di Antonio Spadaro
L’esistenza “virtuale” appare configurarsi con uno statuto ontologico incerto: prescinde dalla presenza fisica, ma offre una forma, a volte anche vivida, di presenza sociale.
Essa, certo, non è un semplice prodotto della coscienza, un’immagine della mente, ma non è neanche una res extensa, una realtà oggettiva ordinaria, anche perché esiste solo nell’accadere dell’interazione. Le sfere esistenziali coinvolte nella presenza in Rete sono infatti da indagare meglio nel loro intreccio. Si apre davanti a noi un mondo “intermediario”, ibrido, la cui ontologia andrebbe indagata meglio in ordine alla comprensione teologica.
Certamente una parte della nostra capacità di vedere e ascoltare è ormai palesemente “dentro” la Rete, per cui la connettività è ormai in fase di definizione come un diritto la cui violazione incide profondamente sulle capacità relazionali e sociali delle persone. La nostra stessa identità viene sempre di più vista come un valore da pensare come disseminato in vari spazi e non semplicemente legato alla nostra presenza fisica, alla nostra realtà biologica. […]
Come osserva papa Francesco, nella parabola evangelica del “prossimo”, cioè del “comunicatore”, il levita e il sacerdote «non videro la realtà di un loro prossimo, ma la “pseudo-realtà” di un “estraneo” da cui era meglio tenersi a distanza». E oggi questo è il rischio: «che alcuni media stabiliscano una “legge” e una “liturgia” capaci di indurci a ignorare il nostro prossimo reale per cercare e servire altri interessi».
Ciò vale anche per le “leggi” e le “liturgie” cristiane: evangelizzare non significa affatto fare “propaganda” del Vangelo. Non significa «trasmettere» messaggi di fede. Il Vangelo non è un messaggio tra i tanti altri. Dunque evangelizzare non significa «inserire contenuti dichiaratamente religiosi» su Facebook e Twitter. E inoltre la verità del Vangelo non trae il suo valore dalla sua popolarità o dalla quantità di attenzione (dei “mi piace”) che riceve. Al contrario il Papa ribadisce la necessità a essere disponibili verso gli altri uomini e donne che ci stanno attorno, a «coinvolgersi pazientemente e con rispetto nelle loro domande e nei loro dubbi, nel cammino di ricerca della verità e del senso dell’esistenza umana».
Testimoniare dunque significa innanzitutto vivere una vita ordinaria alimentata dalla fede in tutto: visione del mondo, scelte, orientamenti, gusti, e quindi anche modo di comunicare, di costruire amicizie e di relazionarsi fuori e dentro la Rete. E di conseguenza anche, come ha scritto il Papa, «testimoniare con coerenza, nel proprio profilo digitale e nel modo di comunicare, scelte, preferenze, giudizi che siano profondamente coerenti con il Vangelo, anche quando di esso non si parla in forma esplicita».
La Chiesa in Rete è chiamata dunque non a essere una «emittenza» di contenuti religiosi, ma una «condivisione» del Vangelo in una società complessa. Il Vangelo non è merce da vendere in un “mercato” saturo di informazioni. Spesso risulta molto efficace un messaggio discreto capace di suscitare interesse, desiderio della verità e muovere la coscienza. Questo permette di evitare la trappola dell’assuefazione a un annuncio che viene ritenuto già noto, già visto, già ascoltato. Nella testimonianza occorre apprendere dall’episodio dell’incontro del Cristo risorto con i discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35), dove il Signore si accosta ai due uomini «col volto triste», aprendo con delicatezza il loro cuore al riconoscimento del mistero.
La possibile separazione tra connessione e incontro, tra condivisione e relazione implica il fatto che oggi le relazioni, paradossalmente, possono essere mantenute senza rinunciare alla propria condizione di egoistico isolamento. Sherry Turkle ha riassunto questa condizione nel titolo di un suo libro: Insieme ma soli. La frattura nella prossimità è data dal fatto che la vicinanza è stabilita dalla mediazione tecnologica per cui mi è “vicino”, cioè prossimo, chi è “connesso” con me.
Qual è il rischio, dunque? Quello di essere “lontano” da un mio amico che abita vicino ma che non è su Facebook e usa poco l’email, e invece di sentire “vicino” una persona che non ho mai incontrato, che è diventata mio “amico” perché è l’amico di un mio amico, e con la quale ho uno scambio frequente in Rete.
Questa stranezza ha radici profonde nell’anonimato della società di massa. Fino all’inizio del XX secolo la maggior parte della popolazione viveva in ambito agricolo, e le persone conoscevano certo non più di pochissime centinaia di volti nella loro vita. Oggi è normale il contrario, cioè il non riconoscere i visi incontrati per strada, ed è ovvio che il prossimo è sostanzialmente uno sconosciuto. Il passaggio problematico è che si comincia a valutare la prossimità con criteri troppo elementari, privi della complessità propria di una relazione vera, profonda.
La tecnologia abitua sempre più il cervello ad applicare l’esperienza del videogame, che si basa sulla logica “risposta giusta/risposta sbagliata” agli stimoli che inviamo al nostro interlocutore. Cristianamente il “prossimo”, però, non è certamente colui che offre “risposte giuste” ai nostri stimoli nei suoi confronti. La logica evangelica è molto chiara al riguardo: «Se amate quelli che vi amano, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori amano quelli che li amano. E se fate del bene a coloro che fanno del bene a voi, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto. Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e la vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell’Altissimo (Lc 6,32-35).
Quando poi l’evangelista Luca parla di “fare del bene” oggi dovremmo intenderlo nel senso più letterale possibile. Il contatto da videogame in Rete si sviluppa sostanzialmente grazie a “parole”, cioè racconti, messaggi scritti. Una volta, ad esempio, essere amici per i giovani era possibile solamente se si faceva qualcosa insieme, se c’era un’attività condivisa, dall’andare a mangiare una pizza al suonare insieme o partecipare a un gruppo. Oggi invece è possibile essere “amici” anche semplicemente scrivendo la propria vita su una bacheca elettronica.
Articolo tratto da “Avvenire”, 26 novembre 2015
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