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La fede sfrontata di fronte allo scandalo

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Introduzione alla lectio divina sul brano di Lc 18, 1-8

XXIX domenica del tempo Ordinario – 20 ottobre 2013 

1 Disse loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi: 2 «c’era in una città un giudice, che non temeva Dio e non aveva riguardo per nessuno. 3 In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: Fammi giustizia contro il mio avversario. 4 Per un certo tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: Anche se non temo Dio e non ho rispetto di nessuno, 5 poiché questa vedova è così molesta le farò giustizia, perché non venga continuamente a importunarmi». 6 E il Signore soggiunse: «avete udito ciò che dice il giudice disonesto. 7 E Dio non farà giustizia ai suoi eletti che gridano giorno e notte verso di lui, anche se nei loro riguardi si fa attendere? 8 Vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?»

  

 

Posta subito dopo il grande discorso sui tempi ultimi (Lc 17,20-32) la parabola del giudice e della vedova mette in gioco due temi: l’immagine di Dio nel tempo dell’attesa e la qualità della preghiera di fronte all’esperienza del male e dell’ingiustizia.

È lo stesso Luca a offrire una precisa chiave di lettura del brano: la parabola del giudice e della vedova insegna che bisogna pregare con costanza e tenacia, senza mollare (enkakein). Rivolta innanzitutto ai discepoli, la parabola sembra però intercettare anche l’esperienza delle comunità cristiane delle origini: incomprese e dileggiate, oppresse dal potere ufficiale, esse riponevano nella preghiera la loro unica e ultima speranza di giustizia, senza per questo avere risparmiate sofferenza, umiliazione e morte (cfr. At. 12,5: Pietro dunque era tenuto in prigione, mentre una preghiera saliva incessantemente a Dio dalla Chiesa per lui; v., inoltre, 12,12; 16,25).

Luca, dunque, sa bene che quando il grido d’invocazione si infrange dinanzi al silenzio assordante di Dio, la preghiera rischia di essere avvertita come tempo sprecato e fatica vana. Di più, sa che nell’attesa prolungata del Regno e nella lentezza di Dio si cela un’insidia ancora più profonda: che, cioè, Dio stesso divenga agli occhi del credente un giudice ingiusto, un complice colpevole che, con la sua inerzia, lascia che il male si abbatta sull’innocente.

 Ecco allora che la parabola narrata da Gesù offre a quegli uomini e quelle donne una prospettiva con cui identificarsi.

Due icone vi si fronteggiano, ugualmente iscritte nella memoria biblica e nella realtà quotidiana del tempo. Da una parte, un giudice non-giudice, riluttante a qualsivoglia scrupolo religioso e totalmente compreso nella sua altezzosità. Poiché non ha timore di Dio (Sal XIV,4;21,23; 24,12 ecc.) le istanze sacrosante della vedova non lo toccano: amministrare la giustizia per lui non significa proteggere l’indifeso, come invece sarebbe suo dovere (Es 23,6-8; Dt 25,1; Is 1,17; 5,23; Ez 44,24), ma piuttosto esercitare un puro arbitrio umorale.

Di fronte a lui, la vedova, personaggio socialmente vulnerabile, quasi simbolo del debole e dunque oggetto, nella Scrittura, di particolare protezione (Es 22,21-23; Dt 10,18; Dt 24,19-22; 27,19; Pr 15,25; Is 1,17.23; 10,1-2; Ger 5,28; 7,6; 22,23; Ez 22,7; Zac 7,10; Mal 3,5). Conscia del proprio bisogno e del fatto che solo il giudice potrà accordarle ciò che le è dovuto, ella mette in campo l’unica arma a sua disposizione: una testardaggine talmente disarmata che rasenta l’improntitudine. Così, si presenta al suo antagonista infinite volte, reclamando ogni volta i propri diritti, senza provare alcun imbarazzo, fino a fiaccarne la resistenza.

Pazienza indefessa, capacità di accogliere il silenzio prolungato di Dio, di ingaggiare con lui una lotta quasi mortale danno dunque alla preghiera cristiana il suo carattere peculiare. Per questo, nell’episodio di Giacobbe e dell’angelo (Gn 32,25-30) essa è concepita come un agon senza esclusione di colpi radicato in una dimensione della fisicità che del resto pervade, sia pure in una dimensione ormai metaforica, anche il nostro brano: il “fastidio” (delle traduzioni ufficiali) che il giudice prova per l’insistenza della della vedova è, in realtà, nell’originale greco una percossa (v. 5, kopos) mentre il verbo “importunare” vale in realtà “fare un occhio nero”, sia pure nel senso traslato di “esporre alla vergogna”.

La preghiera cristiana – sembrano, dunque, suggerire queste immagini – non può essere ridotta a una pratica da gentiluomini, a un mero rituale da galateo religioso.

Al contrario, essa richiede, al cospetto di Dio, la stessa sfrontatezza (anaideia) di quell’uomo, citato da Gesù stesso, che non teme di importunare l’amico a tarda notte per farsi prestare ciò di cui ha bisogno. Chiede forse, in definitiva, di spogliarsi di ogni maschera di convenienza, di ogni orpello spirituale, poiché si è riconosciuto Dio come unica sorgente di bene e di giustizia.

Proprio per questo, la preghiera non può che rimandare, necessariamente, alla dimensione della fede nel Dio della giustizia. Col suo tipico modo di ragionare a fortiori è Gesù stesso che, come in altre occasioni, (cfr. già l’analoga considerazione in 11,13) intende sedare i dubbi dei discepoli su questo aspetto: se il giudice iniquo ha ascoltato una buona volta la vedova, tanto più Dio, giudice giusto, verrà in soccorso degli eletti che lo invocano giorno e notte.

Egli ha pazienza (makrothymèi) cioè attende “con animo grande” che l’uomo, nella dimensione del tempo che gli è propria, possa in qualche modo convertirsi e portare a maturazione la propria preghiera; ma improvvisamente (v. 8 en tachei = più correttamente di “prontamente”) agirà a fare giustizia.

Ecco, dunque, il cuore della rivelazione di Gesù: ciò che neppure il male e l’ingiustizia possono revocare in dubbio è l’ascolto che Dio presta al grido di dolore dell’oppresso e della vittima d’ingiustizia. Ciò che neppure l’esperienza concreta del male può far dimenticare all’uomo di fede è la promessa, da parte di Dio, di un tempo di giustizia, di un ordine del bene. Ma sulle prospettive che l’uomo possa accogliere questa promessa, Gesù sembra, forse realisticamente, pessimista: “quando il figlio dell’Uomo tornerà, troverà la fede sulla terra?”

 

 Roberto Pomelli

 

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