese. A ben vedere, non si tratta di trovare soluzioni di tipo economico, ma di promuovere un cambiamento del nostro modo di pensare la cultura, che consenta di liberarla, per quanto è possibile, dalle logiche del profitto e di ricondurla al suo vero fine. Si tratta, cioè, di comprendere che il progresso scientifico non potrà mai essere del tutto sganciato dal fine della ricerca della verità, la quale necessita del libero confronto delle opinioni e dalla più ampia circolazione delle idee.

A tal fine, oggi una risorsa preziosa ci viene offerta dalla rete attraverso l’open access, ossia dall’esistenza di siti aperti in cui ad ogni persona è data la possibilità di intraprendere un percorso di ricerca e di condivisione scientifica pubblica, a costi praticamente nulli. Il sistema dell’accesso aperto consente di eludere il passaggio obbligato della selezione ex ante da parte delle case editrici e di ridefinire il criterio valutativo all’interno del processo scientifico. La selezione diviene, infatti, parte integrante del percorso di ricerca, il cui svolgimento, attraverso l’uso e la riproduzione dei contenuti e delle informazioni immesse in rete, funge da principio selettivo operante. Questo sistema aperto si porrebbe, dunque, come quella valida alternativa che, finalmente, rende possibile arginare e neutralizzare i rischi di quel monopolio scientifico mirante più al controllo dell’informazione, che alla vera condivisione e alla libera circolazione del sapere. A differenza di quello riservato, l’accesso aperto, inoltre, è in grado di garantire quella rapidità necessaria per rendere fruibili gli esiti e i processi della ricerca in tempo reale[1].

In tal modo sarà possibile operare il passaggio da un sistema di pubblicazione centrato prevalentemente sulla ricerca dell’originalità e dell’inedito, che pone l’enfasi sulla proprietà intellettuale, a un sistema che punta sulla condivisione dei metodi e delle piste di ricerca e che, per il suo stesso funzionamento, sostiene e incoraggia la collaborazione orizzontale.

L’idea di fondo è, infatti, quella per cui il reale progresso scientifico presupponga la prioritaria costruzione di una comunità scientifica vigile e aperta.

Vigile, nella misura in cui essa stessa si mostra capace di prendersi la responsabilità della valutazione scientifica e dunque di riconoscere e selezionare i contenuti che realmente rappresentino un’evoluzione del sapere, tenendo conto delle conoscenze storiche acquisite. 

Aperta, in quanto disponibile al nuovo e capace di accogliere e dare spazio al suo interno a tutti coloro che, in un modo o in un altro, siano in grado di dare, a vario titolo, un contributo significativo allo sviluppo della scienze. Si tratta di procedere verso un vero cambiamento culturale che si muova in vista del superamento del sistema oligarchico e verso la costruzione di una vera comunità di conoscenza, il cui fondatore sia l’autore piuttosto che l’editore e in cui, pertanto, la libera circolazione delle conoscenze acquisite sia immediata e pubblica.

Tuttavia perché ciò sia possibile, innanzitutto, è necessario che, anche nel campo della ricerca, si abbandoni ogni logica individualistica e si affermi sempre più la consapevolezza che non è mai il singolo individuo a rendere possibile il progresso, ma è la comunità scientifica nel suo insieme che, creando un terreno fertile di scambi e di condivisione, rende in tal modo possibile la fioritura dei talenti individuali. Al suo interno infatti gli studiosi, ben lungi dall’essere chiamati ad essere a tutti i costi originali, sono chiamati a svolgere il proprio lavoro nella consapevolezza dell’appartenenza ad una comunità di conoscenza in cui “ ciò che conta non è l’originalità ma la continuità e la condivisione di un’esperienza cognitiva” [2]. A tal fine, è necessario comprendere l’evoluzione e la condivisione del sapere come un bene comune dell’intera comunità scientifica.

Il problema non è, dunque, quello di individuare nuovi meccanismi di controllo esterni alla comunità scientifica, bensì quello di determinare i presupposti per una condivisione del sapere in tutti gli stadi del suo processo formativo, in modo tale da renderla, in ogni suo passaggio, una potenzialità per l’intera comunità scientifica, che così sarà in grado di crescere e rafforzarsi dal suo interno. Si tratta di uno strumento della società orizzontale aperta, in grado di fornire un modello capace di incoraggiare, specie nelle nuove generazioni, non solo la fiducia nel pieno dispiegamento delle proprie potenzialità e inclinazioni, ma anche nel valore della condivisione, contro il dominio della paura e le logiche del privilegio e del potere.

 In linea con queste nove esigenze, stiamo così assistendo sempre più alla nascita di pagine in rete accessibili a tutti indistintamente, come ad esempio la pagina in cui scrivo. Tuttavia infatti, pur essendo un sito definito da una chiara appartenenza diocesana, offre a tutti indistintamente, laici e fedeli,  la possibilità di esprimere e condividere liberamente il proprio pensiero e di accedere gratuitamente e con facilità ai contenuti che propone.

                                                                                                                                                                                                                                                                

 

N.B. Per un approfondimento del tema della comunità scientifica aperta e in particolare dell’open access, rimando alla voce autorevole della prof. Maria Chiara Pievatolo, docente dell’Università degli Studi di Pisa. Qui di seguito alcuni link molto utili:

http://www.youtube.com/watch?v=KtYEGNQnkeg

http://www.youtube.com/watch?v=Df0eTQTf-K0

http://www.youtube.com/watch?v=9iVkctKP0eo

 



[1] A questo proposito si pensi a quanto, nell’ambito della ricerca, i tempi dell’informazione spesso siano condizionati dai tempi concorsuali, nella misura in cui i requisiti di partecipazione vi è il possesso di titoli recenti e continuamente aggiornati, i quali dunque vengono tenuti segreti e pubblicati solo in prossimità dei concorsi. Questa logica non può che nuocere alla comunità scientifica il cui successo dipende, come è noto, anche dai tempi e dalla rapidità con cui è in grado di far circolare le sue informazioni al suo interno. La pubblicazione, infatti, prima ancora che costituire un titolo accademico, rappresenta la principale forma di comunicazione all’interno della comunità scientifica.

 

[2] Cit. M. C. Pievatolo, cfr. video sotto “Festival dei saperi”

 

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